Il vero artista deve giurare sul giuramento: dedizione al silenzio.
Federico Fellini, 81/2
Nonostante o probabilmente a causa della sua decisione di non partecipare al dibattito attuale dell’arte visiva, Cady Noland è diventata un punto di riferimento e al contempo una leggenda per le ultime due generazioni di artisti americani e non solo. Tracce della sua “rabbia visiva”, della sua critica senza compromessi nei confronti della società americana — in termini formali, di contenuti ma soprattutto di atteggiamento — si possono scorgere nel lavoro di Sam Durant, Matt Keegan, Rachel Harrison ma anche in quello dell’inglese Helen Marten e della tedesca, da anni residente a New York, Josephine Meckseper oltre che del canadese, anch’egli ormai newyorkese, Bozidar Brazda. Concepito come omaggio all’opera e alla leggendaria figura di Cady Noland, questo progetto editoriale è stato pensato non per dare una panoramica della sua arte, ma per creare un rinnovato interesse nei confronti della sua opera e presentare le immagini del suo lavoro a coloro che non conoscono bene quest’artista che segnato la storia della società americana grazie a una pratica diretta ma mai ovvia, abbandonando il corpus dei suoi lavori che rappresentano ancora un unicum sulla scena dell’arte contemporanea e si rivolgono in modo criticamente assai deciso a un’era che sembra essere giunta al termine.
Nicola Trezzi è US editor di Flash Art International.
Cady Noland è una criminale in buona fede del mondo dell’arte, l’ultima nel suo genere. Autoesiliatasi per più di un decennio, e tra l’altro senza una spiegazione, ha raggiunto la notorietà in netto contrasto con quella dei cosiddetti “bad boys” e con la loro ossessione di essere al centro della celebrità. Non collabora con Young Hollywood, non decora borse né accetta inviti come giudice a trasmissioni televisive che si occupano di arte. Non si atteggia a un’altezza reale del regno dell’arte e solo raramente fa riferimento al lavoro di suo padre (Kenneth Noland, famoso pittore) nelle sue immagini, simili a quelle dei tirassegni, di assassini e politici impallinati. Il suo silenzio è d’oro, è un santuario rispetto al costante bisogno che ha il mondo dell’arte di generare nuove parole. È lo yin rispetto allo yang di Warhol, e insieme probabilmente rappresentano il traguardo che ogni artista vorrebbe raggiungere nei confronti del concetto di popolarità, senza perdere la libertà. Poiché l’approccio al suo nuovo lavoro, se effettivamente esiste, si limita al sentito dire, chi scrive non è in grado di dire molto se non interpretare la sua assenza (e ancora solo parzialmente) come un gesto pericoloso, un’estensione poco chiara della sua opera più recente altrettanto oscura, e cercare di comprendere quale risonanza potrebbe avere sul clima artistico attuale. Finora, nemmeno la ristretta (solo a parole) cerchia di critici che continua a sostenerla sembra intenzionata a commentare il perché Noland, la figlioletta prodigio, abbia schivato il mondo dell’arte, o se nel suo gesto ci sia qualche valenza artistica o politica.
Per la cronaca, non sono interessato a definire Cady Noland, altri ne hanno fatto il centro della loro vita lavorativa. Uno dei più rappresentativi di questa categoria è Brian Sholis nella cui fanzine Why we Should Talk about Cady Noland afferma: “Forse si sta impantanando e un giorno deciderà di realizzare una mostra. Ma mentre ci allontaniamo nel tempo dalla sua creazione e dalle sue mostre, e mentre la sua influenza prolifera fra le giovani generazioni di artisti entusiasti di scandagliare il fondo della cultura contemporanea, diventa sempre più importante non far scivolare la sua impresa nell’oblio”. Questo piagnisteo, chiaramente fatto da uno dei suoi fan, non solo rinnega il potere latente del suo silenzio, ma fondamentalmente ne riduce la sua attualità, utile ai giovani artisti. Cosa c’è di meglio per contrastare il mercato che rinnegarlo? Fare arte senza farla? Distinguersi nel mare dei cercatori di notorietà invece di galleggiarvi? Atteggiamenti tali si intravedono nel silenzio della Noland. Un atteggiamento che, in fondo, si basa sul fatto che una crescita implacabilmente esponenziale non è l’unico obiettivo della carriera di un artista, mentre una contrazione esponenziale è altrettanto valida. Sacrilegio, lo so!
