Sonia Campagnola: Ricordo che la prima volta che ci siamo incontrate abbiamo parlato degli Stati Uniti, della Cina, della Russia. Sei stata via dall’Italia per molto tempo; a New York e poi a Berlino prima della caduta del muro. Adesso invece vivi a Roma. Qual è il tuo rapporto oggi con questi paesi nei quali hai vissuto così a lungo?
Bruna Esposito: Qui da noi ci sono stati dei moti di vero e proprio odio generico nei confronti degli Stati Uniti quando hanno invaso l’Iraq, e una delle prime reazioni che ho avuto è stata di grande fastidio. Queste generalizzazioni mi hanno mortificato. Ho vissuto lì dal 1980 per sei anni e mi sono convinta che i nordamericani hanno almeno il grande merito di aver portato dinamismo, velocità e leggerezza laddove questi erano considerati sostantivi negativi. Non ci tornerei a vivere ora, ma sento che i mei amici artisti e la vita lì continuano a evolversi con forme di libertà, espressione e modernità meravigliose. Parlo di New York chiaramente, dove ho vissuto.
SC: Quando eri a New York, cosa facevi? E poi a Berlino, che esperienze ricordi di quel periodo?
BE: A New York la domanda tipica era “what are you doing next?” (che cosa stai preparando?), invece a Berlino la domanda era sempre “Welche ist die Bedeutung?” (qual è il significato?). Ecco, ricordo la differenza tra questi due modi, l’uno proiettato senza sosta e vertiginosamente nel fare e nel futuro e l’altro dolorosamente introspettivo e senza nessun senso del paradosso. Ancora oggi penso che siano state per me come due scuole.
SC: Attraverso un sondaggio apparso di recente su Flash Art ci siamo posti un quesito: vivere e lavorare nelle periferie del mondo, lontani dai grandi centri come New York o Londra, è ancora una condizione sfavorevole o no? Tu cosa pensi?
BE: La domanda è complessa, la mia risposta deve essere breve e mi scuso se è ovvia. Il computer e la TV hanno accorciato le distanze. Ma fino a quando i terrorismi colpiranno col fuoco le grandi città, invece dei sobborghi, sarà il segno che le capitali conservano ancora un significato di emblema e un portato di palcoscenico e di rappresentazione.
SC: E Roma, è una periferia o no?
BE: Si dice sia l’ombelico. Mi permetto di dire che è piuttosto intestina. Tenue e crassa. Metabolizza e assorbe tutto. Purtroppo, quello che oggi la rende centralissima e bersaglio è la probabile e imminente collisione tra diverse ideologie. Le ideologie sono lievito a basso costo. Sono pane per chi ha fame e ha perso la bussola. Troppi i predicatori le cui parole funzionano come detonatori a distanza. Mentre due volte l’anno i carnevali e i fuochi d’artificio accontentano un po’ tutti. Lo chiamerei Circensis sine panem. Mentre nel quotidiano gli ingorghi e l’immondizia sono inarrestabili. Questo un po’ ovunque e in molti campi…
SC: La tua origine, geografica e culturale, in che modo influisce nel tuo lavoro?
BE: È innegabile che il mio cognome sia squisitamente napoletano. Quando sono arrivata la prima volta a Istanbul mi sono sentita subito a casa e questa sensazione non l’ho mai provata a Bologna o a Milano. Certo, quando vivevo a Berlino molti pensavano che fossi un’immigrata turca, o forse egiziana o precisamente romana. Mangiavo sempre i doner kebab. Ricordo che a Berlino vedendo un film con Anna Magnani mi sono commossa. Ma la Magnani doppiata con una voce in tedesco mi faceva ancora più piangere. L’empatia con i sapori e i colori nelle combinazioni dei cibi e le allusioni e i sottintesi nelle parole della propria lingua e del proprio dialetto, che è una lingua, sono questi i legami che considero i più arcaici e durevoli. Per non parlare delle melodie. È incredibile quanto la musica, la forma d’arte più aerea, si radichi nel profondo. E che dire degli odori?
SC: Molti tuoi lavori coinvolgono più sensi, l’udito e l’olfatto soprattutto. Cosa mi puoi dire di Tre aromi per 3 per esempio?
BE: Lavoravo alla mostra “La ville, le jardin, la memoire” per Villa Medici a Roma, e ho avuto qualche sentore che, al pari di un palazzo antico, è monumentale anche la memoria degli aromi e dei suoni. Tre aromi per 3 è un lavoro che mi ha confermato quanto immense possano diventare le spezie semplicemente bollendole nell’acqua e spandendosi ovunque. Aromi ancora più esaltati quando ascoltavo in cuffia i tre brani musicali composti da Stefano Maria Longobardi, da noi dedicati ai bimbi, al dolore e alle unioni: cannella, chiodi di garofano e cardamomo.
SC: Ti capita spesso di lavorare con altri artisti o musicisti. Puoi raccontarmi le collaborazioni meglio riuscite?
BE: Nelle collaborazioni vi sono fattori (chi, come, dove, quando) che dipendono dal caso e dal caos. Non credo sia un caso invece il riconoscersi. A colpo d’occhio. Anche nel senso di riconoscersi nell’altro.
Andries van Rossem ha composto un coro a 12 voci e solista soprano su testi di Paola D’Agnese, per l’epilogo di un lavoro che si intitola in inglese “Amen” e in italiano “E così sia”. Il coro ha cantato prima che io disfacessi il grande mosaico fatto a terra con legumi e cereali sul disegno ornato di una svastica, in una cappella della cattedrale sconsacrata di Arnhem, in Olanda, in occasione di “Sonsbeek 9” nel 2001.
