Arianna Rosica: I tuoi lavori li realizzi nella tua casa sul lago Maggiore. Come mai questa scelta di non avere uno studio e di usare la quotidianità fino in fondo?
Carlo Benvenuto: Sono nato e cresciuto sul lago Maggiore, in una casa dove oggi vivono i miei genitori e ho sempre pensato a quel luogo come l’inizio, l’origine di me come uomo e come artista. Il mio lavoro, nel tentativo di superare l’impasse imposta da Duchamp, intende aggiungere una cosa al mondo e partire dall’origine. Lavorare in quella casa è stata quindi una scelta inevitabile.
È stato naturale concentrarsi sugli oggetti che quotidianamente ho a disposizione, il bicchiere, la tazza, il tavolo. Usarli senza caricarli di biografia, letteratura, politica, evitando di collocarli nel tempo e in uno spazio riconoscibile.
L’oggetto, rispettato nella sua dimensione e forma, nella precisione dei suoi contorni, è inquadrato frontalmente e senza scorci espressivi. Voglio farlo sentire a proprio agio, senza l’obbligo di fare niente, per consentirgli di diventare opera d’arte.
AR: Le tue foto sembrano quasi delle pitture. Come mai utilizzi la fotografia per arrivare a un risultato pittorico?
CB: “Penso alla pittura solo scopo della vita mia”, citando De Chirico. L’impatto che la fotografia esercita sulla realtà mi permette di incidere l’immagine sul negativo in una frazione di secondo. Quello che penso è fissato istantaneamente. La pittura è per me un pensiero continuo e idealizzato.
AR: Qual è l’oggetto che avresti sempre voluto fotografare e non ci sei riuscito?
CB: I miei oggetti non devono parlare né muoversi, non devono fare alcun tipo di sforzo, ovviamente neanche quello di tenere gli occhi aperti. Vorrei fotografare il buio, il buio degli occhi chiusi.
AR: Guardando le tue foto, sembra che gli oggetti quotidiani da te immortalati si carichino improvvisamente di nuovi e sorprendenti sentimenti. In che modo si compie questo processo? Sono proprietà intrinseche agli oggetti che selezioni?
CB: I miei oggetti non hanno una qualità intrinseca, anzi azzardo che è proprio in virtù del contrario che sono perfetti. È la rappresentazione e la inevitabile ripetizione di essi a renderli soggetti a interpretazione. L’arte che amo potrebbe essere responsabile del risultato formale ed evocativo che tu generosamente attribuisci loro.
AR: Come hai più volte dichiarato, ti senti lontano dall’“arte spettacolare”. Come definiresti la tua poetica? Potremmo parlare di un’arte che basta a se stessa?
CB: Non metto alcuna distanza tra me e l’arte che viene definita spettacolare. La meraviglia fa parte del linguaggio dell’arte da sempre, Zeusi dipinse acini d’uva così reali da trarre in inganno gli uccelli. Ma una volta che questo brivido si è consumato, ciò che resta è ancora interessante? C’è ancora un’emozione? Io sono a casa mia, con i miei fantasmi e i miei oggetti.
AR: Qual è la tua opera a cui sei maggiormente legato e perché?
CB: L’opera alla quale sono maggiormente legato è sempre l’ultima. Come ho detto in precedenza, desidero aggiungere una cosa al mondo. Intendo ogni nuova opera come quella che ancora mancava, è distillata dalle precedenti, si avvicina di un passo alla mia idea.
AR: Noti un cambiamento nel tuo approccio al lavoro rispetto agli esordi?
CB: No, l’approccio è il medesimo. La conseguenza del tempo trascorso dagli inizi a oggi è che mi sono impadronito della tecnica fotografica che, pur non considerandola un valore in sé, riverbera comunque nel mio immaginario. Ho acquistato la prima macchina fotografica in occasione della mia prima personale, era un banco ottico, l’apparecchio che impressiona negativi grandi come una cartolina postale. Questo per ottenere la massima qualità del dettaglio e stampare grandi formati. Ho imparato da solo, facendo tesoro delle difficoltà e dei buoni risultati. Nella mia espressione artistica inconsapevolmente ho incluso anche questo tragitto di apprendimento.
AR: Hai mai provato a usare altri media oltre alla fotografia?
CB: La mia ossessione è la pittura. Uso la fotografia come pretesto per tradurre questo pensiero che, occasionalmente, prende anche forme diverse. Questi sono lavori speciali, intimi, in qualche modo ancora più privati. Ho usato il vetro di Murano per replicare i bicchieri della mia cucina o la punta di diamante per inciderli. Ho riprodotto il mio tavolo e la mia sedia e li ho sospesi su cappucci di biro Bic. Ora, per le mostre “ABCD” e “ABCDE”, alla Galleria Mazzoli e alla Galleria Suzy Shammah, ho esposto in ognuna un vassoio di legno che, in una versione, restituisce l’albero dal quale proviene e, nell’altra, si contorce in una decorazione fuori contesto.
Inoltre disegno da sempre, una forma di disciplina che per me è affine alla fotografia. Un segno immediato e definitivo per comprendere la realtà e appropriarsene.
AR: La tua poetica si concentra in particolare su una ristretta serie di oggetti. Come mai?
CB: Mi piacciono le cose trasparenti, sia fisicamente che concettualmente. Prediligo gli oggetti la cui natura è sfuggente, pronti ad apparire come fosse la prima volta.