Se vogliamo inquadrare l’opera di Bruno Munari nel Novecento, dovremmo comprendere il cambiamento che ha rappresentato nella percezione stessa del significato dell’arte oggi. Munari ha depotenziato tutti i punti di riferimento, non semplicemente classici, dell’arte, ma anche quelli che le varie avanguardie storiche cercavano di ri-formulare. Non solo non c’è più il bello, il bene e il vero, ma non basta più nemmeno il costruttivo, il concettuale, il formale, lo psicologico e lo scientifico. È arte forse proprio nel momento in cui è fuori dall’arte? Cosa sarebbero sennò le Macchine inutili nell’era delle tecno-scienze? O cosa sarebbero le Proiezioni nell’era del Cinema? Munari non è semplicemente uscito dalla cornice, è semmai uscito dal significato stesso di opera. E l’opera di Munari è il mezzo con cui dialoga con ciò che ha attorno, sia essa natura, fisica, materia, esperienza, storia, tempo; una comunicazione che pone in opera[i] la realtà. L’effetto immersivo e alle volte spaesante che le opere di Munari innescano nel pubblico (che sia indistintamente composto da appassionati, esperti o curiosi), sembra causato proprio da questa comunicazione totale di una virtualità che in effetti era sistematicamente realizzata. Basti come esempio la serie delle Proiezioni a luce Polarizzata (1952), una produzione di opere che superano la contingenza del reale giacché possono estendersi oltre la propria dimensione, proiettandosi attraverso la luce, nell’ambiente. Queste opere, rappresentano il fulcro della mostra “Bruno Munari. I Colori della luce” realizzata con Miroslava Hajek a Napoli presso la Fondazione Plart di Maria Pia Incutti, con il sostegno del Museo MADRE e della Fondazione Donnaregina. Tornando al visitatore, “Lasciatelo Divertire!” come direbbe Palazzeschi, che di gioco creativo se ne intendeva bene, insieme a Cangiullo inventore di prose piedigrottesche. Questa libertà poetico-fanciullesca[ii] metteva l’artista in una condizione di verginità rispetto alla realtà, un processo artistico inteso come nuovo riadattamento al mondo capace di rendere re-vedibile la conoscenza. Una conoscenza però di tipo ludico, un girare in tondo così come un prendere in giro. Munari in ciò rispecchia “l’anima scugnizza del futurista italiano” come ne ebbe a dire Claudia Salaris[iii], la cui monelleria è in realtà, capacità di scalfire il senso comune. A partire dagli esperimenti di conquista progressiva dello spazio reale quali Macchina Inutile (1934), Concavo-Convesso (1947), Ambienti a luce polarizzata (a partire dal 1954), abbandona la bidimensionalità della tela per seguire il movimento diretto della luce nello spazio, e giunge ad una trascendenza della pittura.
Macchina Inutile è un’evidente continuazione del complesso plastico del 1915[iv]. Questa nuova prassi artistica scopre il fascino della materia che veniva impiegata per se stessa. Le opere riflettono la semplicità della meccanica: la forza, la trazione, la rotazione, il peso, la leva, divengono propriamente formalizzazioni astratte. Per questo possiamo dire che le Macchine Inutili non hanno un significato esplicabile in termini nominali, ma il contenuto proprio coincide con la formalizzazione stessa dei materiali. Questione già implicitamente asserita nel Manifesto della Ricostruzione dell’Universo, quando leggiamo: “troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”[v]. L’indicazione del moto – inteso come strumento per introdurre il tempo nell’opera – è esplicito, ma ad esso dobbiamo notare un proposito che lo precede nella fattualità, un’idea cioè d’azione concettuale, analitico-logica, che richiede l’individuazione di equivalenti astratti.
