Fin dalla fine degli anni Cinquanta, le fotografie dei Becher sono state caratterizzate da una formula quasi magica. Gli oggetti che cercano di ridurre a enormi miniature sono principalmente una sorta di sequenza che non ha alcun rapporto proporzionale con la dimensione del corpo umano: serbatoi idrici, cisterne, altiforni, torri di raffreddamento, gasometri, silos o altre forme di impianti industriali. Allo stesso tempo, realizzano anche foto di corridoi e di case, che si rifanno all’architettura industriale. Tutto ciò è intimamente connesso con l’era industriale: si tratta infatti di tipici esempi di ingegneria come architettura nel classico paesaggio industriale — in un arco di tempo di cento anni dal 1860 al 1960. Nonostante questi oggetti abbiano difficilmente preso il loro posto nella memoria collettiva — se non come deplorati mostri — tuttavia hanno definito l’aspetto delle città e delle campagne di quel periodo storico. Viste in termini di estetica tradizionale queste tipologie di edifici sono ordinarie, non solo sono forme che testimoniano la conquista industriale, ma rappresentano elementi fondamentali per l’atmosfera di un’intera epoca.
Per decenni questi edifici hanno sofferto per non essere stati posti sotto tutela, per essere stati rapidamente degradati da un utilizzo intensivo da parte delle aziende o semplicemente sottoposte ad alterazioni per renderli conformi ai nuovi processi produttivi — molti di essi sono infatti caduti vittime del processo tecnologico. Eccetto pochi relitti, i vecchi distretti industriali delle nostre città sono stati confinati alla periferia estrema del paesaggio urbano. I nuovi centri industriali sono spuntati in parallelo con il cambiamento dei metodi produttivi, mentre da qualche parte “gli ex settori industriali principali (quello tessile, minerario, le industrie del ferro e dell’acciaio) sono più o meno svaniti dal volto delle regioni dove essi erano tradizionalmente originati”. In un’epoca in cui le innovazioni tecnologiche stanno rivoluzionando intere aree di produzione, quando i serbatoi o le cisterne sono diventate ridondanti, molti dei motivi scelti da Bernd e Hilla Becher sembrano essere veramente “fossili”. Il loro lavoro non può essere semplicemente ridotto allo status di documentazione di architetture industriali, anche se ha effettivamente un carattere documentaristico, non dovrebbe essere forzato nel ruolo di fornire documentazione della storia sociale. Inoltre, ogni singola foto non può essere intesa come un’“immagine nel senso tradizionale”. Per i Becher le fotografie sono “oggetti surrogati”. “Soltanto mettendoli in sequenza, dalla giustapposizione di oggetti simili o dissimili con un’unica e sola funzione” alcune informazioni diventano accessibili come quella che è concepita sotto forma di tipologie dagli oggetti stessi. Bernd e Hilla Becher non si dividono il lavoro tra di loro nel senso classico della parola. Ognuno di loro fa essenzialmente tutto — ovvero selezionare il soggetto, produrre la fotografia, o preparare la presentazione finale dell’immagine. La loro collaborazione è cominciata all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf. Bernd Becher aveva già intrapreso un progetto che documentava impianti industriali quando Hilla Wobeser cominciò i suoi studi. Seguendo un tradizionale apprendistato nel campo della fotografia, Hilla lavorò inizialmente come freelance nella pubblicità, ma condivise l’interesse di Becher per il medium e per il soggetto trattato. Hilla Wobeser aveva una propria ispirazione e in un primo momento aveva già scattato fotografie di officine del gas nei dintorni di Berlino. Era affascinata “meno dall’architettonico che dagli aspetti meccanici, tecnici”, nonostante la pittura astratto-espressiva, gestuale era all’epoca molto diffusa nelle accademie.
