Gli americani, come la maggior parte della gente in generale, ammirano le famiglie che sono riuscite ad accumulare e mantenere la ricchezza. Ma non è la ricchezza da sola che conta per ottenere il rispetto proprio delle famiglie più in vista del paese. Per intere generazioni i patrizi d’America hanno trasformato benessere e potere in prestigio attraverso collezioni d’arte e altre attività culturali. Nonostante la ben nota tendenza americana a sguazzare in un grossolano consumismo, il prestigio autentico è fondato sulla sponsorizzazione della arti e sulla filantropia di alta classe, e non su ville kitsch e Cadillac in garage. Perfino quando una collezione privata non è accessibile al pubblico, il semplice fatto che esista attribuisce al proprietario un’aura di benevolenza e di classe. Famiglie in vista, quali i Rockefeller e i Mellon, danno uno straordinario esempio di patronato artistico inteso come ingrediente importante per la trasformazione della propria immagine pubblica da volgare capitalista in benevolo aristocratico.
Negli anni Sessanta la possibilità di valorizzazione della propria immagine attraverso il collezionismo d’arte fece un passo avanti. Con il giusto tipo di collezione d’arte si poteva non solo acquistare uno status ma anche notorietà attraverso i mezzi di comunicazione.
Negli anni Settanta il patronato artistico come “costruttore d’immagine” è andato perfino oltre questo. Divenne chiaro che le industrie potevano usare l’arte per ottenere il medesimo prestigio ottenuto dai collezionisti privati. In effetti, l’arte diventò molto più che semplice accrescimento dell’immagine, divenne parte integrante delle pubbliche relazioni di ogni azienda. La Philip Morris Inc. ha utilizzato l’arte come image-maker (creatore d’immagine) più estesamente e con più successo, forse, di qualsiasi altra azienda. I principali prodotti di questa industria comprendono sigarette, birra e bibite gasate. Una è causa di cancro polmonare, l’altra contribuisce ad accrescere l’alcolismo e gli incidenti stradali, la terza produce carie dentaria. E una azienda con una simile linea di prodotti si trova con un’immagine piuttosto vulnerabile. La Philip Morris dunque avrebbe potuto facilmente essere considerata dal pubblico come causa di malattie e vizi, una parassita insomma, dell’economia americana. Invece la Philip Morris è probabilmente vista più come una società innovativa e progressista, una delle corporazioni più all’avanguardia. George Weissman, attualmente il presidente della compagnia e che fu il brillante agente di pubbliche relazioni che creò l’Uomo Marlboro per dare alle sigarette con filtro un’immagine virile, è stato altrettanto brillante nell’uso del patronato artistico nel manipolare l’immagine della compagnia. Una delle più grosse aziende di pubbliche relazioni del paese, la Ruder and Finn, dispone un intero reparto specializzato nelle sponsorizzazioni artistiche per creare precise immagini aziendali.
La celebrità di collezionisti di Pop Art anni Sessanta, come Robert Scull, ha avuto un effetto ancora maggiore dell’istigazione all’arte come relazioni pubbliche dell’industria. Agli americani nulla piace più di uno schema per diventare ricchi in fretta, e Robert Scull ha dimostrato che il collezionista di opere d’arte è forse il metodo più facile, elegante e perfino più gradevole per guadagnare velocemente denaro.
L’attenzione creatasi per l’arte e per i collezionisti d’arte negli anni Sessanta stimolò anche il formarsi di un’intera generazione di potenziali collezionisti. Gli adolescenti degli anni Sessanta hanno oggi raggiunto l’età dei compratori d’arte e ora più che mai il mercato dell’arte è un posto per professionisti di classe media. Sono già abbondantemente superati i tempi in cui l’arte era territorio riservato ai super-benestanti e dell’élite culturale.
Nonostante gli effetti dell’inflazione e i recenti tagli sui crediti, la classe professionale orientata verso il successo in America sta di questi tempi vivendo molto bene. La possibilità di acquistare arte e merci di lusso è diventata largamente accessibile. Però i travagli dell’inflazione hanno condizionato così profondamente la psicologia economica americana che i compratori sofisticati temono di non poter più continuare semplicemente a investire denaro in prodotti di lusso. Ogni acquisto, anche il più stravagante deve essere anche un investimento. La gente è arrivata a capire che l’unico modo per conservare i propri capitali consiste nell’investirli in immobili e merci che mantengono il proprio valore mentre il denaro ne perde. Una giovane coppia appena terminata la scuola acquisterà probabilmente una orribile casa di tre camere da letto benché non necessiti affatto di tale spazio, perché si dice che l’immobile fa parte di uno dei migliori investimenti che si possono fare. La giovane classe medio-borghese ha questa medesima attitudine verso il collezionismo d’arte. I laureati della generazione del baby-boom hanno avuto molte più opportunità di educare se stessi alla storia dell’arte che le precedenti generazioni, e le arti hanno aumentato la loro popolarità. Un pubblico decisamente più vasto ha oggi la capacità e le possibilità di comprare arte.
