Giancarlo Politi: Ben, tu che sei un vecchio combattente Fluxus, un reduce con tante medaglie e molti ricordi, pensi che Fluxus abbia ancora una sua attualità oppure siete un manipolo di nostalgici? E cosa è cambiato in Fluxus, dalle sue origini a oggi?
Ben Vautier: Sì, ho spesso l’impressione di essere un vecchio combattente che si ripete, che dice sempre la stessa cosa, uno a cui si chiede sempre perché Fluxus è importante o cosa è cambiato. Mamma mia! Ma queste domande ce le hanno fatte già venti, dieci e cinque anni fa e ce le rifanno oggi. Comunque, posso dirti che Fluxus è importante per tre-quattro ragioni, ma oggi bisogna attendere la prossima rottura da cui ripartire e non dalla variazione e dalla produzione o dalla moda. Direi che Fluxus è stata una semirottura, vale a dire che è più importante come modo di pensare, perché negli anni Sessanta ha assunto un’attitudine di anti-arte, non arte, controarte, contro la produzione dell’opera. Un’attitudine che in seguito possiamo ritrovare dappertutto, da Warhol, all’Arte Concettuale. Negli anni Sessanta Fluxus aveva anche un messaggio, un entusiasmo, vent’anni dopo il risultato è che Fluxus non è riuscito nel suo programma di base, quello di cambiare l’arte.
GP: Allora, oggi è una routine?
BV: È come Dada o il Futurismo che hanno avuto i suoi feticisti, i collezionisti, i musei. Ma Fluxus contiene sempre qualcosa di forte che parte da Duchamp, passando per John Cage. Ci sono artisti che sono diventati post-Duchamp, post-Cage, lo stesso Fluxus ha prodotto le migliori idee nel passato anche se siamo ancora tutti nel brodo di Duchamp e Cage. Ad esempio Fluxus è più importante del Nouveau Réalisme, perché i nouveaux réalistes hanno fatto accettare Duchamp ai borghesi estetizzandolo, mentre Fluxus è incapace di fare un buon lavoro per i borghesi, perché i suoi componenti hanno prestato attenzione alla vita che viene dall’arte e ciò mi pare più interessante.
GP: Ma la vostra esuberanza e la vostra goliardia o forse la mancanza di autocritica non vi permettono di capire che oggi l’arte si muove verso una direzione più sofisticata, coltivata, meno rumorosa. Voi invece avete sempre aggirato il lato intellettuale del problema, perché?
BV: Ti dirò che, invece, sono proprio i teorici oggi a interessarsi di noi, pensa a Baudrillard. Infatti, chi discute di Fluxus non è l’avanguardia newyorkese, ma l’etnismo, il mondo pluriculturale. Fluxus è un mondo uniculturale che ha la possibilità di essere pluriculturale, perché quando John Cage dice che tutto è musica, include la musica dei neri, degli eschimesi, di tutti, non solo quella di Stockhausen e lo stesso fa Duchamp quando dice che tutto è arte. Ci sono delle differenze molto importanti e New York è importante, perché ci sono molte culture, ma non sono d’accordo sul potere del denaro che a New York cerca di omogeneizzare tutte queste culture in una sola. Vuol dire che non sono d’accordo con l’immagine di New York vista attraverso Castelli.
GP: Ma se New York è proprio questo, un centro pluriculturale, un luogo di minoranze.
BV: Naturalmente, ma il paradosso è che la situazione newyorkese è la meno etnica visualmente per tante persone che credono che l’arte di New York sia cosmopolita, d’avanguardia e di guida per il mondo intero. Bisogna detronizzare questo potere proprio attraverso le minoranze, perché c’è una situazione culturale magnifica negli Stati Uniti e non solo il modello che ci vogliono far vedere. Oggi, infatti, la grande guerra non è più la lotta di classe, il mal di vivere, ma l’etnia e la policultura spinta dalle religioni.
GP: A questo proposito credo che avremo delle grandi sorprese dall’Unione Sovietica con un’arte regionale o anche religiosa o etnica molto interessante.
