Bruno Locci, artista, fotografo, pittore infaticabile, ci ha lasciato improvvisamente, nel pieno della sua attività e dei suoi vulcanici progetti, il 2 gennaio di questo nuovo anno, stroncato da un male incurabile. Era nato a Cagliari il 18 ottobre del 1937, viveva e lavorava a Savona. Ideatore della mitica boutique Equipe 84 a Savona e poi a Genova, specchio del gusto degli anni Ottanta, Bruno Locci era divenuto animatore, editore e referente di una sottocultura giovanile, ossessionata dalla griffe nell’abbigliamento, segnata dall’adesione a uno stile di vita spensierato e consumista, in netta rottura con quello politicizzato degli anni Settanta. Da quell’osservatorio giovane e modaiolo, guardava la società nel suo farsi spettacolo, sentiva la precarietà delle grandi ideologie, la crisi delle coscienze e dei valori, l’accelerazione dei ritmi di vita, le seduzioni irresistibili dell’immagine, le tentazioni del consumismo e, tra ironia e nostalgia, apriva spazi, nella sua opera, al sogno, all’emozione e alla poesia.
Non è certo senza conseguenze la frequentazione del cenacolo di Albisola, dove la ceramica futurista, con la presenza di Casa Mazzotti e l’animazione del brillante ed elegante Tullio (d’Albisola), aveva già scritto una pagina di storia. A Farfa, amico di Luigi Pennone, zio di Franco e direttore della Galleria Sant’Andrea di Savona, Locci dedica un duplice omaggio nella pubblicazione Il Gallo di Gallura (1976), Giancarlo Politi Editore. La rivista Flash Art, intanto, registra puntualmente la presenza di Bruno Locci in mostre di rilievo internazionale. Dalle foto argentate della Grande Famiglia, simbolo di una società, anzi sintomo di una socialità in crisi, si passa alla rassegna dei tic del ruolo, tra il patetico e l’impietoso, della pubblicazione Full Time, dove l’identità dei soggetti singoli non cessa di frammentarsi nel part-time quotidiano della vita pubblica e privata, dell’immagine domestica e di quella ufficiale. L’artista opera prelievi di gruppo, realizzando una campionatura di tipologie professionali (professori, avvocati, artiglieri, postini, pompieri, notai, camerieri, bande musicali cittadine) accostate a classi sociali (operai e dirigenti). Per entrare nell’ottica di Locci, Full Time è una pubblicazione chiave nella quale si registra non solo il lato freddo del concettuale, tendente all’elencazione distaccata dei soggetti fotografati — alla maniera dei gasometri di Bernd & Hilla Becher —, al censimento anagrafico degli individui e professionale dei gruppi — alla maniera di Clegg & Guttmann —, ma anche la dissociazione di un’identità nel suo doppio o nella coralità multipla delle sue voci. Tre volte me stesso in un unico momento, in un unico luogo fa giocare duchampianamente a scacchi l’identità di un soggetto con la propria alterità, secondo una problematica profondamente avvertita nella ricerca artistica contemporanea. Non meno intrigante è Storia identica di un ritratto, dove una tenera adolescente si ripresenta quattro volte identica a se stessa, ma stampata su quattro diverse carte emulsionate. L’attenzione analitica al supporto di quest’opera fotografica è parallela a quella della Pittura Pittura di quegli anni, altrettanto attenta al proprio farsi attraverso l’uso degli strumenti. Questo meta-album, riproposizione di ritrovamenti di foto che lo scorrere del tempo ha reso anonime, edito da Flash Art, ratifica il sodalizio tra Giancarlo Politi e Bruno Locci, nato nel 1967 da un incontro nella galleria milanese Cadario e consolidato nelle frequentazioni estive di Finale Ligure, Ellera, Calice Ligure.
Nel 1969 l’artista indaga radicalmente le potenzialità del mezzo fotografico, realizzando grandi tele emulsionate con interventi di aniline colorate. Ancora una volta è il suo sguardo che opera spostamenti di carattere concettuale. Nel 1970 pubblica Stepping Stone, un disincantato giro d’orizzonte, in bianco e nero, sul terrain vague di una società dove l’industria guarda il suo post, dove la natura, desertificata di realtà, anticipa il trash in arte, mostrandosi come discarica dei consumi consumati: cimitero degradato, ma non sempre biodegradabile, di relitti ancora umani, dove al posto delle rosse lattine di Coca Cola, fantomatico emblema pop, si accumulano birre nazionali e succhi di frutta Yoga. Il catalogo accompagna una mostra in galleria, costituita dalla sola proiezione iterata del film; le pagine, scorse in rapida sequenza, rinviano ai tempi di ripresa, ritmati da fotogrammi ora bianchi ora neri, da “zoomate” prese carponi su una spiaggia che un gruppo di bambini ha improvvisamente disertato, su un lastricato urbano, dove il vento ha ora spazzato ora addensato coriandoli, postumi di un carnevale in stile felliniano.