La nuova generazione di collezionisti compra arte nello stesso modo in cui compra la seconda casa, e proprio come la casa, l’arte oltre che status-symbol di estetica gradevole, deve esser un buon investimento. Questa praticità necessaria per resistere all’inflazione, mescolata al gusto per il lusso e l’alta cultura di una generazione ricca, sta alla base del buon mercato artistico americano degli anni passati. Questo tipo d’investimento che negli anni Sessanta si sarebbe rivolto alla Borsa valori si sta trasformando sempre più in una scelta per beni immobili, arte e altre cose tangibili. La gente pensa di dover per lo meno riuscire a fruire di questi beni di consumo mentre il valore del dollaro declina, ritrovando questo tipo di orientamento nell’acquisto di generi di ogni tipo.
Eppure l’attuale follia per l’arte è qualcosa di più che solo una paura dell’inflazione, livelli di educazione migliorati e l’esempio ispirante di Robert Scull. La moda attuale per le arti e la cultura avanzata va intesa in un contesto che comprende lo straordinario consumismo di tutta la società.
Lo sviluppo del capitalismo americano era basato sui principi austeri dell’etica protestante. Veniva insegnato il duro lavoro e la vita modesta. I frutti del lavoro individuale andavano investiti in altri affari affinché le generazioni future ne potessero beneficiare e riconsiderare con ammirazione la determinazione dei loro predecessori. L’etica protestante insegnava il rifiuto dei piaceri superflui. Ma la straordinaria ironia della storia economica americana è che proprio l’espandersi dell’edonismo ha fatto prosperare le imprese americane. Molti di quei sobri capitalisti hanno fatto le loro fortune convincendo gli americani della loro capacità a fare a meno di qualsiasi nuovo bene di consumo. L’erosione momentanea della loro morale fondamentale è stata esplorata da Daniel Bell in Le contraddizioni culturali del capitalismo. Forse la preoccupazione dominante americana è questo culto del materialismo. Gli americani sono riusciti infatti a misurare la loro identità catalogando le loro proprietà e confrontandole con quelle dei loro vicini di casa. Una casa nel quartiere giusto, due figli all’università, due automobili nuove davanti a casa, un freezer e una pelliccia di visone nell’armadio erano sufficienti per permettere a quasi qualsiasi americano di respirare a fondo e sorridere soddisfatto. Ma negli scorsi quindici anni, costruire questa lista stereotipa di autocompiacimenti è diventato un po’ più complicato. L’attuale stretta inflazionistica, con il conseguente abbassamento degli standard di vita americani, potrebbero cambiare tutto questo, anche se la classe professionale nuova resta ancora protetta.
Orbene, cosa fanno quelle persone contagiate dall’impulso consumistico fin dall’infanzia e che danno per scontato o comunque hanno già provato quasi tutto ciò che offre il mercato? Qui, il consumismo si porta su un piano più elevato. Il riflesso condizionato a comprare o a sforzarsi di avere l’ultimo oggetto alla moda si sposta nell’area culturale. Le persone i cui genitori si confrontavano con i loro contemporanei sulle basi di concrete proprietà e successi, ora acquistano lo status sociale al mercato della cultura. Al livello più basso il nocciolo della questione non è più se si posseggono o no dei jeans alla moda, bensì quale jeans si possiede.
Gli ultra consumatori sono arrivati assai oltre la dipendenza della propria identità del possesso dei tradizionali prodotti di consumo alla televisione. Il loro nuovo terreno è il mondo della moda avanzata e degli utensili per un “cibo-status”, già splendidamente celebrati dal New York Times Living Sections. Eppure, per il consumatore più raffinato, perfino le complicazioni dei consumi “in” nel mondo della moda sono date per scontate. La loro arena di confronti non è più nella cultura applicata bensì nell’alta cultura.
Conoscere chi sono i migliori giovani artisti, non perdere le mostre d’arte di cui si parla in giro e trovare un ingresso all’interno del mondo dell’arte sono oggi tra gli interessi dei consumatori più all’avanguardia. Non solo gli oggetti d’arte, ma l’esperienza artistica stessa è diventato l’ultimo bene di consumo. Gran parte del successo di Manhattan di Woody Allen è dovuto all’abilità dimostrata da Allen nell’offrire già confezionata l’impressione di un mondo letterario e artistico vissuto dal di dentro per le migliaia di consumatori di cultura desiderosi di farne parte.
Fino a poco tempo fa gli artisti erano gente che viveva ai margini della società. Perfino i più stimati tra loro erano appena in grado di sopravvivere. Oggi l’artista è non solo il produttore di uno dei più ricercati metodi d’investimento degli ultimi dieci anni, ma anche il produttore dell’ultimo bene di consumo allo stesso tempo. Questo nuovo stato di cose negli affari è considerato vergognoso e disturbante da coloro che ne hanno una coscienza, ma presenta un’opportunità straordinaria per quegli artisti in grado d’immaginare come utilizzarla.