“L’atteggiamento”, per parafrasare Harald Szeeman, “diventa forma”. Le macchie di Jackson Pollock sono probabilmente uno degli esempi più significativi di questo principio. Noland fa suo il motto e lo adatta: alla matrice del suo silenzio l’atteggiamento è forma. Il che probabilmente è un altro modo per dire che la vita si mescola sempre all’arte (e spesso l’arte alla vita). È possibile che Cady Noland, la cui carriera è una sorta di caricatura di quella della sua musa Patty Hearst — ereditiera dei media, prima icona di culto poi reclusa —, venga percepita come la personificazione di questo circuito? Per un breve lasso di tempo, prima che diventassimo i fabbricatori di specchietti per allodole per ricchi, gli artisti erano parte di una casta di fuorilegge e l’arte era la nostra arma. E la pittura per un attimo era Gordon Matta-Clark. L’anno è il 1972 e Matta-Clark, con una sega in mano, sta facendo a pezzi il pavimento di un palazzo fatiscente nel Bronx; due poliziotti, insospettatisi del rumore, entrano armati nel palazzo. Matta-Clark riesce a evitare l’arresto o peggio… Tutto ciò è quanto di più lontano dagli “interventi” carini nelle gallerie che oggi definiamo all’avanguardia. Il silenzio di Noland, come le Anarchitecture di Matta-Clark, suggeriscono che atteggiamento e forma devono essere mantenute allo stesso livello in modo da far prosperare l’arte, che senza atteggiamento è mera decorazione.
Esistono dei parallellismi fra Cady Noland e mio padre, un musicista che alla fine degli anni Settanta ha abbandonato l’industria della musica, accrescendo la mia convinzione sull’importanza del potere del silenzio. I dischi indie che aveva prodotto con suo fratello sono la prova che esiste una sorprendente capacità di recupero: oggi infatti sono diventati oggetto di culto per la radio e sono stati menzionati da poco nella rivista Rolling Stones (insieme ai Velvet Underground e ai Beach Boys); inoltre sono stati ripresti da musicisti sperimentali come Panda Bear degli Animal Collective. Questo aneddoto è la prova che l’arte di qualità è imprevedibilmente longeva. Essere al servizio del mercato vuol dire non solo creare una carriera potenzialmente breve ma forse anche tracciare la via più sicura per realizzare un lavoro intrinsecamente debole. Prendere le distanze dal mercato potrebbe essere un atteggiamento contro-intuitivo. Un suicidio. Ma grazie a questa “morte” si palesa la libertà di creare fuori dai confini di un mondo dell’arte cult.
Sono il primo ad ammettere che parlare male del sistema con il sistema è problematico. Le riviste costituiscono una fetta della ierocrazia di questo mondo (e guadagnano in parte dalle gallerie e dai musei). Mi piacerebbe pensare che numerose opere d’arte cesserebbero di esistere senza l’aiuto del sistema (o meglio cesserebbero di esistere nel modo in cui le conosciamo oggi). A essere sinceri, ammetto che anche io ho beneficiato delle relazioni della mia galleria (addirittura ne ho diretta una piccola a Chinatown per breve tempo). Non vado poi così lontano dalla realtà se scrivo che la professione dell’art dealer è più libera di quella dell’artista, che invece deve scendere a compromessi maggiori. L’art dealer infatti non si preoccupa di mercificare l’arte e quindi lavora con una coscienza serena. L’artista invece patisce il fallimento commerciale e la perdita di credibilità che derivano dall’avere troppo successo, e di conseguenza oscilla fra la volontà di servire la propria visione e la costante richiesta del mercato. Detto ciò, l’artista che è in me spera che Cady Noland continui a provocare il sistema. Il suo silenzio d’oro è un valido sostituto di certi oggetti duri e freddi? Dipende dalla persona a cui si chiede; chi è stuzzicato dalla possibilità di un nuovo lavoro o chi apprezza il dono del suo silenzio? Non voglio sostenere che ogni artista dovrebbe adottare questo atteggiamento, a molti mal si adatterebbe. In tutta onestà, alcuni sono in pace con il loro lavoro e la loro carriera, mentre altri semplicemente “non sanno che pesci prendere”. Forse bisogna solo chiedersi: Warhol o Noland? Il calore della fama o la rilassatezza della notorietà? Che cosa vogliamo inseguire? Che cosa rende un artista migliore? Io probabilmente rimarrei zitto e cercherei di scoprirlo.
