Ci sono state sferzanti ironie a Venezia sul fatto che in un evento sponsorizzato dalla Swatch, il Leone d’Oro fosse assegnato proprio a un lavoro intitolato The Clock. Pur non tenendo conto di questa e di altre critiche fortunatamente più serie a proposito di una mostra che, per quanto equilibrata, presenta innegabilmente marcate tendenze elvetico-centriche, pubblico e critica sono tuttavia sembrati unanimi nel dire che quella di Christian Marclay alla fine è stata una vittoria meritata. Anche se il talento di Marclay è indiscutibile, si tratta effettivamente di un risultato straordinario, e non solo perché ha visto premiata un’opera di video arte, pratica solitamente ignorata in questo tipo di eventi. The Clock non è infatti nemmeno uno dei progetti realizzati appositamente per la Biennale (è stato presentato in anteprima a Londra da White Cube a ottobre dell’anno scorso), e la sua durata, che ha costretto la galleria a restare aperta anche di notte, ha impedito anche agli spettatori più determinati la possibilità di seguirlo nella sua completezza. Eppure è proprio questa sua monumentalità, abbinata a un concetto sfuggente e sempre attuale come lo scorrere del tempo, a farne un capolavoro.Le origini di The Clock vanno ricercate intorno al 2007, al termine di un periodo in cui Marclay usciva trionfante da una retrospettiva transcontinentale che per la prima volta aveva organizzato in maniera esauriente tutte le diverse sfaccettature del lavoro di un artista che negli anni è stato considerato un po’ come un outsider, da sempre dedito all’utilizzo di un vocabolario visivo strettamente imparentato con la musica e il cinema, e dove materiali di facile accessibilità sono sottoposti a una logica di riposizionamento e montaggio che ne rinforza il legame con il punto di partenza pur stravolgendone il significato originale. Ma se in mezzo a tanta versatilità formale diventava quasi impellente la necessità di trovare un massimo comun denominatore, questo emergeva lentamente ma inesorabilmente sotto forma di passione per la ricerca, una condizione che ha spesso trasformato le sculture e i video di Marclay in veri e propri esercizi di archivistica, e dove l’individuazione dei singoli tasselli svolge un ruolo egualmente importante a quello della loro composizione. Le fondamenta di questo modo di operare sono probabilmente riconducibili in Pictures at an Exhibition (1997), un’installazione che Marclay presentò originariamente al Musèe d’Art et d’Histoire di Ginevra, dove una serie di sedie era disposta di fronte a una parete di quadri di diverse epoche raffiguranti musicisti. Il riferimento alla suite scritta da Modest Mussorgsky, forse il più importante tentativo mai fatto di abbinare musica e pittura, trova un contrappunto nell’orchestra frammentata e silenziosa al centro dell’auditorium. Non è solo il potere evocativo della musica, che qui spinge lo spettatore a intraprendere la strada opposta avviando di fatto un lavoro di immaginazione sonora davanti a dei quadri figurativi, a essere messo in gioco. È principalmente la sua rappresentazione iconografica, e le variazioni o ripetizioni a cui è soggetta attraverso i secoli, a essere protagonista, costruendo un’antologia dell’interpretazione che pur nella sua parzialità contribuisce in modo cruciale a determinarne la storiografia, toccando al tempo stesso un tema delicato come quello della museificazione e dei vincoli a cui è sottoposta la percezione dell’arte. Traghettando il discorso verso la videografia di Marclay, la tentazione iniziale è quella di accostare Pictures of an Exhibition ai momenti in cui il suono agisce come metafora di un episodio, come per esempio il drammatico Guitar Drag (2000), dedicato al brutale omicidio di James Byrd Jr., avvenuto in Texas nel 1998, o l’esplicito ma sorprendentemente sottile Solo (2008), dove una ragazza tradisce strumento e strumentista per cinque minuti di passione con una chitarra amplificata. In realtà l’impianto teorico che regge Pictures of an Exhibition è assimilabile a situazioni più corali, come per esempio Telephones (1995), una raccolta di telefonate hollywoodiane che in questo contesto diventa una sequenza di saluti senza risposta e di messaggi mai giunti a destinazione, e soprattutto Video Quartet (2002), una proiezione su quattro schermi in cui diversi clip cinematografici di performance musicali sono assemblati fino a creare una sinfonia volutamente e inevitabilmente atonale, e che vede Marclay estendere la vena compositiva che ha caratterizzato le sue performance della fine anni Ottanta sia al suono che all’immagine. Sia Telephones che Video Quartet introducono elementi visibili in The Clock, ma le proporzioni e la tematica di quest’ultimo ne fanno un caso a parte, rendendolo indubbiamente uno dei progetti più ambiziosi mai intrapresi dall’artista. Marclay, affiancato da un team di ricercatori, ha impiegato più di due anni ad accorpare frammenti di film in cui compaiono pendoli, orologi a muro o da polso e sveglie. L’esito finale è un lungometraggio della durata di ventiquattro ore, in cui quasi ogni minuto è scandito dall’apparizione di un orologio che ricorda che ora è in quel preciso istante. La prima sensazione che si registra guardando The Clock è la violazione diretta di uno dei principi cardine su cui si fonda il cinema. Il cinema infatti è un invito ad aderire a una dimensione temporale alternativa, un’ingiunzione a dimenticare la realtà per raggiungere uno stato di sospensione il cui ritmo è dettato da quello che avviene sullo schermo. The Clock invece è un promemoria costante del tempo reale in cui si vive, ed è una situazione che anche gli spettatori, inclini a non verificare l’attendibilità dell’operato di Marclay per concentrarsi sulla narrazione che ne deriva, non riescono a ignorare mai del tutto. A seconda dello stato d’animo e degli impegni della giornata di chi guarda, The Clock agisce come un diario, se non addirittura una voce della coscienza. Raramente si è visto un numero così consistente di persone uscire da una video proiezione perfettamente in grado di quantificare il tempo che ci hanno passato davanti. Un secondo aspetto da valutare, e che si ricollega direttamente alla filosofia di Pictures of an Exhibition, Telephones e Video Quartet, è la trasversalità temporale delle immagini che scorrono. Attingendo a piene mani da quasi un secolo di opere su celluloide, Marclay ha fatto di The Clock un documentario sul cinema e sul costume, illustrando come il tempo fosse comunicato e concepito in diversi periodi storici. La scelta e l’arrangiamento degli estratti, indipendentemente dal fatto che siano il frutto del caso o di una meticolosa indagine, sono perfetti e inseriscono anche una nota di discreto virtuosismo non dissimile da quella che si prova nei confronti della pittura iperrealista nei suoi momenti migliori. Ma il vero punto centrale di The Clock è come nelle mani di Marclay lo scorrere del tempo diventi una questione ordinaria e ineluttabile. Molti artisti, da Alighiero Boetti a On Kawara fino a Roman Opalka, solo per citarne alcuni, si sono dedicati all’esplorazione del fenomeno temporale e a come questo condizioni il nostro essere, ma mentre in quei casi si trattava prevalentemente di considerazioni sull’unicità di un momento e della sua irripetibilità, Marclay parte da una posizione opposta. The Clock è un’opera sincronizzabile e riproducibile in qualsiasi momento, ma è proprio il contrasto tra il suo percorso circolare e il campionario di personaggi ed epoche diverse che lo animano a renderlo speciale. La considerazione amara che erode quello che è altrimenti un grande intrattenimento è che il battito delle lancette è un’invenzione umana dettata dalla necessità di dividere e determinare qualcosa di inafferrabile, un ipotetico tentativo di evasione da una prigione da cui non si può scappare.