“Never Ending Stories” è il titolo della personale di Candice Breitz presso la Fondazione Modena Arti Visive. Curata da Daniele De Luigi, la mostra mette in dialogo tre grandi video-installazioni che restituiscono le principali tematiche approfondite dall’artista sud africana nella produzione degli ultimi cinque anni. I fili conduttori dichiarati dal curatore: lo storytelling, come strumento che definisce la realtà vissuta dal soggetto, e il rapporto con il tempo e con l’attenzione nel contesto dell’overload informativo della società tardo-capitalista. Ma sono molte altre le questioni che emergono dai lavori di Breitz, dalla giustizia riproduttiva alla crisi dei rifugiati.
Le opere si integrano bene con l’architettura della Palazzina Dei Giardini, articolata in un vestibolo ottagonale da cui si dipartono due ali laterali speculari. La visita inizia dall’ottagono centrale, che appare quasi integralmente occupato da una grande tenda circolare di un tessuto grigio e pesante, che racchiude in uno spazio protetto i filmati di Labour (2017–in corso) Questo progetto attualmente include sei video che rappresentano scene di parto che scorrono in rewind, con neonati che scivolano via dalle braccia delle madri per essere nuovamente risucchiati dentro i loro uteri. Il lavoro è inquadrato da una cornice narrativa che immagina un governo matriarcale femminista in un futuro non specificato, dove ci si avvale dell’estremo potere di invertire il processo di procreazione per eliminare dal mondo quegli individui che minacciano l’umanità con le loro azioni e discorsi contro l’autodeterminazione dei corpi delle donne. Echeggiando la recente cancellazione del diritto costituzionale all’aborto operata dalla Corte Suprema statunitense, Labour rimanda a una ricca tradizione di speculative fiction femminista. I video ribaltano lo svolgimento lineare del tempo, inghiottito negli uteri insieme ai bambini, e introducono così i visitatori nella sospensione che caratterizza la temporalità degli altri due lavori in mostra.
Nell’ala destra dell’edificio, Love Story, già presentato in Italia nel Padiglione del Sud Africa in occasione della Biennale di Venezia del 2017, propone una riflessione sulle strategie mediatiche per confezionare storie che monetizzino la capacità attentiva ed empatica delle persone. Legato alla crisi europea dei migranti del 2015, Love Story è strutturato in due ambienti e sette video per un totale di oltre venti ore di girato (durata che rende una veloce fruizione intenzionalmente impossibile), e racconta sei storie di migrazione e fuga da guerre, regimi politici autoritari e discriminazioni. I resoconti rimbalzano dalle voci dei veri protagonisti a una reinterpretazione affettata messa in scena dalle due superstar hollywoodiane Julianne Moore e Alec Baldwin, mettendo alla prova i meccanismi che attivano la nostra capacità di ascolto e identificazione. La scelta di Breitz di coinvolgere nel lavoro un gruppo di persone estremamente diverse per nazionalità, estrazione sociale, percorsi di vita, respinge inoltre gli stereotipi sui rifugiati solitamente veicolati dai media e riporta su un piano di umanità una narrazione troppo spesso disumanizzante.
La mostra include infine Digest (2020), un allestimento con 1001 videocassette sigillate in custodie dipinte di nero, disposte ordinatamente su mensole bianche (1001 come le storie che Shahrazād racconta al sultano Shahriyar per non essere uccisa). Il lavoro riconduce alla dimensione fisica che una volta accompagnava l’immagine in movimento, andata persa nell’epoca digitale: una materialità che non riguardava solo i supporti, ma anche i processi di distribuzione, che implicavano spazi di incontro dei corpi, come le videoteche. Tutte le custodie, non apribili, riportano sul fronte una singola parola, unica traccia del titolo originale del film nascosto al loro interno. I gruppi di parole che si formano nella sequenza delle cassette sulle mensole sembrano suggerire ai visitatori nuove possibili narrazioni del presente.
Legati da rimandi e corrispondenze, nel complesso i tre lavori in mostra si potenziano l’un l’altro e offrono stimoli di riflessione puntuali e domande su alcune tra le questioni più urgenti del mondo contemporaneo, evitando di dare facili risposte. Se da una parte viene messa in evidenza la tensione tra verità e finzione come fondamentale dinamica che dà forma alla realtà, a essere celebrata è soprattutto la forza della narrazione come strumento generativo e di sopravvivenza che ci consente, come afferma l’artista, “di capire chi siamo, di acquisire e conservare la nostra storia, di immaginare futuri migliori”,1 in un raccontare e raccontarsi senza fine.