BV: Sì, perché le nazioni messe insieme da Stalin oggi recuperano la loro indipendenza. Mi dicono che la Transavanguardia e Fluxus sono due cose differenti, ma la Transavanguardia mi ha interessato per il suo discorso di regionalismo, come ha fatto Cucchi, di un’arte in cui si abbattono le frontiere ma si mantengono le differenze. Quando Cucchi mi dice: “Io guardo Ancona o la mia regione per fare l’arte”, trovo che sia una cosa giusta, perché il futuro dell’arte sarà regionale, con dei musei che ci danno il senso della modernità corsa, basca, bretone in modo da avere tutti i modernismi. A riguardo c’è una frase importante di Lévi-Strauss che dice: “Non ci sono dei popoli in ritardo, perché tutti i popoli hanno lo stesso numero di anni”, dunque gli eschimesi sono contemporanei e bisogna accettare questo come arte contemporanea e non metterli nei musei della tradizione. D’ora in poi bisognerebbe cercare le nazioni che non perdono le loro radici.
GP: E le radici di Fluxus?
BV: Vostell negli anni Sessanta ha fatto dei lavori importanti; aveva una nozione di vita e arte che non voleva dire arte, ma spettacolo, espressionismo, teatro e ha continuato in questa direzione come Kaprow, perché Vostell è più allievo di Kaprow che di George Brecht. Ma ancora oggi Brecht è per me l’artista più importante di Fluxus, perché è l’inventore dell’evento e l’evento è dinamite in arte, è bere un bicchiere d’acqua, dare la mano, è molto, molto semplice. E il minimo, un po’ come Klein e Manzoni che sono arrivati a uno shock estremo. Ci sono molte persone come Kounellis o me che fanno il George Brecht romanticizzato, vale a dire dell’arte con un colpo di bacchetta in modo che la gente la guardi.
GP: E John Cage?
BV: È il più importante dal punto di vista dello spirito e del cervello, ma io non amo la sua musica, mi annoia, ma comprendo che è troppo elaborata per me.
GP: Ma cosa c’è di Fluxus in Cage?
BV: Il pezzo che si chiama La tua testa, dove mette le mani sul pianoforte senza suonare. A partire da questo momento è normale che Fluxus metta i piedi sul piano.
GP: La Monte Young?
BV: È stato importante, perché ha creato la musica ripetitiva che ha trovato molto interesse anche nei settori più commerciali in Brian Eno, Terry Riley e la stessa Pop Music che ha preso molto da lui. Ultimamente c’è stato un programma televisivo, Twin Peaks, che ha una musica molto semplice che non capirei senza il precedente di La Monte Young. In più, sempre nel 1960, come George Brecht aveva messo l’istante nel lavoro, La Monte Young vi inserisce la durata e il tempo, perché mette una farfalla dentro una stanza e finché non è uscita fa continuare la musica.
GP: George Maciunas?
BV: È un catalizzatore che ha capito che c’era una teoria in Fluxus che è la vita. E lui ha fatto Fluxus per lottare contro. Facendo il manifesto contro l’arte è stato geloso degli artisti e ha voluto combattere come un artista politico che voleva usare le teorie del Bauhaus per il quale l’arte deve scomparire nella funzione.
GP: Nam June Paik?
BV: C’è la tecnologia e bisogna dire che non lo conoscevo personalmente, ma tramite aneddoti che sono molto importanti. Quando a Darmstadt fece la cravatta a John Cage, mostrando il culo al pubblico, mi impressionò molto. Egli ha un grande ego, è aperto verso la vita, adora i piccoli dettagli, sa marcare le piccole cose.
GP: Beuys?
