Lo streetwear è generalmente considerato come uno specifico stile di moda che incarna le subculture dello skate, del basketball e dell’hip hop delle aree metropolitane della East Coast americana durante gli anni Ottanta. Nel Sistema Moda Italia è un segmento di recente identificazione e al suo interno sono state convogliate realtà differenti che prima erano identificabili in categorie liminali tra lo sportswear e il prêt-à-porter, senza avere né il preciso contesto d’uso del primo né la valenza creativa del secondo. Nello streetwear italiano l’eversione tipica delle sottoculture si stempera in un apparato dove si fondono comunicazione, mercato e prodotto.
L’approccio progettuale: distretti, luoghi e sviluppi
L’ossessione umana per gli oggetti e la moda è narrata in Controcorrente di Joris-Karl Huysmans attraverso Jean Flores Des Esseintes che tenta con l’artificio di sconfiggere la natura. Des Esseintes si esprime nella maniacale ricerca degli oggetti di cui si circonda e degli ambienti nei quali si inoltra, nella manipolazione delle superfici, nei dettagli e nell’accuratezza dei riferimenti culturali. La funzione dei luoghi e delle cose soccombe sotto il decoro. Questa tensione nichilista è paradigmaticamente associata alla moda.
Da sempre il termine “progetto” è stato utilizzato nell’architettura e nel design, ma spesso la “progettazione” si è ritenuta una prassi lontana dal fashion. Nello streetwear si utilizza questa terminologia per identificare la duplice connessione con il mondo del design e dell’imprenditoria, cercando di sminuire invece la connessione con la moda. Nel costruire queste distanze si perde la possibilità di indagare la dimensione vestimentaria del paesaggio culturale che circonda questo fenomeno.
Nell’attuale conformazione del sistema moda italiano, al termine streetwear si associano brand e iniziative nate prima della diffusione del fenomeno a livello internazionale. Vi è il tentativo di inserire in questo nuovo ordine categorie differenti che prima sembravano distanti: lo sportswear, il casualwear, il prêt-à-porter.
La progettazione dello streetwear italiano è un costante lavoro sulla rielaborazione di uniformi iconiche senza snaturarne la riconoscibilità semantica, ma rinnovandone la costruzione. Il capo iconico – da un capospalla della divisa dei pompieri di Boston a uno scarpone dell’esercito indiano – viene modificato con parsimonia e la forma poco evolve rispetto all’originale. Le sue sostanziali modifiche avvengono nelle componenti di materia, finitura e colore. L’evoluzione nell’uso del materiale – dal jersey di cotone al neoprene –, l’ossessione per il dettaglio e l’innovazione dei processi di costruzione diventano i codici fondamentali del prodotto. Questa metodologia ha più in comune con la progettazione dello streetwear di matrice giapponese che quella americana, dove la ricerca del prodotto è un’informale appropriazione di simboli delle sottoculture o crudo articolo di merchandising.
Il lavoro di Massimo Osti e Carlo Rivetti con Stone Island e C.P. Company è universalmente riconosciuto come la connessione tra il design e la moda progettata, laddove rende il tessuto una superficie di comunicazione e l’abito uno schermo vivo tra il corpo e il contesto. Questo metodo creativo si collega alla peculiare struttura dell’apparato dei distretti industriali italiani, dove ci si confronta continuamente con le competenze tecniche di prodotto, contribuendo alla creazione di capi che uniscono riconoscibilità estetica e funzione d’uso.
La creatività nella costruzione del prodotto è un valore diffuso nella filiera italiana. La conoscenza progettuale si crea attraverso reti informali che rendono agevole lo sviluppo di modelli creativi paralleli alla moda ufficiale, che per anni ha messo all’apice della sua scala gerarchica lo stilista. Questa struttura geo-economica ha permesso a una generazione di imprenditori e designer, non formati con l’idea dello stilismo, di elaborare un linguaggio che esuli dal canonico approccio della moda. Nel corso dei decenni al vertice creativo si ergono i commercianti del linguaggio – da Elio Fiorucci a Wicky Hassan del gruppo Miss Sixty –, i semiotici della comunicazione – da Massimo Osti a Marcelo Burlon – e gli imprenditori – da Diego Della Valle a Renzo Rosso.
