“La neige était sale”.
Georges Simenon
Se un cieco accarezzasse una tela di Jusepe de Ribera potrebbe agevolmente individuare i punti di massima luce del dipinto. Giungerebbe persino a intuire dove è situata la fronte di una figura, lo scollo di una camicia e la lama di una spada. Il bianco per Ribera è un’increspatura del terreno, un crinale nella materia del mondo. Anche se si tratta di una vetta polverosa, come un bianco rimasto per lungo tempo in cantina; un colore che ha duramente lavorato e si presenta in chiesa con le unghie sporche.
Di un nero sotterraneo è infatti avvolta l’ombra delle sue scene. Un lutto che nemmeno Caravaggio ha portato. Nei quartieri spagnoli di primo Seicento non poteva che essere impastata con la pece e il bitume la pittura di realtà, e ogni colore ne rimase segnato, intriso in modo indelebile.
Dopo una giovanile stagione romana, in cui le sue opere vennero scambiate per quelle di un anonimo francese*, il grande iberico assunse su di sé tutta la notte rimasta, dopo la morte del Merisi, e giungendo a Napoli rese più acute le figure, le fece più adatte all’insonnia. Conciò la pelle dei santi a guisa di cuoio e gli eremiti in preghiera finirono per disidratarsi.
L’impasto pittorico divenne allora “terribile”, anche a detta del suo primo biografo De Dominici, di un terrore emotivo prima che cromatico. Crostacea la consistenza del pigmento, umile e umana come il pane. Un tozzo raffermo e trattenuto dal becco di un corvo. Un pane a forma di teschio, che prende un po’ di lume sull’imboccatura di una grotta. Lume, non sole!
Per aprirsi al sole Ribera dovette attendere il caso, la morte di un altro settentrionale arrivato a Napoli: il bolognese Domenichino. Di lui portò a compimento la cappella del Tesoro, lasciata incompiuta nel 1641 a causa del veleno. Così San Gennaro riuscì ad avere attorno a sè un azzurro inedito, che altrimenti non avrebbe ricevuto da pennelli partenopei o da altri oriundi spagnoli.
Solo da quel momento Jusepe uscì dal sottosuolo e si concesse il giorno.
Solo da quel subentro alternò inferno a paradiso sugli altari di Napoli.
Ma il bianco di Ribera resta quello che fende il buio, sporgendosi oltre la superficie del quadro. Una luce braille, da percepire nella sua fisicità tattile, come escrescenza, dunque destinata ad avere perennemente l’ombra accanto.
Assieme allo stile dovette avere anche un carisma imperioso per trascinare con sé, nella gravità notturna, pressoché tutti i pittori dell’Italia meridionale lungo un’intera generazione. Resta ancora da individuare, nel nome, anche il “Maestro dell’Annuncio ai Pastori” che dovette essere suo allievo e stretto collaboratore. Un artista pauperistico e possente insieme, che rese ancora più ruvido e terroso il carapace pittorico di Ribera, giungendo a risultati prossimi a quelli che, contemporaneamente ma a duemila chilometri di distanza, stava elaborando Rembrandt.
L’idea riberiana di sporcare il bianco viene portata alle estreme conseguenze, così la lana delle pecore e la pelle dei pastori si intride di sterco animale e non riuscirà più a togliersi l’odore di stalla.