Giulia Conti: Alla base della tua opera c’è il lavoro d’équipe che si svolge nell’Estudio Amorales. Com’è nata l’idea di intraprendere questo tipo di attività nella quale sei manager?
Carlos Amorales: Già prima del 2006 avevo lavorato in équipe, ma solo nell’ambito di organizzazione di eventi e performance. Non si trattava ancora di uno studio vero e proprio. L’esigenza è arrivata con l’idea di fare animazioni: in questo campo avevo bisogno del supporto di altre persone con competenze diverse dalle mie, per esempio per la parte digitale. Ho pensato che la cosa migliore fosse iniziare a lavorare con altri. Come una sorta di Walt Disney su piccola scala, o imitando gli studi classici d’animazione, digitale e non tradizionale, sempre però con il sostegno di diverse persone. Da quel momento abbiamo iniziato a progettare altre animazioni. Nel tempo, cominciarono a emergere altri interessi, che poco a poco ci hanno portato verso direzioni differenti: collage, disegni, sculture, installazioni, fino alle ricerche a cui siamo approdati adesso, che riguardano soprattutto l’ambito editoriale.
GC: Secondo quali criteri hai scelto le professionalità dei tuoi collaboratori?
CA: Per me era importante che i componenti dello studio non fossero altri artisti, ma che provenissero da studi di graphic design. Da una parte erano specialisti, dall’altra persone appena uscite dall’università, quindi senza molta esperienza. Inoltre i progettisti grafici hanno un modo di operare diverso rispetto agli artisti. Per questi ultimi la questione dell’identità, della paternità e dell’originalità dell’opera è molto più importante. Ho pensato che collaborando con altri artisti si sarebbe creato un rapporto tra maestro e apprendista, cosa che non volevo. Scegliendo di lavorare con designer grafici avrei avuto invece maggior libertà di ricerca per me e per trasmettere loro cognizioni, ma non a livello artistico. Mi sono reso conto che, appena usciti dall’università, erano ancora molto inesperti, giovani e immaturi. Mancava loro esperienza lavorativa, ma possedevano la competenza tecnica che aveva dato loro un’università specialistica. Quindi nello studio è diventata importante la necessità di trovare momenti in cui scambiarsi le conoscenze, cercando la maniera di venirsi incontro e avere riferimenti comuni. Questo affinché si creasse una sorta di “mistica dello studio”, che indicasse che stavamo facendo qualcosa di speciale, non soltanto producendo, e perché chi lavorava con me non si considerasse unicamente un esecutore delle mie opere, ma anche parte di una situazione creativa più vasta. C’è libertà di pensare: si condivide un’avventura, una stessa idea, una medesima intenzione di sviluppo.
GC: Come funziona, all’interno dello studio, il processo di sviluppo delle idee che danno origine alle tue opere?
CA: La particolarità dello studio non è tanto la questione teorica, che nel tempo ha perso importanza, ma quella formale. In qualche modo è nato un metodo di lavoro che credo sia caratteristico di quest’ambiente: si è sviluppato a seconda dei diversi periodi e attraverso le diverse specializzazioni, capacità e interessi dei singoli membri. Non tutti hanno il potere di fare tutto, e lo studio non è un collettivo né una comunità: è più simile a una struttura di impresa; c’è una mistica di approccio al lavoro, che riguarda la maniera di giungere all’opera. La questione più importante è la qualità dell’opera, e non mi riferisco solo alla sua realizzazione fisica e tecnologica. Non si tratta solamente di una questione tecnica, ma si tiene conto del fatto che l’opera d’arte presuppone al suo interno qualcosa di emotivo e intellettuale. A tutto ciò ognuno di noi deve contribuire in qualche modo, altrimenti ci si limiterebbe a sviluppare esclusivamente prodotti sulla base delle mie idee. Ci deve essere qualcosa in più, e credo che questo sia molto importante per quanto riguarda il lavoro di squadra: capire che l’energia che si sviluppa durante il lavoro e il modo di procedere fino alla fine si rispecchiano nell’opera stessa. E non solo ritengo importante che si produca, si esporti e si ritorni a vedere l’opera, ma ci si coinvolga in tutto il processo di creazione del lavoro stesso, fino a rendersi conto del suo esito in un’esposizione: in questo modo si diventa consapevoli di come funzionano un museo o una galleria, di come “funziona” la gente.
GC: Come pensi che un artista debba adattarsi alle leggi del mercato senza dipenderne?
CA: Il mercato è un mezzo di comunicazione, ma anche uno strumento malleabile. Un artista può dipendere dal mercato, come una pedina soggetta a regole di scambio commerciale, o iniziare a capire e imporre le proprie condizioni, creando i propri giochi di mercato. Ciò che mi interessa è la possibilità di trasformare la realtà del mezzo, che è qualcosa che molti artisti non riescono a comprendere. O meglio, sicuramente è presente un cinismo che, se portato all’eccesso, si rivela orribile e conduce ben presto alla ripetizione infinita, come nel caso di Damien Hirst, in cui ciò che conta ormai è solo il denaro e si perde tutto il resto. A me interessa invece spostare l’attenzione dall’opera all’atteggiamento, poiché ritengo che noi artisti generalmente non capiamo bene il mercato. Lo usiamo, ne facciamo parte, ma non lo comprendiamo. Penso che sia interessante arrivare a intenderlo per capire come utilizzarlo.
GC: Dopo aver affrontato settori artistici così diversi ti stai dedicando al campo dell’editoria, con il progetto dei “libros borrables”. Vorresti parlarmene?