BV: Sono sempre stato molto scettico su di lui, soprattutto sulla sua teoria riguardo alla democrazia diretta, perché fa dell’antiego per il suo ego; è un po’ come Buren che fa dell’arte anomima per Buren. Beuys è la margarina, e molte sue idee le trovo molto poco beuysiane, per esempio lui non conosceva bene le idee degli altri, ma nessuno lo dice, aveva una forte presenza, un contatto fisicamente terribile, ma le sue opere sono ancora dei prodotti e non è meglio di Vostell. Non capisco perché la gente compera i suoi disegni, come non capisco quando compera Twombly. È produzione, e la produzione a me interessa solo quando si avanza in un dibattito. La posizione di Beuys è la democrazia diretta, questa sua posizione a me appare un po’ losca. Su molte cose ha detto cose molto pericolose. Per esempio in una conversazione con Cucchi, Kounellis e Kiefer in cui Cucchi difendeva gli eschimesi: Beuys diceva che tutte le civilizzazioni sono civiltà arcaiche e quindi dovevano scomparire; per uno che dice di difendere gli altri lo trovo negativo.
GP: Quale è la differenza tra Nouveau Réalisme e Fluxus, se ci sono artisti che si possono collocare al limite tra i due, come Spoerri ad esempio?
BV: Se il Nouveau Réalisme è l’estetizzazione di Duchamp, Spoerri è quello che ha dato il migliore seguito a Duchamp, mentre gli altri hanno fatto oggetti per le vetrine: Spoerri ha dato una possibilità d’apertura con la topografia. Lo stesso ha fatto Arman. La differenza tra i due movimenti è che il Nouveau Réalisme accosta all’oggetto un segno per produrre un gadget, mentre Fluxus lo accosta alla nozione della vita, perché ha cercato di fare della vita arte anche se non ci è riuscito. Dunque, l’oggetto Nouveau Réaliste va a finire in un museo, mentre quello Fluxus è molto difficile da immaginarlo in un museo, perché è spesso un oggetto mancato. Per cui quando Fluxus riesce a fare dei buoni oggetti diventa Nouveau Réalisme, come Paik ad esempio, mentre quando qualcuno come Filliou non vi riesce non c’è che lo spirito dentro, è molto difficile capire se è mancato o malfatto o cosa altro ancora.
GP: Per caso Fluxus è un po’ misogino, sessista e razzista?
BV: Non credo, può darsi che qualche componente Fluxus avesse delle attitudini contro le donne, come Maciunas, anche se amava il nuovo. Ad esempio compariamo Fluxus con il Lettrisme che voleva fare del nuovo a qualunque costo, anche se è finito per fare della decorazione. Lo stesso Fluxus ha cercato di fare del nuovo a qualunque prezzo: hanno guardato all’arte e si son detti che non potevano fare dell’arte, mentre i Nouveaux Réalistes hanno detto: cambiamo l’arte dal di dentro. Fluxus come il Lettrisme voleva fare una rivoluzione.
GP: Il Gutai ha avuto una qualche influenza su Fluxus?
BV: No, ma siamo stati contenti di scoprirlo attraverso i cataloghi. L’unico che conosceva prima il Gutai era Ray Johnson, ma il Gutai guardava agli Stati Uniti, voleva fare la stessa cosa ed essere altra cosa, un po’ come i copisti. Guardavano a Pollock, al dripping, ma l’hanno fatto con la testa, con i piedi, con la bicicletta inventando così la performance. Quindi, cercando di fare Pollock, hanno finito per essere Gutai.
GP: Mi pare che dopo tanti anni di lavoro tu abbia ancora entusiamo.
BV: No, l’ho perso completamente, non credo molto in me stesso, penso di aver prodotto delle piccole astuzie e che per la gente ci siano molte cose più importanti che comperare le mie opere che sono io stesso a non amare molto. Allora mi chiedo: perché dovrebbe amarle un altro, forse perché ci mette davanti un’idea critica che io però non riesco a vedere? Al contrario esse discutono dell’etnismo fin dal 1958, una lotta solitaria contro tutti quelli che volevano un’omologazione modernista e che avevano come unico desiderio quello di finire da Leo Castelli.
GP: Sì, mi ricordo.
BV: Ora l’etnismo viene recuperato, ma sfortunatamente è una moda unica come lo era il modernismo prima e questo è lo stesso pericoloso. Mi piacerebbe che il mercato dell’arte, l’etnismo, l’esotismo si mescolassero. L’arte moderna non mi interessa più.
GP: Non credi che le migliori idee le hai sviluppate agli inizi?