A New York lavorai molto con Kristin Lovejoy e Penelope Wehrli, la mia partner in tanti happening dei primi anni Ottanta a Storefront. Con Annie Ratti c’è una buona intesa; con lei ho realizzato delle opere per il Centro Civico di Serre di Rapolano. Con David Hammons abbiamo presentato l’opera Materasso addormentato alla Biennale di Lione del 1993. Con Massimo Bartolini e Mario Airò c’è buona interazione quando capitiamo nelle stesse avventure, per esempio quest’anno un bel libretto di disegni a sei mani per una mostra a Bregenz, in Austria. Nel piccolo Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo torno volentieri a lavorare e a esibire dal 2003 in sintonia con Passiflora una sala degli attrezzi utilizzabile da tutti che ho realizzato grazie a Enzo De Leonibus.
SC: Mi dicevi che a New York hai studiato danza. Come è entrata questa esperienza nel tuo lavoro?
BE: Sì, ho studiato con Batya Zamir la aerial dance, su sculture elastiche e sospese dello scultore Richard van Buren, suo marito. È stato difficilissimo e faticoso imparare le prese e le spinte, i rimbalzi e la gravità, soprattutto non irrigidirsi… mentre Batya sembrava un’acrobata, un angelo volante. Invece con Sally Gross mi sono concentrata di più sull’ossatura, i movimenti ortogonali, il peso e la caduta. Ci risiamo, ancora le due scuole!
SC: I titoli dei tuoi lavori, così come i soggetti hanno molti riferimenti religiosi a volte biblici (Aureole, Di luce propria, La Sagrada Familia, Stragi di Innocenti, Trittico dell’ape…). Non è un caso che riti e i simboli siano elementi che tornano spesso nei tuoi lavori. Cosa mi dici di questo aspetto del tuo lavoro?
BE: L’unico tempio possibile è il gabinetto. Il rito più arcaico è la cura del nostro corpo visibile e invisibile. Nutrirci senza abusare di nessuno e lasciare meno scorie possibili. E continuare a girare in orbita intorno al sole alla distanza e alla velocità che permette la vita sul nostro pianeta. La sensibilità ecologica può avere un impatto simile alla religione se si considera che è fatta di piccoli gesti e di piccole scelte quotidiane. La sintonia. È una forma di auto-guarigione. Una specie di credo.
SC: Parliamo della tua ultima mostra, “Alla Turca”, da Federico Luger a Milano. In quest’occasione hai esposto una lunghissima serie di disegni: tutte declinazioni di un progetto iniziale ideato nell’86 a Berlino, ed esposto una prima volta alla Biennale di Istanbul del 2003. Di cosa si tratta?
BE: Si tratta di appunti, schizzi, studi e disegni per un gabinetto pubblico a secco, ossia senza l’uso di acqua potabile per trasportare gli escrementi. L’idea in sintesi è che l’impianto a secco e il vaso non siano nascosti e blindati, bensì collocati in una specie di serra, quindi semicelati e accolti tra le piante, le decorazioni e gli ornamenti. Tutto è iniziato quando ero molto giovane a Berlino, con lo studio, la progettazione e le verifiche costruttive. Poi, due anni fa, in occasione della biennale curata da Dan Cameron la prima costruzione di un gabinetto “a secco” presso il museo di tecnologia per ragazzi a Istanbul.
SC: Il gabinetto pubblico è un oggetto sempre più rimosso dall’arredamento urbano a causa di ciò che Cameron definisce “our disgust at our bodies’ capacity to produce waste” [il nostro disgusto della capacità del nostro corpo di produrre rifiuti]. Da dove nasce questo tuo interesse?
BE: Non ho inventato né brevettato nuove tecnologie, bensì ho ripercorso le modalità in uso comunemente prima che nella Roma antica si inventasse l’assurdità chiamata latrina ad acqua. Dalla fine dell’Ottocento, quando gli inglesi hanno messo in produzione il WC, questa follia si riperpetua in vari stili e stravaganti design ancora oggi nelle nostre case.
SC: Conosci il lavoro di Monica Bonvicini Don’t Miss a Sec, del 2004? A parte quel lavoro, la storia dell’arte contemporanea ha trovato nella “toilette” un archetipo. Viene in mente Jonathan Horowitz con l’installazione Pissroom and Shitroom del 2006 e Atelier Van Lieshout che ha studiato diversi prototipi di unità mobili, Compost Toilet Milano e Compost Toilet Sonsbeek (2001). In che modo ti confronti con questi progetti più o meno coevi al tuo? Quali sono i punti di vicinanza e di distanza con il tuo?
BE: Ho visto il lavoro dell’Atelier Van Lieshout in Belgio, anni fa. Mi piacque il fatto che il vano fosse posto molto in alto, ma non capii perché simulassero una sorta di baracca fatta di finti pezzi di risulta. Gli altri lavori non li ho ancora visti. Quella con i gabinetti pubblici è stata una malattia virale, che mi ha contagiato a Berlino Ovest, e poi è diventata cronica, ossia è durata quasi venti anni. Ricordo che rimasi molto colpita dei lavori architettonici progettati dallo straordinario pittore Friedensreich Hundertwasser in Austria. Lui, già attentissimo ai problemi ecologici, aveva costruito e usava un cesso a secco a casa sua, negli anni Cinquanta.
SC: A cosa stai lavorando ora?
BE: “What are you doing next?”… sei newyorchese?