Nel 1991 Pier Vittorio Tondelli componeva alcune pagine mirabili, dal valore di sintesi postuma, sul “rito del week-end”1. Quella del fine settimana costituiva per Tondelli un’esportazione anglosassone estesamente corteggiata, redigendo una cronistoria appassionata e non meno dolente di cosa erano stati gli anni Ottanta in Italia. Certo il postmoderno, ma anche la consapevolezza che, percorrendo in lungo e in largo la provincia nostrana, il leisure time divenisse ben altro. Addio agli ozia degli antichi e alle occupazioni minime dei giorni feriali: se si voleva reclamare il diritto di bighellonare che lo si facesse in maniera infernale, laterale, convulsa. Che lo si facesse accampando la facoltà di punzecchiare, in cerca di emozioni.
Cecilia De Nisco nasce a Parma nel 1997. La sua formazione intercetta alcuni degli scenari tratteggiati dal resoconto tondelliano: così Carpi (anzi, Karpi!), l’orizzonte irrorato della campagna parmense, ma pure Bologna, detta invece “la turrita”. A seguire – e la nostra storia prende avvio proprio da qui– l’universitaria Urbino e l’altresì accademica Vienna, crocevia di memorie asburgiche. Del fine settimana, la pratica pittorica di De Nisco, perché di pittura sostanzialmente si parla, riecheggia la composizione per frangenti di surrealtà, meglio se di ordinaria dirompenza. Una condizione di sospensione esito di una miscellanea ponderatissima di fattori la cui esplorazione invita a entrare, letteralmente, in questa pittura, muovendo da un caso studio.
Allora Basilea, Liste Art Fair, giugno 2023. Presso gli spazi di Burgweg al civico15, De Nisco realizza uno stand-ambientazione presentato dalla galleria VINVIN (Vienna / Napoli). Il display espositivo si rivela nevralgico per focalizzare alcuni degli elementi salienti della pratica di De Nisco: il modo più agile per concepirlo è forse quello di immaginare una sorta di grande diorama, o più correttamente un’ambientazione costruita in scala reale e senza soffitti. I tramezzi in cartongesso che ne definiscono l’esile struttura simulano un interno fatiscente e spettano all’artista polacca Paulina Semkowicz, che li ha dipinti a trompe-l’œil con mani sapienti in poche, pochissime ore. Su tutto cala un grigiume intriso di mille umori, rinvigorito da spruzzi e colature, parole graffiate, aloni depositati dai bacetti delle muffe. In questo set in bilico tra un complesso abbandonato e il sottopassaggio umidiccio di una qualche metropoli, figurano sei brani pittorici. Vengono esibiti in coppia, due per parete, differenti per formato e dimensioni.
Cosa raccontano o cosa vorrebbero raccontare le immagini di De Nisco? Abbozzando una primissima risposta che interpelli il livello iconografico, si potrebbe suggerire che esse registrino situazioni collaterali, sovente proibite, selezionate dall’artista proprio in quanto trascurabili, apparentemente anonime o importune. Entro la cornice del dipinto – che è confine planare nel senso più effettivo del termine, dal momento che De Nisco si mostra piuttosto restia a contaminare i bordi delle tele da lei stessa fabbricate – presenze elusive combinano cose. A voler essere schietti, ne succedono di ogni. Procedendo da sinistra in senso orario: una figura stramazza al cospetto di braccia che la assistono impotenti (Fallen for marguerite, 2023); un paio di stivaloni brillano screziati nel buio (This is not how you want me, 2023); un fascio di luce sorprende un profilo acefalo in procinto di orinare(Being in love, but merely for a night, 2023); un faccino arcigno boccheggia tra le frasche (Sneaky 1, 2023); mani luminescenti partecipano a un episodio non di caduta, bensì di abbattimento agonistico (Slipped: 3,2,1, smack, 2023); altre calzature ammiccano dalla vegetazione (Nobody knows, 2023).Si tratta di episodi che, oltre a condividere la parvenza di scatti rubati e bagordi, si consumano in un frangente temporale affine: quello del notturno e delle sue brusche interruzioni. Un notturno, quello di De Nisco, avulso da struggimenti preconfezionati e invece emissario del cosiddetto “buio pesto”, quello stato di oscurità coesa tipica dei luoghi lontani dai centri abitati: delle strade