Adam Szymczyk: Caro Cezary, Flash Art mi ha chiesto di rivolgerti alcune domande con l’intenzione di pubblicare un’intervista. Che ne dici?
Cezary Bodzianowski: Spara.
AS: Cosa stai cercando sotto le scale? O se preferisci metterla in questi termini: spesso nei tuoi lavori ti nascondi, letteralmente. Cosa cerchi di nascondere?
CB: Ho visto una scala a chiocciola di legno che mi ha fatto pensare all’elica del mio DNA. Ho deciso di innalzarmi un po’. Non sento di dovermi nascondere dietro a questa o quella facciata. Tutto è illusione, puro miraggio.
AS: Si diceva che una volta non volessi rivelare il numero di fotografie e video che documentano le tue azioni. Le azioni sono per te più importanti della documentazione o sono due mondi differenti?
CB: Ieri si diceva che delle mie azioni non rimaneva nulla; oggi dei video e delle fotografie si dice: “C’è Cezary”; domani si dirà che i video e le fotografie è tutto quello che è rimasto di me.
AS: Quanto è importante per te la presenza del pubblico, i suoi commenti e le sue reazioni, la cosiddetta partecipazione del pubblico?
CB: Durante le mie azioni, le persone, gli edifici, gli alberi sono presenti come lo sono io. A volte io sparisco, il resto rimane.
AS: Facciamo un passo indietro. Che ricordi hai dell’Accademia di Varsavia?
CB: L’Accademia di Varsavia è stata unica! Come si dice, è dove tutto è iniziato: prima eravamo in tre, poi in quattro, poi di nuovo in tre, e alla fine in due. Agevolati al massimo nello studiare i segreti dell’arte. Fino alle quattro del pomeriggio, in studio a dipingere; dopo le quattro, lo Studio. Le discussioni con Marek Konieczny che andavano avanti per tutta la notte. Lavoro, lavoro, lavoro. Volevi vivere, volevi abbeverarti a questa fonte il più possible. Poi tutto finì. Il nostro professore fu espulso dall’Accademia con l’accusa di depravare gli studenti (proprio come Socrate). E noi? Ognuno seguì la propria strada. Quello che è rimasto è il sogno.
AS: Perché ti sei trasferito ad Anversa e che ricordi hai di quel periodo?
CB: Non volevo rimanere a Varsavia dopo quello che era successo. Temevo di essere costretto a rinnegare tutto ciò che avevo imparato. E Monika Chojnicka, mia moglie, viveva già ad Anversa. Monika è stata testimone di centinaia di eventi in diversi luoghi e di varie situazioni; è lei che documenta tutte le mie azioni. Poi ad Anversa c’erano René Magritte, Paul Delvaux, Marcel Broodthaers… È stato un bel cambiamento: dalla padella alla brace estatica. Il sistema era simile: fino alle quattro del pomeriggio si dipingeva, dopo le quattro si andava avanti a lavorare nel nostro mini-studio di un mini-appartamento in un loft di una casa a Winkelstraat. Ho prodotto un gran numero di lavori — oggetti, performance, video, fotografie — per quattro anni, senza sosta. Durissimo, ma fantastico.
AS: Cosa ne è stato di quei lavori?
CB: Dal momento che mi era impossibile portarli tutti con me li lasciai, per la maggior parte, al proprietario della casa, con la promessa di tornare a riprenderli l’anno successivo. Ma l’anno successivo non c’era più nulla da riprendere. Ad Anversa ci fu un’alluvione e il seminterrato della casa si allagò completamente. Suppongo che tutti i miei lavori se ne siano andati con la piena! La mia unica consolazione è che ero riuscito a fotografarli, quindi molta della loro documentazione è sopravvissuta.
AS: Sono seduto qui con Elena Filipovic che mi suggeriva di farti una domanda sul tempo. Il tempo infatti sembra essere un aspetto importante del tuo lavoro. Chiudi a chiave le persone in un ufficio e poi scappi via, o leggi loro Il Castello di Kafka interrompendo la loro routine giornaliera. Il tempo preferisci donarlo o sottrarlo?
CB: Anche se dovessi sottrarre del tempo a qualcuno penso che glielo restituirei raddoppiato. Nel condividere questo tempo lo trasformo in qualcos’altro, proprio come il movimento produce calore. Il tempo è una componente importante, anzi indispensabile, del vivere e del morire; eppure spesso lavoro al di fuori del tempo, e trovo questo spazio molto interessante.