Dunque un procedimento all’inverso mirato a rifondare l’opera d’arte su nuove premesse ontologiche. Potremmo dire di essere così giunti nei pressi dell’alfabeto futurista? Usando una analogia linguistica, li chiameremmo morfemi, le unità minime grazie alle quali è permesso lo sviluppo del linguaggio. Ecco il grado autentico dell’astrazione italiana che sarà poi fondamento nell’arte di Munari: l’astratto-concreto, ovvero un processo prima di individuazione delle strutture interne delle cose, poi la riduzione di queste strutture a pochi schemi generali e da qui la formalizzazione di ipotesi relazionali. E qui che sveliamo il valore fondante che Munari trapassa dal futurismo nel proprio modo di fare arte: ovvero quel meccanismo di creazione autonoma di un proprio alfabeto morfologico su cui erigere la propria galassia di forme. In Concavo-Convesso, invece, alla mobilità aerea si aggiunge il fattore luce. L’immagine finale è frutto dell’interazione tra la materia fisica dell’opera e la luce reale che oltrepassandola proietta una composizione ombratile nell’ambiente esterno, ciò permette di creare un’opera con doppio movimento, fisico e fenomenico. Non è un caso a questo punto che non solo approderà di conseguenza dall’ombra alla luce, ma anche che in virtù di questo meccanismo figura-sfondo arriverà di lì a breve a lavorare sul negativo e positivo. Queste opere sono ancor più fondamentali, anche se non ce ne occupiamo in questa sede, per dimostrare l’attitudine di Munari al mondo fenomenico. In effetti i negativi/positivi sono figure ambigue, sono configurazioni che sottoposte ad un’osservazione prolungata, generano almeno due, a volte anche più, rendimenti percettivi, tutti ben riconoscibili, che si alternano senza mai fondersi in unico risultato. L’artista giunge nel 1950 a creare composizioni con materiali poveri o anche con frammenti di vetro colorato e plastica trasparente, elementi organici e fili di cotone, fermati fra due superfici di vetro. Nascono così le proiezioni di diapositive contenenti composizioni intitolate Proiezioni a luce fissa[vi]. Una rivoluzione rispetto al concetto stesso di portabilità dell’opera, essa da 5cm × 5cm può divenire 10m × 10m, permettendo di affrescare intere pareti, o addirittura le facciate urbane. Occorreva però dinamizzarle, ovvero rendere attraverso la luce la più ampia variazione dei colori. Munari scopre il filtro polaroid, che è una materia plastica prodotta in lastre. Se tra due dischi polaroid s’inserisce un pezzetto di cellophane e lo si guarda in controluce, si vede che il cellophane, incolore, ha assunto una varietà di colori. Se si fa ruotare lentamente uno dei due dischi, i colori cambiano fino ai complementari. Ora questo è il semplice fenomeno fisico che Munari studia cercando di scoprire le possibilità per improntare un nuovo modo della comunicazione visiva. Attraverso quest’ulteriore procedimento, l’artista giunge a utilizzare i colori allo stato naturale, colori estratti dalla luce bianca, e poi la variazione dei colori stessi. Nascono così le Proiezioni a luce Polarizzata[vii]. Nelle Proiezioni a luce fissa la plastica è impiegata a seconda del suo colore, per essere investita dalla luce. Nelle Proiezioni a luce polarizzata la plastica è il mezzo per estrarre colore dalla luce. E così, Munari, fonde materia e luce producendo delle opere il cui messaggio finale: “non è una sola immagine definita, ma tutta una moltitudine di immagini in continua variazione”[viii]. Il tempo, è ormai conquistato sotto forma di una discontinuità, intesa come modo proprio d’essere dell’opera d’arte, un’opera aperta. Ciò condurrà a tutte le successive ricerche dei gruppi dell’Arte Programmata, presentate dallo stesso Munari nel 1962, quando organizza la prima grande mostra al negozio Olivetti di Milano[ix]. Ci fermiamo qui, al termine dell’origine dell’artisticità di Munari giacché dopo non seguirà che l’esplosione della galassia delle sue forme, applicate in diversi ambiti, dalla comunicazione visiva, al design, alla scrittura creativa, alla didattica, all’editoria e al cinema. Il mio balcone è sulla spiaggia e quindi tocco quasi l’acqua del mare che è illuminato dalla luna. Potrei languidamente sognare, ma Munari ricorda che abbandonando l’apparenza possiamo scoprire l’indefinito. Riguardo allora alla Luna è vedo il Tempo, guardo alle stelle e penso che quella luce per arrivare a me, è partita molto tempo prima e così presente e passato e futuro si comprimono nello spazio e si sostanziano nella luce. Riguardo la notte nuovamente e penso a quello che disse Pablo Picasso e cioè che Bruno Munari è il Leonardo da Vinci del Ventesimo secolo, e stanotte sono sicuro che sia veramente così! Come Leonardo avrebbe sì fatto a suo tempo quando come obbiettivo aveva spazializzare con il corpo lo spazio, così Munari deve sezionare la terra nelle sue materie se come obbiettivo ha quello di spazializzare con il corpo il tempo.