Aurélia Bourquard: Cominciamo dal “Palazzo Enciclopedico”, l’esposizione concepita da Massimiliano Gioni per la Biennale di Venezia che ti è valsa il Leone d’argento. Come si prepara e quali sono le implicazioni di un’esposizione di questo tipo? Si tratta di una mostra come le altre o di un’occasione diversa da tutte le altre?
Camille Henrot: Per quanto mi riguarda, non sapevo nemmeno che esistesse un premio per gli artisti dell’esposizione, il che mi ha evitato di essere troppo sotto pressione, se non altro rispetto alla questione “premio”. In compenso, è vero che la Biennale di Venezia è un’esposizione internazionale, una cassa di risonanza molto più ampia rispetto ad altre mostre. È un aspetto che, ovviamente, non si può fare a meno di prendere in considerazione, ma personalmente metto la stessa cura nella preparazione di tutte le mie mostre, la Biennale di Venezia come la prossima esposizione per il New Orleans Museum of Art. Quanto al progetto par la Biennale (Grosse Fatigue, video colore, 13 min), si trattava in origine di un progetto di ricerca, che ho presentato la prima volta nel settembre 2011 allo Smithsonian Institute e mi è valso una borsa di ricerca, The Artist Research Fellowship. Ho lavorato molto alla redazione di questo progetto, lo Smithsonian Institute è il più grande centro di ricerca e raggruppamento di musei del mondo. Ho cominciato raccogliendo nelle collezioni, nei data-base online e negli archivi dei musei tutte le manifestazioni che si configuravano come l’espressione di un desiderio di armonizzazione totale del sapere, per poi investigare i sistemi e le credenze che avevano reso possibili queste accumulazioni: così facendo, mi proponevo di rispettare la bellezza e l’integrità di ogni progetto culturale, la sua storia e il suo effetto sui singoli individui. Il film che ne è risultato è una sorta di atlante degli atlanti, un inventario delle strategie messe in atto dall’uomo per inglobare la totalità del sapere in forma accumulatoria, analitica (enciclopedia, archivio, museo, biblioteca, motore di ricerca) oppure sintetica (oggetto religioso, opere d’arte). Ispirato tanto a Mnemosyne. L’atlante della memoria di Aby Warburg quanto al Fotodramma della Creazione dei testimoni di Geova, il film costituisce una sorta di metastoria dell’universo, un atlante degli atlanti in formato ridotto. Questo progetto — e con progetto intendo sia la ricerca preliminare sia l’opera finale — avrebbe avuto un suo interesse solo a condizione di accettare di riflettere in tutta sincerità sul valore di questa idea di costruire la storia dell’universo e sui metodi possibili per riuscirci.
AB: Torniamo a quello che dicevi della Biennale come appuntamento immancabile. In effetti, la Biennale è non solo l’appuntamento fisso di tutti gli attori del mondo dell’arte contemporanea, ma anche un’esposizione aperta per oltre sei mesi a un pubblico di specialisti e non. Che impatto può avere un’esposizione di questo tipo sul pubblico? Come vorresti fosse letta e percepita la tua opera da parte di un pubblico così eterogeneo?
CH: Sono completamente contraria all’idea di una cultura elitaria alla quale si opporrebbe una cultura popolare organizzata secondo codici differenti, senza alcuna possibilità di dialogo reciproco. Non sono ancora bastate tutte le esposizioni sulla Pop Art e i suoi eredi? Dal mio punto di vista, ogni linguaggio artistico sincero è mosso da una forza e da un’energia che si comunica al pubblico, indipendentemente dal fatto che si tratti di un’opera dall’aspetto austero o seducente. Passo molto tempo a osservare il pubblico nelle esposizioni, m’interessa ascoltare i loro commenti e capire il modo in cui percepiscono le opere. Spesso la reazione del pubblico è diametralmente opposta a quello che la critica d’arte immagina: le opere di Sol LeWitt, per esempio, suscitano un’ammirazione immediata, mentre i video musicali di Kenneth Anger, che hanno ispirato tutta l’estetica dell’industria musicale, provocano spesso un rigetto netto! Cerco sempre di fare in modo che lo spettro di lettura delle mie opere sia il più ampio possibile, che ne risulti un effetto d’ambiguità favorevole al maggior numero d’interpretazioni possibili. A differenza di un pubblicitario, che utilizza un linguaggio diretto per esprimere un messaggio unilaterale, all’artista spetta di proporre uno spazio di libertà per la persona che fruisce la sua opera: una libertà radicata precisamente in uno spazio d’interpretazione.
AB: In effetti, in riferimento al tuo lavoro parli spesso di miti, della storia di volta in volta religiosa, trash, popolare e ancestrale come sfondo. Da un punto di vista formale, fai uso dei media e dei materiali più diversi: video, scultura, disegno, installazione, materiali molto semplici e grezzi — i vegetali (penso per esempio all’esposizione “Est-il possible d’être révolutionnaire et d’aimer les fleurs?” [Si può essere rivoluzionari e amare i fiori?] alla galleria Kamel Mennour di Parigi, 2012), la ceramica, gli oggetti quotidiani più banali — accostati a strumenti tecnologici complessi, all’uso di Internet, etc. Come spieghi questo intreccio di dimensione naturale, artefatto umano e tecnologia 2.0 nella generazione di artisti prossimi alla trentina cui appartieni?
