L’arte di Andrea Sala (Como, 1976) prende le mosse da una rilettura di forme iconiche del design e della decorazione per gradualmente risalire a esplorare le tecniche produttive che hanno reso quelle forme possibili. L’ultimo progetto dell’artista – un’esplorazione degli strumenti artigianali – sembra essere la “quadratura del cerchio” di un fare sempre alla ricerca delle proprie ragioni.
Le arti applicate hanno sempre fatto parte del mio mondo, anche se per tanti anni non me ne sono accorto. Poi, circa quattro anni fa, camminavo per le strade di Monza. Sono entrato in un bar e ho visto delle colonne rivestite con pannelli decorativi in ceramica e vetro. Erano molto belle e contrastavano con il resto dell’arredo del locale. Ho chiesto informazioni a riguardo, ma nessuno ha saputo dirmi nulla. Mi piace pensare, però, che è dopo quel caffè che ho iniziato ad approfondire più consapevolmente l’idea di arte applicata, concentrandomi nello specifico nella ricerca di determinate tecniche e osservando l’inserimento di elementi di arte applicata negli spazi, sia pubblici che privati.
Ad esempio, osservo sempre con interesse il pannello decorativo di Prampolini al Bar Bulloni di Milano. È un grande pannello decorativo fatto di piastrelle di ceramica smaltata. Rappresenta due figure nell’atto di brindare: le loro coppe si toccano e lo champagne ne zampilla fuori. La scena si svolge davanti a un enorme grappolo d’uva dai colori cangianti. Il disegno sfrutta tutte le potenzialità offerte dallo smalto ceramico, in particolare l’iridescenza della superficie che crea sottili giochi di luce quando colpita da un riflesso luminoso.
Il pannello è appeso dietro a un grande bancone in alpacca, un metallo che viene chiamato anche “argentone”, molto diffuso negli anni Trenta. È l’unico elemento disegnato da Prampolini all’interno del locale. Le motivazioni per cui un intervento di questo tipo mi interessa sono molte. Penso, ad esempio, alla relazione dell’artista con il contesto e con il pubblico degli avventori del bar. Immagino che il suo approccio sia stato completamente diverso dalla costruzione di una mostra, ma ciò non comporta un rischio di perdita di identità, quanto un invito ad adattarsi alle esigenze del contesto. La funzione del pannello è del resto rappresentare cosa succede nel bar impiegandone gli elementi – più che un semplice elemento decorativo, è uno strumento di comunicazione.
Molte sono le tecniche affini alle arti applicate che impiego nel mio lavoro. Recentemente, ad esempio, ho realizzato una serie di sculture impiegando la tecnica dello smalto a fuoco. È una tecnica che si usa prevalentemente nel design del gioiello, ma in passato molti artisti e designer hanno realizzato complementi d’arredo e oggetti funzionali sfruttandone le possibilità. Per certi aspetti c’è una somiglianza con alcune finiture della ceramica, ma il supporto è normalmente una lastra di rame molto sottile sulla quale viene applicata a setaccio una polvere chiamata “fritta”, una sorta di pasta di vetro. La lastra viene messa in forno alla temperatura di circa 900 gradi e dopo pochi minuti di cottura si possono già osservare i risultati. È una tecnica molto complessa perché il colore, ovvero la polvere, ha reazioni non sempre controllabili durante la cottura.
Nel processo di applicazione di una determinata tecnica cerco sempre di ottenere il risultato che ho immaginato, ma ovviamente gli imprevisti possono un diventare uno stimolo importante. Per alcuni lavori che ho realizzato in passato ho cercato di sfruttare l’imprevisto o l’errore tecnico come punto focale della struttura del progetto, non solo quindi “accogliendolo”, ma cercando di avere controllo su di esso.
Credo che la differenza tra il fare dell’artista e quello dell’artigiano sia infatti principalmente nella sapienza del gesto. Nell’artigiano quella è legata all’esperienza nell’uso dello strumento e alla specializzazione rivolta verso un determinato materiale e/o una determinata tecnica. Sono lo strumento, e prima di quello la sua corretta progettazione, a produrre il suo meraviglioso manufatto.
“The Phantom of the Anvil” è il titolo della mia ultima mostra presso la Galleria Federica Schiavo, a Milano. In mostra c’è quella che mi piace pensare essere una serie di oggetti “reali”, nel senso che da parte mia non c’è stata alcuna nuova progettazione, ma gli oggetti sono copie di vere incudini, veri martelli e vere griglie con vere suole di scarpe. Nella mostra ho voluto raccontare il processo di lavoro dell’artigiano, ma anche la realizzazione di uno strumento da lavoro che servirà, a sua volta, a realizzare un certo manufatto.
L’allestimento segue la regola per cui tutte le opere sono installate alla stessa altezza, che è l’altezza media di un banco da lavoro. È una misura questa che, oltre a forzare un punto di vista inusuale, ricolloca ogni scultura nel mondo concreto del lavoro.
La mostra è divisa in tre gruppi di opere, ognuno realizzato con tecniche specifiche, non sempre relazionate alla funzione originaria degli oggetti rappresentati. Per le “incudini” ho utilizzato la tecnica della smaltatura a fuoco su rame che ho descritto sopra. I “martelli” sono composti da due parti; quella inferiore, di gesso rivestito di plastilina grigia, ha la forma della base d’appoggio che si impiega per la cesellatura a mano dei metalli; quella superiore – il martello – è di gesso ceramico patinato con pigmenti e polveri metalliche mescolati con l’ausilio di cere specifiche. Le “griglie”, infine, riproducono il piano di lavoro utilizzato dal calzolaio durante la realizzazione della scarpa. Modellate a mano, colate in jesmonite, e pigmentate attraverso l’uso di terre naturali, sono a tutti gli effetti dei bassorilievi.
In “The Phantom of the Anvil” la smaltatura a fuoco, il gesso patinato e la modellazione a mano sono tecniche scelte per amplificare il valore estetico di manufatti che raccolgono nella loro stessa forma la storia del fare.