CA: Tre anni fa ho svolto un’indagine in un museo messicano nel quale ero stato invitato a fare un’operazione di critica “istituzionale”, che riguardasse cioè la natura del museo, cosa che poi si è risolta con un atto di censura nei confronti di un libro che volevamo presentare e la cui pubblicazione, per questioni legali, non ha mai avuto luogo. Il libro in questione si trova ora nel mio computer, ma non può essere pubblicato. Era stato progettato, ma, per motivi giuridici, il testo non poteva essere messo in distribuzione e reso noto ad altre persone. C’erano quindi due possibilità: creare uno scandalo, chiamare la stampa e protestare, cosa che credo sarebbe diventata uno spettacolo senza avere conseguenze, o trovare delle soluzioni. Come poterlo pubblicare cambiando il suo status, in modo che, per esempio, non sia un testo ma piuttosto un disegno? Poi, all’improvviso, mi sono domandato: che succederebbe se lo stampassimo a matita, realizzando così pagine che presentano un testo, ma che hanno lo status di disegno? Oppure: che succederebbe se si pubblicasse un libro cancellabile, in modo che chiunque lo possa censurare, rendendo molto più evidente l’atto della censura per il fatto che il libro in sé sia modificabile e non permanente? Allora mi sono reso conto che non mi interessava più stampare il testo censurato. Ero già passato a un altro livello: invece di insistere su una questione concepita specificamente per quel museo, mi è parso più corretto trascenderla per arrivare ad analizzare altro. Così l’atto stesso di pensare a queste altre tecniche e soluzioni, mi ha portato a pensare a un libro che fosse cancellabile, modificabile, mutabile, di cui è possibile cambiare il testo o decidere di lasciarlo permanente, accettando ciò che vi è scritto. Sono libri cancellabili, che tuttavia si può anche decidere di non cancellare, o fare sì che solo alcune informazioni permangano. Mi sembrava interessante per le questioni che mi ponevo in quel periodo, in cui mi stavo concentrando sugli strumenti di lavoro, qualcosa a cui ho sempre dato attenzione: l’idea dell’immagine come strumento.
GC: Quali testi hai scelto per sottolineare la funzione strumentale dei tuoi libri?
CA: Avevo in mente libri che funzionassero come strumenti e conducessero a un’azione: per esempio il Codice Civile con le sue leggi, che ha a che vedere con il modo cui viviamo, ci permette di fare o non fare certe cose e quindi ha conseguenze nel mondo reale e nell’azione dei corpi sociali; oppure l’opera teatrale, che dà precise indicazioni per rappresentare un’azione corporale nel tempo. A questo punto ho cominciato a pensare come si potevano utilizzare questi libri. L’idea, per esempio, sarebbe inviare il Codice Civile francese ad avvocati, affinché lo cancellino e discutano sul fatto di cancellare le leggi: cosa accadrebbe se si eliminassero i fondamenti dell’agire sociale? Per quanto riguarda il teatro vorrei stampare due copie della stessa opera, Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, che quando è stata pubblicata ha avuto un significato molto politico e sottoporla a due persone implicate nell’opera affinché la censurino, la cambino, la aggiornino, ne cancellino i contenuti con i quali sono in disaccordo, provenendo da fazioni diverse. Le persone che ho in mente sono proprio i figli dei protagonisti del caso che ha ispirato Dario Fo, avvenuto durante gli Anni di Piombo in Italia.
GC: Che significato ha produrre un’opera affinché venga censurata?
CA: In questo caso trovo sia interessante la possibilità di utilizzare la censura come uno strumento creativo. Sarebbe a dire, una censura non fine a se stessa ma esercitata con la consapevolezza che è qualcosa che opprime la libertà d’espressione. Trascendendo questo aspetto credo che la si possa utilizzare come strumento di creatività, non contrastandola ma usandola creativamente, fino ad attribuirle senso sul piano dell’estetica o dei contenuti. Come artista sento che il fatto di digerire la Storia in modo diverso, provocando processi storici in maniera immediata, è un altro strumento possibile. Inoltre mi attrae la possibilità di guidare questi processi, in modo da poterli sperimentare attraverso diverse tappe e fasi storiche.
GC: Si può affermare che la natura “effimera” dei tuoi procedimenti artistici aiuti a riflettere sui concetti e sulle critiche che vi sono dietro piuttosto che sull’opera in sé? Quanto può definirsi la tua un’“arte concettuale”?
CA: Quella del concettuale è una questione complessa, in quanto sono convinto che esista una tradizione concettuale, ma non intendo operare a partire da essa. L’arte concettuale è già cosa acquisita e consolidata: che senso avrebbe continuare un qualcosa che è già stato affrontato? Quello che faccio, personalmente, è proprio nascondere il processo concettuale perché la forza che attribuisco all’immagine sia efficace, che comunichi qualcosa o no, l’importante è che esista. Quindi deposito il mio processo concettuale all’interno dello studio, nel processo di lavoro, nel modo di affrontarlo. E questo comporta anche le decisioni politiche, l’attribuzione dei ruoli ai membri dello studio, l’impatto sociale dello stesso al suo interno e i suoi riflessi nel mondo esterno: per esempio, se questa maniera di operare possa considerarsi esemplare nel voler trasformare la concezione sociale del lavoro. Per me tutte queste domande sono fondamentali, dato che ho sempre cercato di agire in maniera coerente: lo studio non è una fabbrica di prodotti fatti per me, è molto di più, o meglio, vorrei che fosse di più. Secondo me la politica si trova nell’atto, nel fare, nel come mi relaziono con le persone dello studio, con i curatori, nel modo in cui entro nello studio per lavorare. Sono convinto che in questo senso si possa raggiungere una dimensione che vada al di là dell’arte: una dimensione politica che tuttavia non vedo assolutamente come discorso; o meglio, è possibile comunicare un determinato discorso, ma senza che sia reso esplicito nell’opera.