Maria Rosa Sossai: Un aspetto molto interessante della tua ricerca riguarda l’eterogeneità dei media utilizzati, così come l’esplicito riferimento ad altri campi disciplinari che si ritrova nei titoli delle opere. Ma anche una processualità casuale e un’attenzione costante alla relazione con il pubblico.
Carsten Nicolai: L’aspetto che hai ricordato relativo al linguaggio dei titoli riflette uno degli elementi più importanti del mio lavoro. Cerco di non alludere mai all’arte in quanto tale ma di istituire delle relazioni con la matematica o la fisica. Il valore del processo creativo consiste nell’attivare un procedimento che inventa o scopre cose in generale connesse tra loro. I titoli esprimono questa mia propensione interdisciplinare, che può rendere a volte la sua comprensione un po’ ostica per gli storici dell’arte.
MRS: È invece proprio il rimando ad altri ambiti di ricerca e alla complessità della società contemporanea che la rende così attuale.
CN: In termini generali vedo l’arte come un modo complesso di pensare e di esprimersi, forse il modo più elaborato di manifestare la vita e non solo. La mia attività è simile a una rete di strutture dinamiche, che rispecchiano il modo in cui viviamo e pensiamo. Il processo creativo non è mai solo in una direzione, non è un’autostrada dove ci si limita a guidare. Mi piace mostrare la complessità del lavoro, anche se in realtà si basa su principi molto semplici, aperti alle aree filosofiche, scientifiche, storiche. La mia prima istanza quindi non è quella di comunicare, perché credo che l’opera debba avere una forza tale da catturare l’attenzione e sprigionare energia, e che debba possedere anche una certa profondità.
MRS: Il tuo approccio richiede una sorprendente quantità di informazioni nei campi più disparati.
CN: A dire il vero non ho una formazione scientifica, e forse mi limito solo a grattare la superficie, ad accostare alcuni ambiti specifici, a costruire per esempio diagonali tra due oggetti che nessuno ha mai messo in contatto prima. Lavoro in questo modo da anni, probabilmente sono in una posizione privilegiata che mi permette di sviluppare un linguaggio, produrre un corpus di lavori illimitato, racchiusi in categorie osservabili. E questo richiede tempo.
MRS: La tua intensa attività di performer sotto lo pseudonimo di Alva Noto ribadisce il ruolo cruciale del pubblico.
CN: Da due anni non cerco più il coinvolgimento dello spettatore e lavoro su un’idea classica di scultura piuttosto che seguire il principio dell’interazione. Forse perché in altre opere che ho realizzato l’aspetto interattivo ha creato diversi problemi al pubblico. I dubbi sull’interazione nascono dalla constatazione che siamo in una cultura del gioco, così come si è andata definendo all’interno dei nuovi media, di cui la PlayStation è solo una delle tante applicazioni.
MRS: Intendi i cambiamenti introdotti dall’interattività?
CN: Certo. La gente è ormai entrata in un meccanismo di azione-reazione, per cui diventa difficile presentare un lavoro interattivo senza che la gente non entri nell’idea di divertimento, e questo fraintendimento rappresenta un ostacolo. Mi sto spostando verso l’elaborazione di concetti filosofici “silenziosi” perché la cultura dell’intrattenimento è diventata così preponderante in tutti gli ambiti, dal computer sino ai piccoli dispositivi elettronici.
MRS: Un tuo recente lavoro, Aoyama Space no1. Un modello per una performance di luce e suono (2007), mi ha fatto pensare a James Turrell. Senti delle affinità con questo artista?
CN: La descrizione in effetti ricorda un po’ il lavoro di Turrell, il suo modo di usare la fonte luminosa. Ma quello che succede poi, che non è descrivibile e nemmeno registrabile, è una specie di strana immagine residua, una luce oscillante e una fonte sonora che produce un tipo di ombra nell’aria, qualcosa che non esiste nel lavoro di Turrell. Ho esposto quest’opera la prima volta nel mio studio e successivamente nella mia galleria di Zurigo (Haus Konstruktiv). In America sono rappresentato dalla stessa galleria di Turrell (PaceWildenstein) e quando ho descritto l’opera al gallerista mi ha detto la stessa cosa che mi stai dicendo tu, ma quando l’ha vista ha capito che era diversa. Ma certo, quando entri dentro si percepisce naturalmente l’influenza di Turrell.
