Ho conosciuto Carol Rama (1918 – 2015) a metà degli anni Ottanta, attraverso quel piccolo gruppo di amici e collezionisti che a Torino ne seguivano e ne hanno sempre sostenuto il lavoro. Ogni volta, andare nella sua casa-studio di via Napione era un’esperienza indimenticabile, una gioia e un divertimento che di certo non potevano competere con la tetraggine delle aule del vicino Palazzo Nuovo dove avevo appena cominciato a frequentare l’università. Le grandi finestre dell’appartamento di Carol, credo mai lavate, avevano una patina grigia e densa, che diffondeva all’interno una luce pressoché perfetta, indifferente alla brillantezza del sole estivo o all’opacità della nebbia invernale. In quel tempo sospeso, questa Wunderkammer trasudava frammenti della sua intesa, ma non fortunata, vita di donna e di artista. Sui tavoli e sui mobili ottocenteschi che arredavano lo studio, c’erano le forme in legno per le scarpe, i saponi, le camere d’aria, gli occhi delle bambole; e poi matite da trucco, tubetti di colore e altri strumenti e materiali di lavoro, arrangiati secondo un ordine sorprendente. In ogni angolo c’era qualcosa, inclusi i piccoli monili in metallo da lei disegnati, o una bellissima coperta da lei cucita. Al centro di tutto, c’era Carol, che, a partire da ciascuno dei dettagli e degli oggetti che la circondavano, regalava ogni volta nuove memorie. I suoi erano racconti meravigliosi, nel vero senso del termine: verità e finzione viaggiavano sempre insieme e i nei suoi ricordi gli uomini, e soprattutto le donne che ritornavano nelle sue opere, avevano sempre un posto – a volte non sempre lo stesso… Raramente mancava di menzionare il suo amico Carlo Mollino, per il quale aveva nutrito un affetto sincero e le cui avventure, ogni tanto, sfumavano del mito. Carol sapeva incutere timore e imbarazzare il più impassibile degli interlocutori. Era incredibilmente fragile, sospettosa, ma anche generosissima. Un giorno del 1998, le chiesi di poterla intervistare. Purtroppo dei tanti racconti e pomeriggi che mi donò, quella fu l’unica volta che accesi il registratore.
Torino, ottobre 1998: studio di Carol Rama in Via Napione.
Marcella Beccaria: Carol, i tuoi ultimissimi lavori sono ispirati alla “mucca pazza”, questa storia da fine millennio di un morbo letale che si trasmette dagli animali all’uomo. Perché ti ha interessata questa vicenda?
Carol Rama: Quasi mai mi capita di vedere in televisione immagini straordinarie e sensibili. È quasi sempre il momento di spegnerla, la TV… ma per me, in questo caso è stato straordinario. Mentre guardavo le riprese ero sbalordita. Nelle immagini della mucca pazza c’erano una disperazione, una bellezza, un’angoscia e un erotismo che mi hanno colpita. Ho cominciato da queste morti collettive, da questa visione degli animali che si inclinano insieme, disperatamente, nei fossi o in riva ai fiumi, con gli zoccoli tesi verso l’alto. Ho subito fatto dei disegni, degli acquerelli, e li ho buttati su sacchi che avevo fatto intelaiare.
MB: Questi sacchi, come molti dei supporti e dei materiali che hai usato in fasi diverse del tuo lavoro – dai Bricolage negli anni Sessanta, alle gomme dei Settanta, ai rilievi tecnici e catastali degli Ottanta – avevano già una loro storia.
CR: Sono i sacchi americani usati per trasportare la posta, credo soprattutto i libri. Hanno impresse delle scritte, dei numeri e un colore particolare, sul grigio.
MB: I lavori sulla mucca pazza segnano un’ennesima fase del tuo percorso. Si direbbe che ancora una volta sei riuscita a trarre da una tragedia – in questo caso non tua personale ma collettiva – una straordinaria energia creativa.
CR: Ero in un momento di crisi e questa vicenda di cronaca mi ha molto colpita. Difficilmente un evento gioioso, un paesaggio stupendo, o una notizia meravigliosa ispirano il mio lavoro.
MB: Perché?
CR: Forse per il mio brutto destino, che forse è bello, non so. Nella mucca pazza c’era tutto: c’era il dolore, la disperazione, la contaminatio, un insieme di forze che mi hanno invogliata a lavorare.
MB: Il dolore è certo il filo conduttore che attraversa tutte le tue opere, dagli anni Trenta a queste ultime degli anni Novanta. Perché ti attira?
CR: Le ragioni non le conosco. Certamente c’è dentro di me qualcosa di anomalo, di delinquenziale. Non mi verrebbe mai in mente di fare un ritratto a una bella donna. Quando certe persone, bellissime, mi hanno chiesto di ritrarle e io ho detto di no, è stato interpretato come un atto di gelosia. Ma non era per quello. Semplicemente non mi interessa.
MB: In queste nuove opere stai raccontando la mucca pazza attraverso parti smembrate. La visione del corpo dell’animale non è mai unitaria, ma è data attraverso frammenti e dettagli di mandibole, denti, mammelle, zampe. Si direbbe insomma un ulteriore repertorio del corpo mutilato, presente nei tuoi quadri fin dagli anni Quaranta. Penso in particolare al ciclo Appassionata, l’inquietante teoria di donne dai corpi monchi e costrette ai lettini di contenzione o su sedie a rotelle. Da dove vengono queste figure fatte a pezzi?