Non stupisce che tra i decenni Settanta e Ottanta la realtà principale delle aziende di streetwear italiano fosse Bologna dove hanno operato Osti e WP Lavori in Corso di Giuseppe e Cristina Calori. Qui vi è il sorgere di realtà come Frigidaire di Vincenzo Sparagna, Stefano Tamburini, Filippo Scòzzari, che con Andrea Pazienza e Tanino Liberatore, hanno collaborato con i primi brand di streetwear in Italia. Nel Duemila il polo nevralgico italiano si sposta dai distretti industriali della riviera romagnola e veneta a Milano. Il valore dell’oggetto trasla dal prodotto alle nuove forme di comunicazione basate sui principi delle community, virtuali e reali assieme, che non hanno limiti all’interno del territorio nazionale, ma assumono valenza globale.
All’inizio del Duemila con il sorgere della cultura writer milanese nascono progetti come VNGRD e Iuter e designer come Giorgio di Salvo che riescono a tradurre la spontaneità della scena hip hop meneghina in una visione di progetto capace di sintetizzare le qualità creative generazionali: grafica, merchandising e impresa.
Soprattutto la grafica, che nel passato era lavoro sulla superfice, diviene l’emblema più iconico del fenomeno, dalle canoniche elaborazioni di disegnature a mano si passa alle elaborazioni a computer. Lo stile caleidoscopico che con le creazioni County of Milan di Marcelo Burlon diverrà una referenza generazionale per i nativi digitali, ha una corrispondenza con il tribalismo che Dick Hebdige in Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale [Costa & Nolan, 2008] fa risalire al debito che le sottoculture hanno con la cultura nera.
Design trans-nazionale
Il territorio italiano è un luogo d’ideazione, sviluppo e realizzazione; mentre la ricerca, la commercializzazione e la comunicazione avvengono attraverso i mercati di riferimento, sin dall’ideazione del naming, che nella quasi totalità dei casi è anglofono. Questa generazione transnazionale di designer coglie nello streetwear un flusso di coscienza che permette di sperimentare forme diverse di progettazione: il prodotto ha un continuo scambio simbolico e materiale tra l’Italia e il resto dei mercati globali.
Paul Harvey, art director di Stone Island e oggi di C.P. Company, Marcelo Burlon di County of Milan, Virgil Abloh di Off-White, sono designer di non-nazionalità italiana ma alla guida di brand italiani che hanno sviluppato una continua traduzione di linguaggi, favorito l’immediatezza di assimilazione e l’universalità e permesso ai loro brand di essere apprezzati con continuità a livello internazionale.
Brand italiani diventano quindi icone in territori internazionali: si veda già il caso di Stone Island tra gli hooligans inglesi o l’esplosione di Iceberg all’inizio degli anni Novanta sulla West Coast Americana nella cultura hip hop.
Altra variabile fondamentale nell’evoluzione dello streetwear italiano, accanto all’eccellenza della filiera produttiva, è l’apparato commerciale. Il nostro paese diviene, nel corso del tempo, un luogo di valorizzazione del prodotto moda, attraverso gli showroom e le fiere di settore, come Pitti Immagine a Firenze. Nel frattempo si sono sviluppate catene distributive locali dello streetwear, come a Ferrara la realtà di Slam Jam, nata nel 1989 come distributore che negli anni si evoluta a perno per la comunicazione e diffusione dello streetwear italiano.
Le prime realtà di vendita ufficiali dello streetwear italiano, come gli spazi di Fiorucci a Milano o ancora WP Lavori in Corso a Bologna, nascono dall’intuizione di vendere prodotti e marchi non ancora distribuiti in Italia. In questi spazi commerciali sono venduti prodotti che acquisiscono coerenza e significato se inscritti nell’idea di collezione dove ogni oggetto assume valore nello scambio semiotico con gli altri. È importante notare come le grandi operazioni commerciali sono sempre accompagnate da processi di comunicazione e valorizzazione dei linguaggi specifici e i luoghi di distribuzione sono ibridi: accanto all’abbigliamento, già in quelle realtà vi è la proposta di manufatti culturali come riviste, fanzine, esposizioni fotografiche e prodotti come gadget, bombolette spray, skate che sono associabili al vestire solo se iscritti nei codici linguistici delle subculture.