Bernd Becher cominiciò all’inizio a lavorare come pittore con un forte interesse per i procedimenti grafici. Essendo cresciuto nella regione siderurgica tedesca, una delle più antiche aree minerarie, era stato fin dall’infanzia attratto dagli edifici industriali e dai macchinari che erano sparsi intorno al territorio. Infatti, durante i suoi studi aveva avuto a che fare — influenzato dalla pittura metafisica di De Chirico — con questi sotto forma di dipinti o litografie o acqueforti. Quando alla fine degli anni Cinquanta, il mercato europeo cominciò a stabilire dei punti in comune (Comunità Economica Europea) e ondate di razionalizzazione portarono gli stabilimenti minerari a essere abbandonati, Bernd Becher sentì una sorta di obbligo morale di “preservare per i posteri questi impianti che rischiavano di essere demoliti, prima che sparissero una volta per tutte”. Ad ogni modo, il fattore tempo era vicino a essere raggiunto, dato che gli impianti tendevano a essere abbattuti così rapidamente da superare la sua abilità a rappresentarli. Le prime immagini che i Becher realizzarono si concentravano sulle sezioni industriali della Ruhr e del Siegerland, oltre alla vicina Olanda. Nel 1966 una borsa di studio del Consiglio Britannico gli diede l’opportunità di pagarsi un viaggio in Gran Bretagna, dal quale egli ritornò sei mesi dopo con un centinaio di foto delle regioni industriali del paese. Il viaggio fu seguito da ripetuti altri viaggi in Francia, Lussemburgo, Stati Uniti e Belgio. Presto presero a usare una macchina fotografica a banco ottico che, con la sua precisione meccanica attivata da una messa a fuoco estremamente accurata, sostanzialmente aiutava i Becher a realizzare il loro desiderio di rappresentare gli oggetti il più precisamente possibile e con una massiccia dose di obbiettività. Inizialmente essi usavano un vecchio banco ottico mentre oggi optano per macchine fotografiche di grande formato, per cui il formato garantisce una messa a fuoco più precisa e la pellicola a grana fine consente ai soggetti di essere ripresi a più alta dissoluzione. Diversamente dall’architettura fotografica costruita, che tenta di svelare l’aspetto estetico degli edifici riprendendoli da un punto di vista insolito, la metodologia dei Becher mostra che essi evitano ogni distorsione nel senso di sfocatura o drammatizzazione del soggetto. In questo contesto della cosiddetta “visione oggettiva”, la macchina fotografica non ha la funzione di sostituire l’occhio ma è piuttosto un apparato tecnico ed è collocata a servizio dell’oggetto, con il risultato che le stesse immagini che ne derivano fanno riferimento al medium della fotografia.
L’approccio dei Becher non consente nessun cambiamento a posteriori della dettagliata sezione di un edificio fotografato. Gli oggetti non sono creati secondo il metodo, ma piuttosto il metodo è orientato verso l’oggetto. Non ci sono esseri umani nelle foto. Questo è, da una parte, reso necessario da considerazioni tecniche, cioè dal lungo tempo di esposizione, che può essere tra i dieci secondi e un minuto. Dall’altra parte, questo ha a che fare con gli oggetti stessi, per cui la maggior parte di essi sono impianti industriali all’interno dei quali gli elementi estranei difficilmente si perdono e dove i processi funzionali sono spesso soggetti a regolazione e controllo remoto. Inoltre, molti di essi hanno cessato di lavorare da molto tempo nel momento in cui sono fotografati e sono inevitabilmente desolati, privati di vita umana. Per seguire il loro lavoro, gli artisti a volte devono andare sul posto in condizioni da far rizzare i capelli, dato che sono luoghi ancora soggetti a strette procedure di controllo.
Il lavoro di Bernd e Hilla Becher è stato accompagnato per anni dalla fatica nel compilare complesse richieste per ottenere il permesso di entrare in uno stabilimento, richieste che spesso necessitavano di anni prima di essere approvate, per non parlare della perseveranza che hanno avuto a dispetto dei complicati regolamenti di sicurezza e diffidenza da parte delle aziende interessate. Essi sono in giro per molte settimane all’anno, raccogliendo ogni cosa di cui hanno bisogno per il loro lavoro — allineando diverse macchine fotografiche e treppiedi fino a una scala alta tre metri — nel loro furgoncino. Il lavoro si fa più intenso durante l’estate e in autunno, dato che queste stagioni offrono quella luce particolare che caratterizza le loro immagini. Per illuminazione intendo la luce diffusa ma costante sotto un cielo leggermente nuvoloso che mantiene ogni sfumatura e riesce a evocare tutte le possibilità emotive, al minimo. E queste sono tutte le stagioni in cui possibili “fattori disturbanti” come per esempio arbusti e alberi in fiore o in piena fogliatura possono essere in gran parte evitati, garantendo una visione integra dell’oggetto stesso. Cosa ancora più importante, è che tutte le fotografie sono scattate da un punto di vista leggermente sopraelevato che spiega il motivo per cui una scala è necessaria qualora non ci fosse la possibilità di recarsi sul posto. Anche se oggi fotografare usando una macchina fotografica posta in alto è parte integrante del loro approccio, Bernd e Hilla Becher in origine la percepivano come una sorta di scoperta: “Guardando un oggetto da un punto intermedio esso ti appare a portata di mano e libero da ogni falsificazione. Posizionando in alto la macchina fotografica, l’orizzonte si fa più ampio, la superficie della terra appare zoomata all’indietro, cessa di essere posizionata su una linea e sembra stare di fronte a una superficie. Nonostante sia chiaramente parte dell’ambiente, tuttavia è simultaneamente liberata da ogni elemento circostante concretamente reale dal cropping.