provinciali che si snodano senza fine, dei campi di granturco e delle boscaglie, degli spiazzi che circondano le infrastrutture. Anche la luce che invade le composizioni, talvolta zampillando a fiotti, talaltra spiovendo lieve come una rugiada di dubbia provenienza, non risulta propriamente naturale. Il chiaro di luna dei poeti si mescola al riverbero dei display, alle gittate dei fanali e degli abbaglianti, alle microscopiche aureole di spie rossastre, ai coni luminosi proiettati dalle torce. Dunque, il notturno come forma simbolica e la sua interruzione come ossessione di matrice anzitutto formale. Aspirazione di queste illuminazioni non vuole essere né la “pensata” eccezionale e men che meno il colpo di genio. Nessun illuminismo: solo il calibrare uno spazio pittorico complice di figure che anelano a portarci a braccetto nelle loro notti fatte di entusiasmi sinceri e piccole tristezze. In questo senso, il piacere procurato dall’inquadratura che mosaica situazioni e dal gioco di luci e ombre costituiscono dei caratteri sostanziali della pittura di De Nisco.
Lo testimonia il primissimo piano de L’insaziabile la notte (2021), piccolo dipinto esposto nella collettiva “Madrigale”2, effigiante lo sguardo alterato, tagliato e sfocato dell’artista, ma pure l’olio su tela Erano circa le quattro e c’aveva una gran fame Vol. II (2022), dove un candido torso imbrattato di ragù affiora da uno sfondo tenebroso. Persino un’opera prodromica quale Se segui la libellula cadi dentro al sonno (2022), presentata nella collettiva “Ogni goccia cade”3, sembra intessere i fili di un simile discorso, inseguendole gesta – autobiografiche? – di una presenza astrale colta a tallonare l’ammaliante creatura.
Nel documentare tali scorribande, De Nisco sperimenta una pittura sintetica che procede per velature umettate piuttosto che per contorni, disseminando qua e là pochi, accuratissimi dettagli. Potrebbe trattarsi di indizi (o meglio ancora, di ricordi) scampati a un qualche processo di fotosintesi. Sia sufficiente ricordare sin da ora che, sotto questa coltre a bassa risoluzione come i vapori che scivolano sulla Pianura Padana, la trama della tela affiora con una filettatura ruvida, distintamente percepibile in prossimità dei fondi e delle epidermidi. Per ogni nodo dell’ordito, un pixel e un capriccio: si ha così l’impressione di affacciarsi sul ciglio di una superficie soffusamente maculata, in cui i valori cromatici – perlopiù aciduli, fluorescenti e cangianti, ma anche rotondi e tenui all’occorrenza – rispondono a quella stessa imperante norma luministica.
Si potrebbe intendere la pittura di De Nisco come una pittura dagli occhi lunghi, anzi lunghissimi. Un linguaggio che camuffa contenuti irriverenti intrecciando una vocazione contestualmente documentaristica e voyeuristica. In questo senso, il “caro diario” dell’artista offre sì un’appendice autobiografica, ma risulta anche – e forse soprattutto – un campo esteso pronto ad accogliere storie di eterogenea natura e provenienza: memorie private di esperienze collettive che talvolta divertono, talaltra toccano, senza rinunciare all’onere di suscitare imbarazzi, dubbi e vergogne. Ça va sans dire che, insieme al costrutto di sguardo, potrebbero essere richiamati numerosi lemmi che hanno orientato le narrazioni novecentesche. Voyeurismo, scopofilia, figure dell’abietto e del perturbante, per cedere al gusto della carrellata. Senza contare, poi, come di orinatoi nominalistici, “cessi” dorati, sputi, urine, materiali scatologici vari ed eventuali, scarpette feticcio, ma pure sterpaglie e nidi d’amore, guardoni e guardati, pulluli il tessuto della storia dell’arte occidentale primo e secondo novecentesca. D’altro canto, porsi in ascolto della pittura di De Nisco in termini formali piuttosto che principalmente iconografici e iconologici – fermo restando che una simile ripartizione può avverarsi solo a livello speculativo, essendo l’opera d’arte un concentrato di elementi molto ben “shakerati” – offre la possibilità di dar voce al lavoro dell’artista intercettando tali fondamentali direttrici, pur non originando o non nominando in maniera pretestuosa le medesime.
