Ricorre nell’arte dell’ultimo decennio l’utilizzo dell’acronimo 3D, che letteralmente sta per “tre dimensioni”, ma nell’uso comune il termine si presta a definire pratiche molto differenti tra loro. Se applicato alla fotografia, si intende la realizzazione d’immagini stereoscopiche anaglifiche, quelle per intenderci che necessitano degli occhialini per dare corpo a forme che inizialmente appaiono fuori registro. Tecnica molto in voga nel cinema degli anni Cinquanta, che l’artista italiano Armin Linke utilizza nella serie fotografica “Immaginario nucleare” (2009) mostrando gli ambienti deserti delle centrali di Garigliano e Latina, oggi in disuso. Più recentemente anche il tedesco Thomas Ruff, recuperando materiale fotografico stereoscopico negli archivi della NASA, trasforma dati raccolti per la ricerca scientifica in immagini di grandi dimensioni da valutare esteticamente (3D-ma.r.s., 2012). L’utilizzo forse più appropriato del termine lo si ha però quando si parla di computergrafica tridimensionale, dove la terza dimensione non è necessariamente percepita in quanto tale, ma identifica piuttosto la gabbia prospettica su cui si basa la costruzione delle forme. Parliamo di una disciplina molto complessa e ancora troppo poco esplorata che, a differenza di quanto si crede, non rappresenta solo l’amplificazione di possibilità già sviluppate in altri ambiti, e non si risolve mediante schemi già conosciuti, ma si tratta di una possibile strada dell’arte che differisce dalle tecnologie di tipo ottico. La sua specificità è da ricercarsi nella costruzione ex novo di forme che hanno ragione di esistere in una dimensione temporale: si parla infatti di animazioni, cioè forme alle quali viene restituita un’anima mediante il computer. Per farlo è necessario distribuire l’immagine sintetica nel tempo: si passa quindi da un’arte “lens-based”, come la fotografia o il cinema, a una “time-based”, dove il movimento è generato da un software. Per questo motivo quando parliamo di computergrafica 3D ci riferiamo a video o film. Se incontriamo immagini statiche che portano questa indicazione tecnica si tratta solitamente di derivati, degli still, così come accade nella videoarte tradizionale.
Saltuariamente si sono avvalsi della computergrafica tridimensionale anche artisti solitamente più propensi all’utilizzo di altri linguaggi. Come Eva Marisaldi nel video Cuckoo (2002), dove una carrozza tirata da cavalli si muove in un bosco immerso in un’atmosfera onirica e fiabesca. L’artista belga Hans Op de Beck, in The Building (2007), guida l’osservatore attraverso le stanze di un ospedale fittizio, dove l’escursione notturna non è vissuta in prima persona dal visitatore, bensì generata al computer. In modo più sistematico, anche se ibrido, lavora con la computergrafica il collettivo russo AES+F. Nei loro video spesso è lo sfondo a essere ricostruito interamente al computer, mentre in primo piano si alternano immagini fotografiche che si fondono fra loro con effetto morphing. Come si può notare nella celebre Last Riot (2005-2007), convive nella stessa opera l’immagine ottica con quella sintetica. Ci sono altri artisti che combinano più tecniche insieme: animazione al computer, stop-motion, ma anche scultura e fotografia. Come lo statunitense Joshua Mosley nel video Dread (2007) che mostra una foresta in cui due personaggi, sul modello dei filosofi Jean Jacques Rousseau e Blaise Pascal, sostengono una conversazione sul rapporto con Dio e sulla necessità umana di affrontare e comprendere la natura. L’olandese Eelco Brand parte invece dalla pittura per approdare al 3D al fine di eliminare l’effetto statico del dipinto. I suoi sono video brevi, l’artista ricostruisce frammenti di paesaggio che nella realtà non esistono, non hanno un inizio né uno sviluppo narrativo e per questa ragione possono essere visti e fruiti come “quadri in movimento”.
Un altro utilizzo della computergrafica è quello praticato da Diego Zuelli che lavora con costanza e coerenza sulle peculiarità del mezzo. Per l’artista si tratta di una disciplina, non di una tecnica, e come tale la utilizza, in modo originale, esaltando le caratteristiche che la distinguono dai più tradizionali linguaggi ottici. Così come la fotografia di fine Ottocento faceva il verso alla pittura pensando di arrogarsi meriti artistici, allo stesso modo, esattamente un secolo dopo, la computergrafica 3D si è affacciata all’ambiente artistico vestendo spesso i panni della Cenerentola al servizio della videoarte. Zuelli lavora invece da più di un decennio per dare autonomia linguistica alla computergrafica, ragionando sulle possibilità offerte da questo medium ancor prima che sulle informazioni da esso veicolate. Lo si vede bene nella recente opera intitolata Tappezzeria (2011), dove l’artista sembra dialogare con il linguaggio fotografico senza emularlo, anzi, mostrando i possibili sviluppi offerti dalla computergrafica.
