Chi rinuncerebbe a vestire i panni dei suoi personaggi preferiti? Da fenomeno di nicchia, il cosplay è diventato espressione di una sub-cultura e il suo immaginario è ormai radicato nella contemporaneità e nelle arti visive. Il cosplay nasce alla fine degli anni Settanta in Giappone dal bisogno di impersonare altre identità – costum (costume) e play (interpretare). Il termine identifica la pratica del travestimento in un personaggio di fantasia assumendone le caratteristiche formali e comportamentali. Inizialmente i personaggi provenivano dal mondo anime e manga, poi questa pratica si è estesa ai videogames, al cinema, alle serie tv. Eppure c’è una sostanziale differenza fra il cosplay e il mero travestitismo e sta nel “play”, nella capacità di immedesimarsi nell’alterità: i cosplayer sono veri e propri personaggi che si sceglie di interpretare. Quando nel 1999 Hou Hanru visita per la prima volta lo studio di Cao Fei, giovanissima e appena diplomata all’Accademia di Belle Arti di Guangzhou, scopre uno dei suoi primi lavori, Imbalance 257 (1999), e coglie in quella grammatica visiva e concettuale del rapporto dell’umano con il virtuale e con la società globalizzata dell’accelerazione economica, il germe di una ricerca più complessa che Fei avrebbe sviluppato negli anni successivi. Quell’intuizione accadeva in un momento storico – e nella fase pre-cosplay di Fei – che ad oggi sembra incredibilmente lontano, quasi preistorico se lo guardiamo secondo la velocità con cui la realtà è cambiata nel XXI secolo. Totalmente in linea con la sua matrice curatoriale Hanru presenta “Supernova”, la prima personale in Italia dell’artista al MAXXI di Roma. Le pareti perimetrali della Galleria 5, spazio per certi versi più complesso del museo, presentano una finta boiserie realizzata esclusivamente con una tinta verde menta che richiama la cucina dismessa che appare in Eternal Wave (2020), film di 12 minuti in realtà aumentata, qui esposto. Questo l’unico intervento che altera visibilmente lo spazio, che per il resto presenta un allestimento pulito, “corretto” se consideriamo la necessità di ricreare contenitori installativi per esperire gran parte dei lavori.
Penso a Nova (2019) e alle dimensioni piuttosto contenute del teatro Huguang Guild Hall ricostruito con una fila simbolica di sedute su una pedana rialzata che aiuta il visitatore a entrare nel lavoro, nel paesaggio distopico che Fei ricrea nel suo quartiere Hongxia proiettato nel futuro. I personaggi, confusi, si risvegliano in un quartiere spoglio, raggelante, difficile stabilire se siano ancora realmente vivi. La mostra restituisce in maniera aperta, senza percorsi cronologici forzati, la ricerca per certi versi inaccessibile di Cao Fei a un pubblico lontano da certi linguaggi, così come dalle dinamiche del processo di urbanizzazione della Cina tra gli anni ’80 e ’90, elemento cruciale nella sua produzione. Da RMB City – A Second Life City Planning (2007), una città cinese fittizia nella prima piattaforma virtuale creata da Fei “Second Life” attiva fino al 2011, così come il suo avatar China Tracy; Haze and Fog (2013), La Town (2014), ad Asia One (2018), fino ai già citati ultimi lavori incluso Isle of Instability (2020) installazione multimediale commissionata da Audemars Piguet Contemporary. Se con Nova siamo ancora nella fase di fiction e cosplay in cui Fei gioca sulla temporalità e sulla sovrapposizione di realtà, in questo lavoro – realizzato a Singapore dove Fei è rimasta bloccata con la sua famiglia per diversi mesi senza poter rientrare a Beijing –, il rapporto tra virtuale e reale è osservato esternamente, con un occhio che non riesce a inserirsi in una realtà parallela ma che è spettatore di una quotidianità intima e silente, una domesticità fatta di pochi elementi essenziali, un pouf, una pianta, uno schermo e un piccolo essere umano che vive un mondo in cui i rapporti umani, così come le nostre identità e il senso dell’esistenza sono tutte da ripensare.