Stefano Rabolli Pansera: Le tue opere sembrano adottare un metodo molto semplice e consistente: obiettivo fermo, prospettiva centrale, etc… Eppure questa semplicità è lo strumento attraverso cui riesci a sovvertire le immagini e la loro riconoscibilità, ribaltare foreground and background, oggetto e orizzonte, pubblico e privato. Come costruisci le immagini? Come gestisci una tale economia compositiva per sovvertire i codici comunicativi e categorie precostituite?
Brigitte Niedermair: Io non parto mai dall’idea di un’immagine, ma piuttosto da un concetto, un pensiero, l’immagine arriva dopo. Mi piace arrivare al punto più preciso e profondo del mio pensiero e per farlo devo essere rigorosa, essenziale, severa. Soprattutto con me stessa. La semplicità forse sta proprio in questo, raccontare se stessi. Certo, il mio rapporto col vedere, ma soprattutto col trascrivere il pensiero, sta nel legame con la storia dell’arte, con la sua tradizione e le lezioni di alcuni maestri. Ti racconto un piccolo aneddoto. Sin da bambina sono stata accompagnata da un piccolo quadro, nient’altro che una riproduzione. Si tratta del coniglio di Dürer. La mia casa era una tipica casa degli anni Sessanta con tappezzerie coloratissime, tipiche di quegli anni. Il quadro era in cucina, unica presenza su un muro in stile optical con colori giallo e arancione. Ti immagini il contrasto? Ripensandolo ora, quella piccola elegante riproduzione di Dürer su quel muro infiammato di colori sgargianti, sarebbe una straordinaria installazione. Eppure, quel piccolo quadro rappresentava uno spazio mentale dove fermarmi a riflettere, una specie di àncora di salvataggio. Non dimenticare che volevo fare la pittrice, che ho sempre disegnato con consapevolezza, sin da quando avevo 10 anni. Mi vedevo pittrice, non fotografa. Quindi, ora, facendo una lettura quasi psicoanalitica, quel coniglio di Dürer, che continua a seguirmi ed è ora è nella mia cucina della casa di Merano, rappresenta il simbolo di un percorso mentale necessario. È il legame tra il contemporaneo e la storia. Tra quello che tu chiami foreground e il background. Sono certa che il mio modo di raccontare, oggi con la mia fotografia, nasca dal rigore di Dürer e dalla libertà di quelle strisce colorate. Credo che proprio la contaminazione di questi tempi diversi caratterizzi il mio modo di vedere in cui convivono il presente e il passato, le tensioni del contemporaneo con una certa idea di classicità. Ho dentro di me costantemente questa convinzione. Riguardo le mie opere e mi sembrano sospese nel tempo, come se fossero già parte della tradizione. Vedi, tutta colpa di quel coniglio che continuava a guardarmi…
SRP: Nella serie su Morandi, inverti il rapporto fra primo piano e sfondo. Le bottiglie di Morandi sono fuori fuoco e lasci emergere con nitidezza la linea del tavolo: l’orizzonte all’interno del quale le bottiglie sono localizzate e cioè la condizione stessa della dislocazione delle bottiglie. Come hai prodotto questa serie?
BN: Innanzitutto vorrei spiegarti perché mi sono avvicinata a Morandi. È ovviamente un punto fermo nella storia dell’arte ma soprattutto mi ha sempre affascinato il mistero della sua pittura. Quel senso di clausura che lui doveva vivere, quasi fosse un monaco in un convento. Mi sento molto vicina a Morandi. È un uomo con un rigore assoluto, una mente ferma, un artista che cerca la perfezione nella ripetizione. Mi riconosco in lui. Volevo quindi indagare la sostanza del suo lavoro. Volevo indagare su quel suo rigore assoluto e in qualche modo condividere la sua clausura, riprodurre i suoi gesti, scoprirne i segreti della composizione, confrontarmi con la complessità del suo mondo racchiuso in pochi metri della sua stanza. Così, con il mio fidanzato che ho usato come assistente, sono approdata nella casa museo di via Fondazza a Bologna grazie a Gianfranco Maraniello, che ci ha concesso queste visite speciali. Non è stato facile. Ci siamo tornati molte volte, prima per sopralluoghi, poi per fotografare, a distanza di mesi da ogni sessione di lavoro. Rivedendo le ricerche che altri artisti avevano fatto in quello spazio, avevo chiaramente avuto conferma di una mia convinzione: il mio percorso doveva essere radicalmente diverso. Non avvicinarsi a Morandi, ma “essere” Morandi. Con questo intendo, con umiltà, che il rapporto con il suo mondo doveva essere completo, di condivisione totale. Significa che il tavolo, il letto, i libri, e soprattutto le bottiglie di Morandi, non erano oggetti da osservare come entomologhi di fronte a splendidi insetti o da rileggere secondo una propria visione estetica: erano l’universo profondo attraverso il quale entrare nella sua energia, nella sua aura. Avevo soprattutto bisogno del suo splendore interiore, della sua forza intima e nascosta. Così, abbiamo profanato il tempio: abbiamo rifatto i suoi gesti, abbiamo spostato le bottiglie. E solo allora, proprio quando il tavolo su cui deponeva quei preziosi vetri era completamente vuoto e quando affioravano i soli segni a matita per deporre le bottiglie, solo allora ho avuto chiara l’idea dell’orizzonte di Morandi. Solo allora ho compreso che Morandi non ha dipinto delle bottiglie, seppur meravigliose, ma ha dipinto qualcosa di più profondo, intimo, segreto: ha dipinto l’infinito. Ogni suo quadro ha un orizzonte preciso. Ogni suo quadro è un incrocio di linee orizzontali e verticali. Il punto non sono le bottiglie, ma la formalizzazione delle linee. Per questa ragione mi sono concentrata sull’orizzonte del tavolo e ho messo fuori fuoco le bottiglie in una composizione. E qui ho avuto una nuova rivelazione.