Di Lorenzo Oggiano è interessante invece ricordare il lavoro Quasi-Objects, un progetto avviato nel 2003 e tuttora in corso, costituito da immagini e video generati con l’utilizzo di software di modellazione e animazione tridimensionale; una pratica che lui stesso definisce “re-design organico”, che intende stimolare il pensiero e il dialogo intorno alla progressiva relativizzazione delle forme di vita naturali a seguito dell’evoluzione tecno-biologica. Nei lavori in computergrafica di frequente si riscontra quest’attitudine alla rappresentazione dell’invisibile, spesso infinitamente piccolo, ciò che anche in pittura è realizzabile ma senza la possibilità di mettere in moto quel processo generativo di cui è capace un computer. Le forme possono essere inventate, anche se di ispirazione cellulare, ma generarsi secondo processi simili a quelli che si verificano in natura. L’interesse su queste tematiche, riscontrabile nel lavoro di parecchi artisti, ha spinto alcuni di loro verso il cosiddetto video 3D stereoscopico, che in più offre la possibilità di percepire otticamente la tridimensionalità delle forme indossando appositi occhialini.
Da profani ci si pone la domanda: quali vantaggi offre questa tecnologia? (A parte l’ovvietà dell’“effetto speciale”). La risposta è da ricercarsi probabilmente nella visione “immersiva” che se ne ottiene, vicina alla visione umana fino a ora simulata dal simbolismo prospettico e non ancora eguagliata da uno strumento di pari efficacia. A questo proposito risulta di particolare interesse parlare del lavoro di Giuliana Cunéaz, indirizzato ad analizzare i processi della natura, recuperando proprio con l’ausilio delle moderne tecnologie quel contatto con essa che troppo spesso l’uomo contemporaneo tende a dimenticare. Cunéaz con i suoi lavori entra nella materia, ne documenta i processi, ma soprattutto osserva la trasformazione delle forme, nel cosmo e nel microcosmo. È interessata a comprendere le ragioni che consentono alla materia di organizzarsi in precise forme piuttosto che in altre, e non lo fa ovviamente con l’approccio della scienziata, ma avvalendosi della sensibilità in dotazione all’artista, servendosi di immagini modellate e animate in 3D, a volte apponendo segni direttamente sullo schermo.
Fra le varie possibilità offerte da una disciplina in crescita se ne scorgono alcune diciamo così “interattive”, come quella esplorata dall’artista cinese Ian Cheng, che utilizza attori in carne e ossa per realizzare azioni performative, i cui dati vengono poi inviati a un computer e tradotti in forme sintetiche. Questa tecnica, già in uso nel cinema, prende il nome di motion capture performance. Cheng la usa rompendo ogni logica narrativa e qualsiasi gusto compositivo, come si può notare nel video His Papaya Tastes Perfect (2011). Un’animazione che cresce in risposta a stimoli umani è al centro di altre opere, si pensi alla pionieristica installazione The Tree of Knowledge (1997) di Bill Viola: un attraversamento lungo e stretto da cui si scorge la proiezione di un albero realizzato in computergrafica 3D, che presenta cambiamenti nella struttura divenuti sempre più drammatici col progredire o allontanarsi del visitatore verso lo schermo. Una strada ancora poco esplorata del 3D, che darà probabilmente interessanti sviluppi, è quella della cosiddetta prototipazione rapida, ovvero la realizzazione di oggetti-sculture partendo dalla modellazione tridimensionale computerizzata. In arte si distingue la proposta del duo Driessens & Verstappen. La creazione di forme impensabili prima dell’avvento delle moderne tecnologie informatiche forse potrebbe essere una risposta alla dilagante tendenza postconcettuale degli ultimi decenni. D’altro canto ci sono artisti la cui opera non viene solitamente associata alla modellazione 3D, che risentono invece della sintesi formale derivata dall’immagine computerizzata. Si pensi a Matthew Day Jackson in The Way We Were del 2010, piuttosto che all’azzardo visivo riscontrabile nelle opere scultoree di Anish Kapoor, Tony Cragg o negli edifici costruiti dall’architetto Frank Gehry.
Sarà probabilmente ancora lunga la strada che condurrà l’opera in 3D verso la piena accettazione nel più vasto mondo dell’arte, sono dunque ancora numerosi gli ostacoli da superare. C’è da dire che alcune volte nei lavori di questo genere manca forse la creatività: spesso infatti la ricerca linguistica latita a favore di un’eccessiva santificazione della tecnica.
Per contro però bisogna ammettere che l’accettazione di queste opere risente della diffidenza di noi critici, che ci ostiniamo a leggere questi lavori con strumenti obsoleti, originariamente concepiti per analizzare forme artistiche convenzionali.