MRS: Ma è prima di tutto una performance di luce e suono, che determina una diversa percezione dello spazio.
CN: Sì e no. Quello che mi interessa in egual misura è la fonte luminosa, anche se produco prima il suono che viene successivamente tradotto in intensità luminescente. Una connessione molto semplice in verità, per cui quando aumenta l’energia c’è più luce nello spazio. Non sono modulazioni di luce, produco un suono che fa sì che la luce accada. Ecco perché ho intitolato quest’opera un modello per una performance di luce e suono.
MRS: A cosa ti sei ispirato per il nome Aoyama?
CN: L’anno scorso ho realizzato una mostra in Giappone e non lontano dal museo c’era uno studio chiamato Aoyama, che tutti conoscono a Tokyo, utilizzato per lo sviluppo di fotografie, montaggio e registrazione video. Una delle qualità dello spazio è quella di essere un luogo non definibile, interamente bianco, con angoli arrotondati e un pavimento uguale al soffitto. Uno spazio radicale e flessibile, che ho potuto guardare solo da fuori. È il genere di spazio che mi interessa, dotato di tecnologie, con attrezzature tecniche tipiche di un white cube che permettono di produrre qualcosa di bianco, pulito, non definito, super funzionale, dove si possono installare oggetti, ma anche proiettare video.
MRS: Hai detto che la tua attenzione è primariamente concentrata sul suono. È per questo che hai creato uno pseudonimo performer?
CN: Tutta la musica che creo è sotto lo pseudonimo di Alva Noto, concepito come il titolo di un’opera. Ma non sono da solo ed è per questo che non uso il nome Carsten Nicolai.
MRS: Un processo che cambia ogni volta, a seconda dei diversi contesti.
CN: È in perenne mutazione perché è vivo, e include performance in cui è necessaria la presenza fisica e in cui prevale l’aspetto temporale.
MRS: Il tempo delle tue performance è già programmato o varia a seconda delle reazioni del pubblico?
CN: Naturalmente il pubblico è importante ma credo che tu intenda altro.
MRS: In effetti stavo pensando alle performance degli anni Settanta e volevo sapere se la processualità casuale è presente nel lavoro di Alva Noto.
CN: Sì, ma in modo diverso. Prima di tutto le mie performance non hanno un collegamento diretto con il contesto artistico, non ricordano le performance di Fluxus, ma la musica performativa. Si tratta essenzialmente di musica, o per meglio dire della musica di Alva Noto.
MRS: C’è una differenza per te tra musica e suono?
CN: Sì, anche nei nomi. Alva Noto riguarda la musica e Noto il suono.
MRS: Quindi la collaborazione con Sakamoto rientra nel campo musicale.
CN: Esatto. Noto è interessato alla fisica, agli aspetti sonori sperimentali che hanno un sentire più strutturale, e ai rumori, come le alte e basse frequenze. Alva Noto invece si occupa degli elementi musicali, come la melodia, e si spiega così la collaborazione con Sakamoto. La performance in sé è molto controllata, ha più a che fare con un’abilità manuale, in un ambiente sonoro programmato, con degli strumenti ogni volta nuovi. Questo è un punto cruciale, specialmente per quel che riguarda la musica elettronica, perché per usare il computer come uno strumento c’è bisogno di una stanza attrezzata con rivelatori di risonanza.
MRS: È in corso una tua mostra alla Fondazione Volume! di Roma…
CN: Sì, e sono rimasto piuttosto sorpreso quando ho visto il luogo, perché è esattamente l’opposto degli spazi puliti e minimali dove in genere lavoro. Ho costruito qualcosa di molto elementare, ho lavorato con il fuoco, che non avevo mai usato prima. Una fiamma viaggia all’interno di un tubo e il suo viaggio è percepibile, produce una luce e un elemento acustico che alla fine genera un tuono acustico.