Alla biennale, in una baraonda di feste, in un turbine di megabarche con elicottero incorporato, in un garrire di bicchieri e champagne, in uno sbandamento di trasporti tra vaporetti e motoscafi, molte mostre fanno parlare di sé.
Tra queste il padiglione italiano di Sgarbi desta clamori e polemiche a non finire. Basta mettere dentro il naso per capire il perché di tanto clamore. Padiglione da urlo, più di dolore che altro: impiccati di bronzo, bocche invitanti, opere una sull’altra, appese come nelle estemporanee del mio paese su tubi per così dire Innocenti, colpevoli invece di sopportare tante velleità. Tubi Innocenti col tappo a funghetto. Opere appese con cavetti e tiranti, una sopra l’altra, con una foresta di cassette di legno a terra, che indicano due nomi: l’intellettuale complice di Sgarbi e l’artista da lui invitato. Sgarbi Vittorio, mondo da colpe, gira preceduto da un nugolo di fotografi e seguito da un corteo di ammirati che entrano così per qualche istante nel Gioco e nella Storia.
Fa caldo nel padiglione affollato dai 300, giovani e forti, preceduti dagli amici e seguiti dai parenti, almeno quattro a testa e quindi milleduecento. Un successo di pubblico autogenerato. Nel padiglione Italia vi sono fior d’artisti: Kounellis, Accardi, Pistoletto, Cucchi, Paolini, Beecroft, Gaetano Pesce, Adami, Olivo Barbieri, Icaro, Vangi. Pochi hanno detto “no grazie”. Paolo Gioli per esempio ha rifiutato l’invito di Italo Zannier, sottocommissario per la fotografia.
E chissà quanti altri. Mimmo Jodice invece ha accettato e poi ritirato le opere una volta constatata la situazione. Questa manifestazione è dunque frutto dello sforzo intellettuale congiunto di trecento noti personaggi della cultura, moda, spettacolo, che hanno aderito al Monopoli e hanno indicato, ognuno, un “artista”, non pensando di cacciarlo nei guai e diventando così complici di una cooperazione che crea il delitto perfetto: ammazzare l’arte italiana per overdose, coprendola di ridicolo con l’aiuto fornito dalle stesse vittime. La sindrome di Stoccolma vale anche per il mondo dell’arte. Nipoti, amanti, parenti espongono grazie all’invito di scambio.
Chi volesse farsi un’idea delle arti in Italia all’inizio del XIX secolo deve usare un decoder. Onesti predatori del pennello, per parafrasare Gianni Brera, si accompagnano ad artisti maggiori, cosicché non si capisce più niente. Con la spensierata e inconsapevole complicità dei trecento sottocommissari, beatamente ignari di quella cultura di cui dovrebbero essere alfieri, Sgarbi Vittorio raggiunge il proprio scopo: la storia recente dell’arte italiana viene finalmente riscritta; i vinti, finalmente vincitori, dimostrano la pochezza dei pretesi maestri ora mescolati alla truppa. Paolini per esempio, scelto da Marco Vallora, sodale del commissario, cui non ha saputo o potuto dire “no grazie”, ha mandato un vecchio bigliettino dechirichiano “Et quid amabo nisi quod aenigma est?” messo sotto una teca di Plexiglas, appoggiata su un cubo bianco, accompagnata purtroppo da un altro cubo con i due nomi, Vallora/Paolini, annegati in un mare di altri lavori, accavallati gli uni sopra gli altri in una spensierata festa campestre dell’arte italiana che esce rinnovata e sorprendente dal cilindro di Mago Vittorio. Op-Là, il padiglione va visto, forse la cosa più istruttiva della Biennale: ci sono andato ben due volte. Vittorio impazza e avanza felice a passo di carica, mani nei capelli ma non per disperazione, seguito da amici in festa e parenti dei trecento. Tutti sono ammirati, lui gongola. Fa vedere un piccolo dipinto di Piero della Francesca di recente attribuzione inserito nel lavoro di un artista e naturalmente mi auguro che sia davvero così. Poi nel mezzo di un felice corteo a passo di carica una signora grida: “Vergognati Vittorio!”. Lui impallidisce, il corteo ammutolisce aspettando la reazione. Lei insiste, un po’ naif: “Vergognati, questo padiglione non ci rappresenta!” (capirai, era proprio questo l’assunto: sputtanare i migliori frullandoli in mezzo agli altri). A lui si gonfiano le giugulari, un bello smacco, una bella signora nota nel mondo delle arti, mica una qualunque. Esce il grido di battaglia di Sgarbi Vittorio: “Befana! Ignorante! Capra! Capra!”. Immagino abbreviazione e sintesi di (ignorante come una capra). Segue una cascata di improperi e altri insulti con il ritmo necessario a non dare respiro alla vittima, che abbiamo ormai imparato a conoscere dalle trasmissioni televisive. Un amico prende l’adirato commissario per un braccio e tenta di riportarlo alla normalità, ma lui insiste, con le carotidi ormai allo stremo: “Capra! Capra!”. Ma che cavolo c’entra la povera capra?