SRP: Quale?
BN: Nel posizionare le bottiglie ho compreso a fondo la paziente complessità della composizione di Morandi. Ho compreso anche la ragione per cui egli tracciava un segno sulla carta del tavolo. Era la sua mappa mentale, un modo per organizzare il suo pensiero. Abbiamo profanato il tempio, ho detto prima, spostando le bottiglie. L’ho fatto — ovviamente con la massima attenzione toccando ogni singolo oggetto con i guanti — sapendo che stavo violando la sacralità di quel luogo ma anche che stavo dando nuova vita a quegli oggetti. Ebbene, la rivelazione è stata che quella sublime composizione morandiana rispettava equilibri sottili, in qualche modo indecifrabili. Per questo, il mio intervento, se non in un caso, quello che cita la composizione del suo ultimo dipinto, non è stato quello di riprodurre opere conosciute, ma soltanto di portare i suoi oggetti quotidiani e quindi le sue forme in modo che Morandi fosse soltanto evocato, mai pedissequamente riprodotto. Le mie opere parlano del processo mentale di Morandi, ma ribaltando i punti di vista, ponendo l’accento sull’orizzonte e non sulle bottiglie disposte in modo non morandiano, Morandi permane nella memoria senza esistere più. Credo che anche questa sia una chiave per leggere questo lavoro.
SRP: Nella serie “orizzonti”, mostri le piramidi in Egitto da un punto di vista tale da non renderle riconoscibili. Le piramidi diventano orizzonti. Si ha l’impressione che tu voglia sovvertire la riconoscibilità degli oggetti e la loro lettura all’interno di un contesto storico. Qual è il tuo rapporto con la Storia?
BN: C’è un aforisma di Karl Kraus che amo molto: “Artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma”. Le mie piramidi raccontano simbolicamente l’enigma della nostra esistenza e di quello che c’è dopo la vita. Le piramidi sono esattamente questo: la connessione tra ciò che noi siamo e ciò che saremo dopo la nostra morte. L’Egitto è parte di me, della mia vita. Amo la storia egiziana e questo viaggio che ho fatto tra le pietre delle piramidi è stato un viaggio dentro le origini dell’umanità ma anche un viaggio spirituale. Tra l’altro c’è una leggenda dell’antica mitologia egizia che parla di Nut e Geb, in altre parole del cielo e della terra. La leggenda narra che Geb e Nut erano in origine uniti, che facevano costantemente l’amore. Alcune raffigurazioni lo disegnano addirittura col pene eretto. Ma un giorno il dio Ra, contrariato per questa unione, ordinò a Shu di dividerli, creando lo spazio tra cielo e terra. Nut, proprio in quella occasione, formò la volta celeste. In qualche modo ho raccontato la storia di questa leggenda.
SRP: Cito un’intervista di Maurizio Cattalan a Félix Gonzáles-Torres: “Una volta ho incontrato uno dei tuoi vecchi studenti a New York e mi ha detto che tu facevi sempre loro questa domanda. La domanda è: “Qual è il vostro pubblico?”. Qual è, dunque, il tuo pubblico, Brigitte?
BN: So soltanto che il mio pubblico quotidiano è composto da una bambina, Matilda, di 7 anni, mia figlia. È severa e implacabile. In lei c’è il mondo, il tempo che verrà. Lei è il mio pubblico. E quando ho dei dubbi, mi vengono in mente le parole di Jean Cocteau: “Quel che il pubblico ti rimprovera, coltivalo, è il tuo io”.