CR: Le mutilazioni appaiono nelle mie opere negli anni tra il ‘45 e il ‘49. Ci fu un racconto che mi fece un amico, una storia che aveva già dei precedenti tristi. Una ragazza francese, parigina, molto bella, era nata con un volto bellissimo ma senza braccia e senza gambe. Questa ragazza viveva in una casa di piacere e doveva esserci qualcuno molto innamorato di lei. Un giorno la ragazza fu trovata cadavere, nella Senna.
MB: Una leggenda metropolitana?
CR: Quando me l’hanno riferita, ho pensato fosse una storia non proprio inventata, ma certo molto drammatizzata. Però, chi me l’ha raccontata mentre me la dice mi fa vedere un ritratto, del genere di quelli che quasi tutti i francesi tengono nelle loro case. Io vedo questo profilo, questo viso, e la storia mi colpisce molto perché avevo già fatto dei quadri con delle persone semimutilate, ma non così. Per un momento ho creduto che quest’immagine mi appartenesse. Certo, non è mia, perché è una cosa francese del primo Novecento, ma l’ho subito messa nei disegni, sulle tele e nelle incisioni. È una storia straordinaria, dove la tristezza, la malinconia, la mutilazione, la disperazione, la tragedia hanno un qualcosa di brillante e interessano qualcuno a un punto estremo. Mi sono sentita un po’ meno triste per le mie vicende personali e per me è stata una cosa meravigliosa.
MB: Gli anni Quaranta sono anche gli anni del tuo esordio pubblico. Non facile, se non sbaglio, dal momento che la tua primissima mostra nel 1945 a Torino venne immediatamente censurata.
CR: Sì, la prima mostra l’ho fatta alla Galleria Faber e la videro in pochi. La vide Casorati, che mi stimava molto e in seguito mi aiutò ad esporre alla Bussola e cominciare così a guadagnare i primi soldi – pochissimi, però importanti per me che non avevo nessuno. Alla Galleria Faber successe qualcosa che non vorrei dire… Certamente erano gli anni della guerra, c’erano i tedeschi. La mostra venne quasi subito chiusa e sparì. Non si sono mai più visti i quadri, tutti scomparsi. Dissero che li avevano portati alla polizia, mah…
MB: Successe perché i quadri in mostra vennero considerati osceni?
CR: Credo di sì. Faber per amicizia disse che avremmo poi fatto un’altra mostra… In realtà ne ho poi subito allestita un’altra, in una galleria vicino all’università. C’erano più o meno delle cose analoghe e non venne chiusa. Non lo so, io sono anche una persona che non piace. Prima di piacere a qualcuno passa tanto tempo, e questo succede anche al mio lavoro.
MB: Cos’avevi esposto alla Faber?
CR: Credo ci fossero le prime Dorine e poi i primi ritratti di mia madre.
MB: Tua madre ricoverata in una clinica psichiatrica?
CR: Sì. Quella fu una esperienza sconvolgente. Lì ho visto delle cose che hanno segnato il mio lavoro. Intendo dire i letti di angoscia, di detenzione e certe situazioni che ho sempre amato.
MB: Oltre a essere una persona difficile come tu dici, credi che il continuo rinnovamento, le numerose fasi stilistiche, del figurativo, dell’informale, del materico, che in momenti diversi hanno articolato la tua opera l’abbiano resa più difficile da comprendere? Si perdona chi cambia?
CR: Bisogna vedere come si vedono e si guardano le cose. Certo, quando qualcuno è bravo un po’di rabbia la fa.
MB: Finalmente negli anni Ottanta sono arrivati, quasi contemporaneamente, molti riconoscimenti. Antologiche, importanti mostre di gruppo e la presenza alla 46a Biennale di Venezia hanno permesso al grande pubblico di conoscerti.
CR: Certo, in quegli anni ho conosciuto persone che mi hanno capita. Spesso per me è difficile instaurare o mantenere certi rapporti. Impiego tempo a trovarmi in sintonia con qualcuno. Forse è che sono malmostosa. Sono rancorosa. Per non essere rancorosi bisogna essere belli, io non lo sono mai stata. Ero di una simpatia straordinaria, che però è un’altra cosa. Non è facile essere amati da me… Anche se ho avuto tanti amici…
MB: E adesso, ad ottant’anni compiuti, finalmente un’antologica che ripercorre il tuo lavoro dagli esordi ad oggi e che lo porta in un tour internazionale, dallo Stedelijk ad Amsterdam, all’Institute of Contemporary Art a Boston, per arrivare a Bologna, a Villa delle Rose. Che effetto ti ha fatto rivedere le tue opere?
CR: È stato molto impressionante. Ad Amsterdam, devo dire, era la prima volta che vedevo cento tra le mie opere, o quasi, insieme. Mi sono emozionata perché ho avuto l’impressione di non averle fatte io. Era troppo bello. Io che sono vecchia e piccola mi sono detta: “ho fatto tutto questo lavoro? E come mai ho fatto tanta fame e avuto debiti, che mi vergono?” Ho sentito una gioia, mi sono dovuta sedere.
MB: Una volta hai detto “dipingo per guarirmi”. Dipingi, credo, da più di sessant’anni. Sei guarita?
CR: No. Io sono un’apprensiva, una nevrotica. Penso sempre al mio lavoro, sono maniacale. Auguro però a molti di avere un qualcosa di straordinario, come per me è la pittura, che permetta di accettarsi. È anche un mezzo, credo, per essere diversi. E questa è una piccola ambizione che io ho sempre avuto.