Nel dicembre 1974 la rivista americana Avalanche segnala, tra le pubblicazioni internazionali degne di nota, Full Time di Bruno Locci (Flash Art Edizioni), con un’immagine di modella tratta dalla sequenza Arti e Mestieri. Nel 1976, esce Il Gallo di Gallura, dove un possibile riferimento autobiografi co è ironicamente giocato su metafore, luoghi comuni, rituali di gruppo. È ancora con uno spirito duchampiano che egli utilizza foto d’archivio come ready made. Ancora per Politi Editore, nel 1977 viene pubblicato Signore e signori qui si dà inizio al gioco, impietoso ma sottile ritratto di un borghesismo salottiero anni Cinquanta, e nel 1982, su design di Franco Mello, Archivio, dove titolo e contenuto si corrispondono tautologicamente, trattandosi di sequenze di foto che rinviano a uno stoccaggio della memoria che in nessun modo coinvolge l’autore, e Potreste venire domenica pomeriggio a prendere un bicchierino da noi, originale ripetuto sessanta volte con fotografi e a colori.
Ma è negli anni Novanta che Bruno Locci recupera la manualità, la immette nel sistema della ripetizione seriale, senza ricorrere alla riproduzione meccanica, recuperando anzi il rispetto professionale, devozionale perfi no, per la qualità del telaio e del colore, dopo aver sistematicamente indagato il ventaglio delle gamme cromatiche, calde e fredde, degli oli di marca britannica Rowney Georgian da 225 ml. e Winsor & Newton. Per chi conosce il suo lavoro di oggi in pittura e quello di ieri in fotografia, non può sfuggire la volontà disinvolta, ma determinata, di coniugare il numero con l’idea, vale a dire la quantità con la qualità. Non si può dimenticare che Bruno Locci ha lavorato nella moda, partecipando quindi ai modi di una produzione seriale, ha interiorizzato il senso del look come processo di identificazione del gruppo. Il reinvestimento in pittura di questa sua esperienza fa riflettere, nel momento in cui la fotografia in arte trova ampi consensi, e avverte che la sua conoscenza dei meccanismi commerciali viene paradossalmente applicata controcorrente. La lettura dell’opera di questo artista non può che procedere sui due binari paralleli della precedente produzione fotografica e dell’attuale produzione pittorica, perché i dispositivi messi in atto dall’autore rispondono sempre a istanze di carattere concettuale.
Per tutta la sua vita Bruno Locci non ha mai smesso di lavorare a una sorta di non-luogo: il punto in cui la massima velocità coincide con l’immobilità assoluta. Quanto più la sua identità sottoscrive una poetica dello spostamento, tanto più la sua opera restituisce il fermo immagine. Si ferma quello che scorre. Immediato è il rimando al cinema, dove lo scorrimento del fotogramma scandisce il tempo, mentre lo stop dell’immagine occupa uno spazio. Il senso della sua opera è da ricercarsi esclusivamente nell’istante in cui il clic fotografico si appropria di un momento storico, senza diventare documento, e il suo gesto pittorico ferma una realtà, senza raccontarne la storia. Nella produzione fotografica, a partire dai primi anni Settanta, Locci passa in rassegna una galleria di soggetti estranei, riportati al presente dall’autorità di uno scatto, dall’arbitrarietà di un prelievo da un archivio. Nella produzione pittorica anni Novanta ricorre un soggetto: l’albero, possibile ritratto di una presenza, forse la sua o quella del suo sguardo, preso nella velocità del fondo che scorre. Le sue tele a olio, numerate e firmate come in una sorta di inventario di anime, sottoscrivono il titolo Fermo immagine/Freeze frame. Un soggetto insistente è colto o immaginato da un veicolo-velivolo in velocità, pronto a entrare nell’archivio della memoria dell’artista stesso e dell’osservatore. Il paesaggio tende a rinviare alla condizione del deserto, dove implodono soggetti e oggetti, ma anche la profusione di elementi di consumo, il ronzio della corsa metropolitana. L’arcobaleno cromatico della sua tavolozza può saturarsi o decantarsi anche in una declinazione retinica dei grigi. I suoi libri opera si autolegittimano a censire figure del domestico e dell’estetico, del quotidiano e del mitico, elencando con spirito ora notarile ora creativo quei gesti decisionali che, letti da un osservatorio prospettico ultratrentennale, fanno di una vita ordinaria una vita straordinaria, della vita di Bruno Locci una vita d’artista. ?