CH: Non saprei dire se si tratta di una caratteristica specifica della nostra generazione, personalmente utilizzo tutto quello che ho a disposizione. Quanto al mio lavoro, preferirei parlare di emozioni essenziali più che di media: nelle mie opere non esistono né sistemi né materiali di predilezione. Di Joseph Beuys, per esempio, amo molto I like America and America likes me, perché apprezzo particolarmente il riferimento al mito dei nativi americani, alla figura del coyote e al senso di colpa che ne à derivato in tutta la cultura statunitense. Quello che mi interessa sono le tematiche essenziali dell’umanità, non gli aspetti formali. Non cerco di fare una scultura, cerco di produrre un oggetto. Un oggetto ha una finalità più ampia di una scultura; un oggetto può essere utile, banale, pericoloso, può essere oggetto di un desiderio, di una fascinazione. Mi affascina particolarmente l’idea che, tutto sommato, il destino delle opere d’arte sia più ampio di quello della storia dell’arte, perché ogni opera s’inscrive nella storia dell’uomo nel suo complesso e pone la questione di ciò che è oltre l’umano. L’essere umano è abbastanza intelligente per far fronte a Google? Da un giorno all’altro, abbiamo avuto accesso a dei flussi d’informazioni permanenti ma in fin dei conti troppo imponenti perché si possa davvero controllarli o sperare di averne mai una visione d’insieme. Tutte queste informazioni sono all’origine di un sentimento ambivalente, di superpotenza e d’impotenza insieme. Questa idea di un’oscillazione costante tra potenza e debolezza mi affascina, in qualche modo è anche il soggetto di Grosse Fatigue: la rapidità del flusso trasmette fiducia, la voce del narratore infonde un sentimento di comunione simile a quello di un predicatore che perora la causa di tutte le religioni esistenti. Ma quando la voce narrante canta o si mangia le parole, ecco emergere questa fragilità, questo sentimento di solitudine e di fallimento. Mi affascina l’aspetto emozionale legato all’abbondanza del flusso d’informazioni. Wikipedia è un’applicazione ossessiva, vorrei iniziare un progetto su questo tema, ma sarà senza dubbio un progetto più attivista che artistico. Anche eBay mi interessa, mi piace questa idea di una seconda vita degli oggetti; eBay è uno uno strumento fantastico per gli amanti degli oggetti come me. Non sono invece su Facebook, non sarei in grado di utilizzarlo bene; è senza dubbio un’idea naïve, ma lo percepisco come il trionfo del gregarismo nella sua forma più nociva alla felicità umana.
AB: Credo sia proprio questa la ragione per cui la nostra generazione può essere considerata un po’ schizofrenica, incastrata com’è tra la disinibizione di Facebook e delle pulsioni più old-school…
CH: La nostra è una generazione che è capace di far uso di questi strumenti ma non ci è nata insieme; credo sia questa la ragione fondamentale di questo doppio sentimento di attrazione e di disgusto.
AB: Al giorno d’oggi siamo senza sosta assaliti dalle immagini, le informazioni sono istantanee, le risposte alle domande immediate; nonostante questa evoluzione ultra-rapida, le tradizioni e i codici ancestrali sembrano tuttavia perdurare, immutabili. In qualità d’artista, tu come ti collochi rispetto a queste evoluzioni in avanti e a questi slanci indietro?
CH: Per me, la storia è un sistema d’elastici che si tendono e si rilasciano nel corso del tempo: ogni movimento in un senso genera un movimento in senso opposto — simultaneamente o con un leggero gap temporale. In quest’ottica di una dinamica d’azione e reazione, il ritorno d’interesse e di credenza per l’oggetto è completamente coerente con la smaterializzazione che ci circonda. Se molti artisti lavorano oggi sul libro, sul suo valore come oggetto, è precisamente perché sentono che presto scomparirà. A sua volta, la rinascita di un interesse per i miti e per le credenze interagisce bene con le tecnologie digitali. Per il mio film, ho studiato molto i siti dei testimoni di Geova, dei mormoni, delle sette in generale ma soprattutto di quelle caratterizzate da una spiccata volontà di proselitismo. Le nuove forme di comunicazione di massa sono degli strumenti perfetti per queste sette, è interessantissimo studiare chi trae davvero vantaggio da Internet e chi se ne serve al meglio.
AB: Il tuo lavoro è poliedrico, proteiforme e interroga sotto innumerevoli punti di vista il processo di trasmissione del sapere. Si parla spesso di te come di un’artista collezionista: qual è il tuo punto di vista sulla nozione di collezione?
CH: Dal mio punto di vista non esiste la collezione perfetta, esistono molti tipi diversi di collezionista. Il mio rapporto alla collezione non è in alcun modo legato a un desiderio di esaustività o alla ricerca dell’oggetto prezioso, non ha niente a che vedere con la logica degli album di figurine della nostra infanzia, dove sapevi esattamente che immagine ti mancava e quale ti toccava recuperare. Colleziono in modo completamente intuitivo e impulsivo, ho pochissime monomanie. La maggior parte della mia collezione è costituita da libri, ma raccolgo anche gli oggetti la cui forma mi attira o di cui m’interessa comprendere il valore rappresentativo. Si va dallo stivale da pompiere agli sticker per moto da cross, passando per i telai delle porte in argento scolpito: tutti oggetti che conservo nel mio atelier fino al momento in cui capisco cosa farne. Alla fin fine, sono un’accumulatrice più che una collezionista. In una delle sue opere, Aprendo le casse della mia biblioteca. Discorso sul collezionismo, Walter Benjamin utilizza l’espressione “delirio da ordinamento” a proposito di un medico che ha cercato di comporre una sorta di antologia della storia umana, dei suoi sintomi, stabilendo delle strane corrispondenze per costituire un sistema chiuso e totalmente coerente. Una volontà d’accumulo e di raggruppamento che, a poco a poco, lo confina nella follia. Nel mio caso, il delirio d’accumulo riguarda sia gli oggetti sia il sapere, è quasi una ricerca del vuoto. Come nei progetti sull’ikebana, è un modo per costruirsi un mondo a parte.