Bozidar Brazda è artista e scrittore. Vive a New York.
Era il marzo del 1992 e le porte della mia mostra di diploma al California Institute of Arts erano state sigillate dalla polizia locale. Avevo trasportato all’interno della galleria della scuola con luci fluorescenti alcune mitragliatrici e dei detonatori di dinamite, e avevo scritto sui muri le formule chimiche degli esplosivi oltre ad avere creato un buco nel soffitto. Gli studenti più giovani avevano avvisato la polizia senza capire che si trattava di una mostra: a nulla era servito che il lavoro centrale fosse il video di una rapina che avevo girato nella più vicina banca Wells Fargo. Ma nonostante i tremori con la polizia, passai l’esame e con altri due colleghi mi incamminai verso New York. Una volta arrivati la città appariva calda e deserta. Allora decisi di andare a Kassel per aiutare con altri amici a montare alcune installazioni per Documenta 9, fra cui quelle di Cady Noland in mostra fra un garage sottoterra e i musei più importanti della città: un’esperienza illuminante.
Cady aveva realizzato uno dei pezzi più grossi di Documenta, un’istallazione che copriva in modo disordinato metà del garage, imperniata intorno ai pannelli d’alluminio con le parole di un suo testo, Towards a Metalanguage of Evil, casualmente appoggiati ai freddi muri di cemento. Il garage era ancora in costruzione, sembrava più una zona di guerra che un luogo per una mostra. Per questo motivo Cady aveva dovuto mettere pesanti cilindri di cenere e nastri di sicurezza di fronte al suo lavoro, oltre a tubi al neon dietro le pietre per illuminarlo. Una macchina americana d’epoca (una Camaro rossa se non ricordo male) faceva parte dell’installazione insieme ad altre opere di amici come quella di Steven Parrino collocata vicino alle pozzanghere d’olio e a una pittura su muro di Jessica Diamond ancora da terminare. Vicino all’installazione più monumentale c’era un grande furgone riversato su un fianco su pallet di legno con la parte frontale incidentata e frammenti di vetro ovunque; in aria aleggiava il pericolo e il caos. In questo garage freddo e buio abbiamo spostato i cilindri di cenere, le barriere di metallo e le opere per diversi giorni, e qualsiasi cosa cambiassimo l’installazione era sempre eccellente. Il curatore Jan Hoet e i suoi collaboratori mostravano un certo nervosismo fino alla notte prima dell’inaugurazione per via di questo continuo movimento, ma davanti al risultato finale furono entusiasti. Il lavoro di Cady Nolan fu uno dei più discussi e ammirati di tutta la Biennale e io, rientrata a New York, pubblicai un articolo sul primo numero di FAT, un progetto per una rivista concettuale, travestita da tabloid. Il tema era “Il Bene e il Male” e fra i vari mi avvalsi dei contributi di Ashley Bickerton, Jason Rhoades, Sam Durant e Sylvère Lotringer. Chiesi anche a Cady un contributo, ma non riuscii a convincerla a partecipare. A ogni modo il mio lavoro da allora ha subito una metamorfosi radicale. Sono passata dal progetto per una rivista ai wallpaper, dai film alla fotografia, a progetti visivi, fino alle vetrine dei negozi e altro ancora, anche se il modo di mescolare velocemente gli oggetti e la conseguente ossessione nei confronti dei particolari mi ricorda i giorni trascorsi con Cady in quel garage a Kassel. Era in grado di generare una forza e un potere completamente nuovi e totalmente suoi.
Josephine Meckseper è artista. Vive e lavora a New York.