AS: Una domanda sullo spazio. La prospettiva di un appartamento, una città. Come ti trovi negli spazi aperti? Sei un artista urbano?
CB: Il discorso è simile. Così come lo spazio indica precisamente ogni dettaglio e movimento che è numerabile e finito, così puoi trovare un negativo di spazio, un’area che continua a espandersi, come l’universo. È quest’area, difficile da trovare, che mi affascina.
AS: Vorrei ritornare sulla questione delle fotografie. La fotografia ti toglie il pane quotidiano? Quello che voglio dire è che la fotografia è un oggetto e attira l’attenzione, il che significa che forse meno attenzione si concentra su di te…
CB: Non credo che la fotografia mi toglierà il pane quotidiano, proprio come non lo hanno fatto gli oggetti e i video. La differenza è che non ho mai mostrato fotografie prima. No, la fotografia non mi priverà del pane quotidiano, al contrario, come i video e gli oggetti, può solo darmene.
AS: Cosa stavi facendo quando, recentemente, durante una fiera, ti sei piazzato in un hotel vicino a un lago mentre la tua galleria era in fiera aspettando di ricevere da te una consegna giornaliera di Polaroid?
CB: Montreaux era un posto carino, come mostrano le fotografie. Cosa stavo facendo? Noia, vuoto. Nulla, quasi nulla, noia, vuoto e un insipido e insonnolito panorama visto dalla finestra.
AS: Quali sono in arte le strategie che ammiri (una domanda sui tuoi maestri)?
CB: Un’artista di cui ho sicuramente grandissima stima è la pittrice del XVI secolo Sofonisba Anguissola. La sua determinazione e il suo coraggio sono una forza potente che fa da guida nel mio lavoro.
AS: Elena si domandava quando per te una performance inizia e quando finisce, e se è necessario che altri vi assistano per poter essere considerata una “performance” (se un albero cade nella foresta e nessuno lo vede, è realmente caduto?).
CB: Non sono sicuro. La performance è probabilmente una sequenza di eventi che implica la mia partecipazione fisica o mentale. Questi eventi ne innescano degli altri, come un effetto domino, e io sono un passaggio, oppure faccio la prima mossa e il resto sopraggiunge di conseguenza, come i pali in Zorba il Greco. I pali sono caduti, tutti li hanno visti cadere, ma ancora nessuno crede che sia successo per davvero perché è un film, è una finzione.
AS: Come ti immagini Berlino?
CB: Non devo immaginarla perché ci sono stato, l’ho vista, e un giorno sicuramente farò qualcosa… Ma cosa? Lasciamo che rimanga un segreto per ora.
AS: Hai mai visitato l’ex Germania dell’Est?
CB: Mai, ma so da Monika che scarpe in pelle e jelly bears erano un lusso.
AS: E la Germania dell’Ovest?
CB: Ci sono stato una volta. Non ho passato molto tempo a Berlino, ma se ti riferisci ai cosiddetti ricordi ispiratori mi viene in mente quando Monika mi raccontò di una festa di Capodanno appena dopo la caduta del Muro e di come la mattina successiva, assieme alla sua amica più cara, trovò un albero di Natale sulla strada. E mia moglie, che si intenerisce sempre davanti alle cose tristi, abbandonate e sradicate, decise di prenderlo con sé, e di gettare poi questo albero alto oltre due metri e ancora verde nello Spree, così che potesse “salpare libero e andare dove le onde lo avrebbero portato”.
AS: Sono ancora qui con Elena a parlare di te e ci stavamo domandando in che modo, in genere, inizi i tuoi progetti, e anche cosa hai in mente pensando alla tua partecipazione a questa Biennale di Berlino…
CB: Berlino è una città che sta cambiando, ogni volta è diversa, nuovi edifici, nuove cose da vedere; io la percorro a piedi, cercando l’ispirazione. La mia strategia, poi, è molto simile a quella della città stessa. La documentazione delle azioni pensate per la città e per il giardino della Kunst-Werke potrebbe essere in mostra come parte della 5th Berlin Biennial. Ma sto anche pensando a una scultura per la sede esterna della Biennale che assimili alcuni oggetti che ho portato dalla Polonia.