Se esiste un briciolo di ironia nell’apparato curatoriale che Okwui Enwezor ha edificato nella mostra internazionale della 56ma Biennale di Venezia, quello risiede forse nel titolo di questo discorso: “All the World’s Futures”; nel senso che la mostra coagula quanto di meno “futuribile” si possa aspettare da una visione del mondo coltivata attraverso le arti visive. “All the World’s Futures” non suggerisce alcun futuro; tanto per le arti, quanto per quel mondo che esse abitano e testimoniano. Alcun futuro, sia ben inteso, quale positivistica evoluzione della storia in una condizione migliorata in quanto innovativa dello stato delle cose…
La mostra piuttosto ci presenta l’avvenire come un’ineluttabile reiterazione di scenari che hanno popolato il nostro passato e continuano a popolare il presente; e infatti pare anch’essa fondata su una sola verità, ovvero quell’entropia che definisce le dinamiche dei fatti del mondo, e che a ogni “forza” ne fa corrispondere una contraria, spesso più potente: alla ricchezza la povertà, al lavoro l’alienazione, alla giustizia l’ingiustizia, al bene il male.
La mostra indulge nei toni epici che la sua estensione le avrebbe comunque accordato. E si snoda infatti attraverso momenti che, non per dimensioni o impatto visivo delle opere, quanto per grandiosità dei gesti che quelle sottendono o drammaticità degli scenari che evocano, funzionano come cori che commentano le vicende dell’umanità, ne restituiscono una qualità aneddotica, le traducono in rappresentazioni allegoriche. La tradizione del realismo che costantemente qui emerge pare del resto destinata non a documentare, quanto a fornire “modelli” di realtà. Molte sono le guerre qui rappresentate, ad esempio; ma lo è soprattuto la guerra, nei suoi termini più assoluti di conflitto armato e scenario tragico. Incontriamo numerose armi “manifeste”, come Cannone semovente (1965) di Pino Pascali; creata assemblando parti di automobili e materiali di recupero, questa è tuttavia fedele solo nell’aspetto a un cannone automatico, e infatti non spara. Cannone semovente è esposta in dialogo con una ricca serie dei Lynch Fragments (1963-in corso) di Melvin Edwards, sculture a parete che paiono assemblaggi di armi e utensili medioevali, oscuri e aggressivi; e con In the Midst of Things (2015), una performance sonora di Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, una traccia sonora nata dallo stravolgimento della scrittura de La creazione (1796-98) di Joseph Haydn, nella quale cacofonia e melodia si fronteggiano — così come il gruppo corale che la interpreta si muove avanti e indietro nella sala, dalle opere di Edwards a quella di Pascali. Nella mostra la guerra non è mai teatralizzata, ma di essa si offre una rappresentazione che, più che sull’immaginazione dello spettatore, fa leva sul suo immaginario, ovvero su quel bagaglio di segni (visivi, sonori) che egli culturalmente le associa — così, attraversare l’installazione video di Chantal Akerman Now (2015), una proiezione multipla di immagini di deserti accompagnate da un frastuono sonoro, diventa l’esperienza di muoversi lungo una trincea, o un confine segnato dalla drammaticità di uno scontro geopolitico. La tensione tra narrazione epica e racconto del quotidiano percorre tutta “All the World’s Futures” — l’enfasi dell’una inficia la purezza dell’altro. E questa dinamica costringe a intravedere un dualismo in ogni gesto che la mostra accoglie, più quello è estremo più suggerisce un contraltare di cinismo e sfiducia nella sua stessa efficacia. La lettura dal vivo dei tre volumi de Il Capitale (1867-94) di Karl Marx, diretta da Isaac Julien nel corso della mostra, pare tutto fuorché dettata da un’affezione ideologica per questo testo: declamato da attori su un palcoscenico per un pubblico generalista, spesso di passaggio tra una sala e l’altra, Il Capitale può “suonare” qui storicamente vacuo, pura trattazione teorica senza adesione alla realtà; oppure un sottotesto inesorabile allo scorrere del tempo…
Similmente la serie di Manifestos (2013-in corso) di Charles Gaines, traduzione in musica di discorsi di statisti e attivisti, oscilla tra un suggerimento di forme più “accessibili” di comunicare contenuti sociali, e la minaccia del rischio della retorica politica di trascendere nella demagogia. O, ancora, i Realized and Unrealized Outdoor Projects di Isa Genzken, modellini in scala di opere pubbliche, invitano a valutare l’imposizione di una forma e un’immagine su un panorama urbano, e quindi un tessuto sociale, ma nella sfera del progetto, della possibilità, e quindi, anche e necessariamente, del fallimento. Come i modellini, anche Two Orchids (2015), la scultura monumentale che Genzken colloca nei Giardini, quasi a ironizzare una rivincita del naturale sull’artificiale, pare un gesto solenne ma comunque “ultimo” — un’eco di tutti quei gesti deboli, patetici, che ricorrono nella mostra, dai paesaggi astratti di Gedi Sibony, dipinti su telai di autocarri, alle figure umane di Georg Baselitz, gracili, quasi scarnificate, e sempre a testa in giù. Laddove le ultime due mostre della Biennale di Venezia — “ILLUMInazioni” di Bice Curiger e “Il palazzo enciclopedico” di Massimiliano Giorni — suggerivano la buona salute del pensiero universale quanto dell’output creativo, l’una un’incondizionato inno all’industria dell’arte, l’altra una disamina degli apparati della conoscenza condotta con puro afflato umanistico, “All the World’s Futures” offre certamente una visione più greve dello stato delle cose…
In un certo senso ammonisce che l’esperienza estetica può condurre all’incontro con il sublime, ma che questo può presentarsi “abbacinante”, “illuminante”, ma anche “terrifico”. Nell’installazione video a tre canali di John Akomfrah, Vertigo Sea (2015), materiali d’archivio e altri inediti offrono una narrazione olistica nella quale l’esplorazione delle profondità oceaniche, la tratta degli schiavi attraverso i mari, e la caccia alla balene sembrano dinamiche che si scatenano vicendevolmente, forze dialettiche all’interno di quel sistema entropico che è la storia dell’umanità. In Vertigo Sea ogni immagine è vertiginosa e tragica: l’abisso, certo, ma anche il negriero che spinge in mare lo schiavo, l’arpione che fende il cetaceo… Di fronte a queste immagini, e spesso nella visita della mostra, ci si chiede, banalmente: perché? E pur nella consapevolezza che, fondamentalmente, l’essere umano agisce sempre guidato da profondo raziocinio, spesso tante motivazioni rimangono oscure, incomprensibili, o impossibili da condividere. Theory of Justice (1992-2010) di Peter Friedl è un ampio archivio di immagini ritagliate da quotidiani, di cui nella mostra è esposta una selezione. Le immagini sono disposte su una serie di tavoli, in gruppi, ordinate come se fossero uno storyboard. Osservarle non significa riconoscere gli avvenimenti che documentano, né decifrare un criterio di selezione o raggruppamento. Esse piuttosto invitano a una presa di consapevolezza della loro esistenza, sono pari ai fatti del mondo che rappresentano. Ugualmente le opere di “All the World’s Futures” esprimono una caratteristica fattuale, banalmente non “fanno mondi”, per dirla con il titolo di un’altra mostra passata della Biennale di Venezia, non sono vettori dell’immaginazione collettiva; ma puntualmente ci ripresentano un mondo dove è il domani lo scenario più complesso da immaginare.