L’odierno™
Nel fenomeno dell’abbigliamento streetwear emerge il ruolo sociale degli oggetti che contribuiscono alla formazione della realtà, allo stesso modo dei soggetti studiati nella sociologia. Nella connessione tra prodotti di design e l’abbigliamento è la funzionalità il punto d’incontro: dove l’oggetto di design palesa il proprio modo d’uso, l’abito lo cela dietro la volubilità della moda. Così la moda streetwear sfrutta modelli e capi che hanno un’iconicità pre-acquisita. Nell’abbigliamento la funzione viene percepita se inscritta in contesti in cui il capo ha qualità performanti come ad esempio l’equipaggiamento da montagna o sportivo.
Ne deriva un sistema che produce capi con un potenziale di utilizzo, ma ammantati di carattere e desiderabilità solo perché inseriti nel contesto del brand: un design legato al marchio, all’immagine, e non alle performance. Rientrano quindi, all’interno del mix streetwear, prodotti pensati per essere capi tecnici che vengono percepiti solo per la forma e non per l’utilizzo. Si creano codici d’abbigliamento complessi in cui capi performanti mutuati dal mondo dello sport e delle uniformi si mescolano a capi che hanno pura valenza comunicativa attraverso l’uso del logo, del lettering e delle stampe.
La componente comunicativa e di business, non è scindibile dal prodotto e dal glamour che permea questo tipo di segmento della moda. La desiderabilità è connessa al valore economico del capo, alla rapidità d’esaurimento nelle strutture di vendita, all’esasperazione simbolica della funzionalità che vuole allocare il prodotto a un contesto differente da quello inizialmente progettato. In un mercato di oggetti usati un vecchio elemento di decoro mi appare stantio e con una connotazione kitsch, mentre un oggetto funzionale che mi permette di ottenere un’azione, seppure solo potenziale, mi appare avere una morale d’acquisto maggiore: nell’idea della progettazione funzionale, lo stesso meccanismo dona una longevità semantica al capo che si spenderà nei contesti successivi all’acquisto primario.
All’interno del medesimo contesto culturale si assimilano brand italiani che spaziano da Stone Island a County of Milan, che pur partendo da differenti idee di progettazione s’incontrano in una certa concezione di styling e nei gruppi di acquirenti che si riconoscono in questi codici ibridi. Lo streetwear è una categoria di consumo con al suo interno merceologie che convivono assieme, seppur nascendo e sviluppandosi con differenti filiere di progettazione e mercato.
Nell’ultimo quinquennio, con il sopravvento della strutturazione di merchandising delle collezioni di moda, lo streetwear ha iniziato ad assumere le connotazioni del sistema moda formalizzato a partire dalla temporalità associata alle presentazioni stagionali della settimana della moda. Il fenomeno inverso di acquisizione di codici era già avvenuto con i più rilevanti fashion designer della prima decade di questo millennio – Raf Simons, Riccardo Tisci e Hedi Slimane. Ad esempio, Virgil Abloh con Off-White™ implementa il modello dello streetwear e del merchandising con la moda ufficiale: i suoi abiti iniziano a mostrare un imprinting sartoriale e nelle collezioni si fa spazio la tecnica del draping. Per creare nuovi progetti vi è la necessità di strutturare nuovi livelli di senso, unificare l’attuale con ciò che si credeva superato attraverso il collage post-digitale. La crasi ormai avvenuta del modello streetwear e del sistema moda ufficiale muta la biografia dei capi, donando loro tempi e usi nuovi, sancendo una momentanea stagnazione delle sottoculture. La diversità eversiva si disperde in nuova traiettoria che rende un atto di ribellione o appropriazione culturale pari a un fenomeno mainstream che permea e muta il rapporto di tutti con l’abbigliamento e la moda.