Si tratta di una veduta “ideale” dell’oggetto, che viene protetto da alcune trivialità cariche di emozione e fa focalizzare l’occhio sull’oggetto rappresentato. È questo tipo di approccio il requisito per rendere possibile il confronto e così leggere questi oggetti. Rudi Fuchs osserva nel catalogo di una mostra all’Eindhoven Van Abbemuseum (1981) che “l’essenza di un oggetto diventa più chiara se noi possiamo paragonarla a oggetti di una tipologia simile” e Hilla Becher afferma che “solo se tu studi gli oggetti dallo stesso punto di vista noti cosa diversi scatti hanno in comune quando vengono messi uno di fianco all’altro; inoltre, solo allora si può vedere che cos’è la forma basica di un altoforno o di una torre di raffreddamento”.
L’approccio sistematico che i Becher adottano e in virtù del quale “gli elementi individuali di un impianto sono fotografati singolarmente e altri oggetti dello stesso tipo sono poi messi insieme a formare serie tipologiche è documentato da quello che può senza dubbio essere considerato un criterio scientifico. Prendere atto di queste cose presume che gli artisti abbiano una profonda conoscenza della funzionalità e della natura materiale degli oggetti da fotografare. Quando assemblano tableaux di oggetti per cui questi sono di solito fotografati direttamente, gli artisti si limitano a presentare esempi di una particolare famiglia di oggetti, illustrano al meglio la forma basilare o il tipo di oggetto coinvolto. Oggi, la maggior parte dei tableaux consiste in nove o quindici scatti, così l’osservatore può vedere le immagini così assemblate orizzontalmente tra di loro, diagonalmente o verticalmente. Nel caso degli oggetti che sembrano essere costruiti in una maniera troppo complessa, è realizzata la cosiddetta “visione completa”, per esempio i Becher ruotano sistematicamente intorno all’oggetto, fotografandolo a ogni 45°. Le giustapposizioni comparative, per esempio di oggetti diversi, utilizzano frequentemente due o tre scatti dello stesso soggetto preso da diverse angolazioni. Gli oggetti sono inoltre montati in modo da trasmettere non solo la loro apparenza esteriore ma anche le caratteristiche salienti del loro metodo di costruzione e della loro tecnologia. Ciò che salta all’occhio in questo contesto è, per tutta la natura semplice e non ornamentale dell’equipaggiamento tecnico, il fatto che le tipologie testimoniano un gran numero di varietà formali. Difficilmente ogni singolo oggetto, anche quando preso dalla stessa “famiglia” è identico agli altri a causa delle differenze geografiche o economiche nella costruzione. Mentre un singolo oggetto tende a svanire dietro un labirinto di linee sovrapposte e innumerevoli elementi di equipaggiamenti industriali, quando sono parte del complesso funzionale di un impianto industriale dobbiamo successivamente fare ricorso a un gran numero di aggettivi descrittivi per abbozzare la sua struttura formale. Quando presi in isolamento, le teste bizzarre degli altiforni, assemblate dall’intreccio di numerosi tubi, i serbatoi idrici a torre che sembrano sparpagliarsi sul terreno come funghi o le cisterne di qualche luogo in Pennsylvania che hanno un innaturale e in un certo senso ingombrante sensazione su di loro, tutto sembra avere proprietà estetiche — nonostante o forse precisamente perché “sorgono prive di ogni intento estetico” (Bernd Becher).