La logica porterebbe a concepire il set alla stregua di un’ambientazione scaturita dai dipinti. Più precisamente, quale emanazione dell’atmosfera che su di essi aleggia, quasi che la pittura, espandendosi con ambizione discreta, avesse contagiato il proprio circondario. Il calligrafismo su cui l’intera operazione pare poggiare – una serie di eventi curiosi non può che verificarsi in un contesto altrettanto stimolante, quale che sia lo scenario di approdo –,più che mirare al compito della didascalia, sembra tradire una più decisiva dichiarazione di intenti. Cosa accadrebbe qualora si assegnasse a una simile ambientazione una funzione compiutamente inventiva? Ovvero, se si ravvisasse in tale attitudine pseudo-cinematografica e finanche performativa una chiave per avvicinare globalmente l’attuale modus operandi dell’artista?
Allora, quelle immagini ambivalenti e sospese diverrebbero fotogrammi, magari granchi o abbagli: come accade per i sogni e i ricordi, esse esistono nell’ordine dell’istante. Per suo, l’amalgama di cromie allucinate che contraddistingue la pratica di De Nisco rifletterebbe un’organizzazione ponderata di luci di servizio che rivelano le ombre che ottundono. Mentre l’esecuzione dei dipinti può impegnare l’artista anche per periodi relativamente brevi, la loro ideazione si caratterizza come lenta e meticolosa. È il formato, quel particolare formato, a stabilire il proprio contenuto: non esiste il fuoricampo in De Nisco, e perciò l’orlo dei supporti si esibisce pressoché intonso. Ecco un’ulteriore suggestione: spesso, le composizioni pianificate dall’artista risultano esito di reenactment concretamente sceneggiati. Immaginatevi De Nisco impostare l’autoscatto, poi balzare, stendersi al suolo, correre al treppiedi, accovacciarsi a gambe incrociate oppure rilassarsi supina sugli avambracci, e via di nuovo a caracollare verso l’apparecchio, ripetendo per ciascuna delle inquiline pittoriche una routine quantomeno movimentata. Deve avere preso forma applicando un simile protocollo il dipinto di grandi dimensioni No worries darling (2022), opera nevralgica nella produzione di De Nisco, in cui un terzetto di figure quasi gemelle gioca a carte ignorando l’incendio che imperversa, in lontananza. Chissà dove si formano le immagini di De Nisco: magari nella memoria dell’artista, in quella delle sue amiche e dei suoi amici, nel Cloud che unisce persone e dispositivi.
Storie tra l’appassionato e l’assurdo che potrebbero venire raccontate per ore, ma la cui memoria risulta dispersa. Spetta a chi osserva, suo malgrado guardone o innamorato, ricomporne l’antefatto attraverso i titoli, cruciali nel lavoro di De Nisco, che pur custodendo tutti gli indizi ne scompaginano la pittura volatile. Ed è ancora una volta un fattore formale ad acuire l’impressione di partecipare attivamente alla vita delle sue immagini. Come nel perimetro di uno schermo, nella pittura in soggettiva di De Nisco le cose paiono maggiormente schiacciate, vagamente deformate e pericolosamente prossime. Nel buio occhieggia una margherita effigia apetalo per petalo: questa pittura mi ama o non mi ama, lo potrò mai sapere? Oppure, un rivolo di saliva scintilla viscoso sull’erba: chi ha sputato sulla pittura si faccia avanti ora o taccia per sempre. Uno dei più recenti dipinti di De Nisco, Hens, laughing, carelessly (2023), documenta una conversazione briccona. Una figura ride coprendosi il volto con la mano: la pittura è una creatura dagli occhi lunghi, anzi lunghissimi, che sa riconoscere il proprio colpevole.