BV: Sì, assolutamente, tra il 1960 e il 1966 quando ho messo a punto il problema dell’autocritica, della verità che cambia l’arte, quello del tutto è arte e niente è arte. Allora cosa posso dire di più oltre a questo è bello, quest’altro è brutto? Ora ho guadagnato una libertà, perché nel 1966 volevo essere importante e non mi permettevo di giocare con le cose, oggi invece lo faccio.
GP: Se dovessi salvare cinque tue opere, quali salveresti?
BV: La verite changera l’art, 45 centimetre de longuer, La prochaine revolution on art c’est assumer sa culture, Sa etnie sa difference, poi la performance Public ou regardez moi cela suffit.
GP: Se, invece, dovessi salvare dieci artisti contemporanei?
BV: Duchamp, Malevich, Manzoni, Klein, di Arman un pezzo del primo periodo, poi Warhol, Cage, George Brecht, non amo affatto Buren ma forse lo metterei, Basquiat e Combas, Cucchi, Barcelò, Tinguely.
GP: Non pensi che l’economia abbia giocato un ruolo importante negli ultimi anni?
BV: Sì, è una teoria che un giorno mi ha spiegato Catherine Millet: quando la chiesa era al potere tutti dipingevano una donna con un bimbo in braccio, quando la borghesia è andata al potere tutti dipingevano borghesi, quando c’è andata la società dei consumi hanno dipinto la Coca Cola, quando c’è la crisi si dipinge la crisi, si dipinge o si compera sempre quello che il potere vuole. Difatti, oggi c’è il dipingere sempre la novità, come il sistema della moda e dell’economia vogliono, il nuovo è il motore dell’economia.
GP: Sì, ma il nuovo è anche un punto di forza di Fluxus, tu stesso parli o parlavi sempre del nuovo, allora le teorie del Capitalismo e Neocapitalismo sono simili a quelle di Fluxus?
BV: Per Fluxus il nuovo è importante per il cambiamento dell’uomo. L’uomo vuole sempre cambiare, inventare qualche cosa per vivere meglio e questa è una cosa che riguarda tutto il genere umano. Dunque, tutti vogliono fare del nuovo, ma il nuovo di Fluxus è quello di voler attaccare il nuovo dell’arte e così si fa del nuovo. Ma l’arte sarà sempre la stessa cosa, perché per cambiarla bisogna cambiare l’uomo e per cambiare l’uomo è necessario cambiare l’ego, ma ciò non è possibile, anche se c’è gente che è contenta di fare della merda tutte le mattine e altri che cercano di cambiare la situazione. Dopo il 1921 non ci sono più novità nell’arte, oggi forse c’è di nuovo una possibilità con le etnie.
GP: Perché pensi questo?
BV: Perché oggi si sta muovendo tutto.
GP: Quando hai cominciato a fare l’artista?
BV: Sono stato esibizionista fino dall’infanzia, perché da giovane mettevo un osso intorno al collo e la gente mi chiedeva: “perché porti quell’osso?”. Allora ho aperto un locale notturno, ma ero interessato allo shock. Nella mia famiglia l’idea del bello si fermava a Rembrandt e la musica a Beethoven. Poi è cambiata, arrivando ad accettare gli impressionisti. Vivevo in una famiglia colta, anche se conservatrice.
GP: Non ha mai accettato il tuo lavoro?
BV: Sì, ma non come qualcosa che si potesse situare nella storia dell’arte, ma come qualcosa che si potesse riferire al circo.
GP: Quando hai capito che questa tua attitudine poteva essere trasformata in arte?
BV: Sono stati Arman, Spoerri e Maciunas a farmi intravedere questa possibilità. Nel 1958 ho avuto un periodo di megalomania durata fino al 1963 dove ho detto di voler essere il Napoleone dell’arte e sono stato sfortunato, perché Klein, Arman, Martial Raysse non mi hanno accettato nel loro gruppo. Allora ho iniziato a scrivere di essere il mistero, il più importante. Ero appassionato del problema dell’appropriazione e ho capito che potevo parlare del problema dell’ego.