Per un inaspettato quanto scontato senso di estraneità, recentemente, ho guardato per la prima volta Per un pugno di dollari, forse spinta dall’imbarazzo di sentire più familiare l’assonante Per un pugno di libri, il programma che andava in onda la domenica pomeriggio su Rai Tre e che accomunavo all’angoscioso ritorno a scuola del lunedì mattina. Era condotto dal severo Piero Dorfles, che nella mia memoria ha gli stessi lineamenti del pediatra da cui mi portavano da bambina, altrettanto temuto e sempre accompagnato dalla moglie che, emergendo dalla perenne penombra dello studio, estraeva da un coniglio in ceramica caramelle ruvide, poco dolci.
Rimango ferma, preferisco il carrello pieno di libri vinto dalla classe quinta A e le mie associazioni zuccherose, al trionfo di Joe – Clint Eastwood sulla famiglia Rojo.
Ma “triste a dirsi, i nostri racconti non interessano di per sé, il prossimo. […] Quindi, anche se a me farebbe piacere riandare al mio passato, ci rinuncio, in favore di un presente altrui.”1 Ha ragione Irene Brin che, con il suo tono timido e ironico, mi esorta a non divagare, a non abbandonare il mio immaginario e i miei riferimenti, piuttosto a utilizzarli per riconsiderare il comune senso delle cose fuori da uno schema preimpostato.
Mi sento così invitata dalle opere di Giorgia Garzilli e Francesco João ad avviare un’investigazione che trasformi e ricerchi prove e improvvisazioni di una risposta non univoca, che non tenti di ricondurre il significato di un’immagine alla sola intenzione autoriale o la costringa nell’interpretazione delle condizioni storiche, sociali e politiche coeve.
Garzilli attinge a tempi, storie e fenomeni espressivi eterogenei, alternando e stratificando momenti fra loro inaspettati, in un immaginifico prisma interpretativo. Da una vasta cultura cinematografica, desume quelle immagini che hanno maggiormente abitato il nostro archivio figurato e hanno così suggestionato la memoria collettiva. Nel dipinto Was it a car or a cat I saw? (2023), per esempio, riconosciamo le gambe di Mario Monicelli e Nanni Moretti nel celebre dibattitto del 1977 sulla situazione del cinema italiano, coordinato da Alberto Arbasino, seduto al centro della scena. Tra i protagonisti, Nanni Moretti tiene al guinzaglio un coccodrillo. Cosa vuole comunicarci Garzilli inserendo nella scena tale presenza inaspettata? Forse si tratta del coccodrillo che nel giornalismo commemora la morte di un personaggio famoso? Potrebbe essere in questo caso la fine della commedia all’italiana così come rappresentata fino a quel momento?
Nell’opera 4 dicembre (2024), si vedono molto da vicino le dita di un musicista sui tasti di un corno. L’estratto di un testo di Arbasino – nel quale recensisce, sulle pagine di “Settimo Giorno” dell’agosto 1960, la Norma in Argolide presentata al teatro di Epidauro – accompagna l’opera e l’intera serie di dipinti esposti in occasione della mostra In Pieno Giorno presso la Galleria zaza’ a Milano, tutti raffiguranti musicisti e strumenti musicali.
L’artista non rappresenta scene nella loro interezza, ma dettagli ripresi da angolazioni insolite e osservati quasi analiticamente, una costruzione simbolica nella quale Garzilli sembrerebbe influenzata dal desiderio espresso da Arbasino di enfatizzare la presenza in scena degli strumenti musicali, evitando la distrazione di una “baracconata” caotica. Gli strumenti, ripresi individualmente, protagonisti centrali della serie di opere, potrebbero riecheggiare il dialogo fra Amelia e suo padre nella novella Historie du petit Francis, scritta tra il 1937 e 1938 da Leonora Carrington: «Gli strumenti musicali sono corpi estranei allo spazio. […] Sono come le stelle e i pianeti.» Come nel testo della surrealista Carrington, gli strumenti di Garzilli sono decontestualizzati, estranei allo spazio, con un potenziale narrativo il cui disvelamento è lasciato aperto.
Anche le opere realizzate in precedenza, come P.S. del 2023 o Ring del 2020 – torna qui il richiamo cinematografico a La morte ti fa bella del 1992 di Robert Zemeckis – sono animate da numerosi accostamenti che seppur incongrui e contraddittori, sono utili tuttavia a ben rappresentare il sovrapporsi dei diversi piani espressivi della pittura di Garzilli.
Questa realtà poderosa e fluida, dalle molteplici letture, ricorda l’influenza della pittura metafisica, del Realismo Magico e del Surrealismo, l’atmosfera delle opere dell’artista inglese Winifred Knights (Il Diluvio del 1920 alla Tate di Londra; Le nozze di Cana del 1923 al Museo Te Papa Tongarewa in Nuova Zelanda) nell’utilizzo del colore tenue e uniforme, che definisce gli spazi in campiture omogenee e le figure in pose realisticamente immobili e silenziose.
Fin dall’inizio, in questo testo, ho tentato di celebrare l’autonomia sperimentale di ciascuno, e se è vero, come si usa premettere in molti film, che qualsiasi riferimento che possa sembrare legato alla realtà non è che un’invenzione, cosa e come guardiamo quando guardiamo attraverso l’arte? Quali sono i mezzi e i linguaggi distintivi di ciascun artista?
Francesco João, ad esempio, attraverso la pittura esplora le possibilità formali e concettuali del medium stesso, travalicandone la pratica. Concentrandosi, infatti, sulla pittura come processo di stratificazione e sottrazione, la sua ricerca si muove senza obblighi figurativi, con una volontà antiautoriale paziente e meticolosa.
Nella ricca serie di opere Senza Titolo che João realizza dal 2016 è rappresentato il linguaggio numerico dei display a sette segmenti. Con le parole dell’artista2: “Quando ero bambino, guardando un display a sette segmenti, pensavo al futuro. Ora il futuro è arrivato e l’SSD è una tecnologia obsoleta, ma evoca ancora un’idea di futuro, questa volta vista dal passato. Proprio come quando si guardava Johnny Mnemonic, film cyberpunk del 1995 di Robert Longo, che prefigurava temi attualissimi come l’etica digitale, la filosofia dell’informazione e l’IA”.
La fitta tessitura superficiale e le infinite sfumature della sostanza pittorica in cui João sembra celare le sue abilità, suscitano domande su come elaborare la conoscenza del passato e la percezione del futuro, mentre al contempo prendiamo atto dell’indeterminatezza del presente, privo com’è delle certezze proprie del passato e delle promesse che il futuro lascia intravedere.
Tale indeterminatezza è la complessità di fronte alla quale ci pongono le opere di João, che richiedono di introiettare capacità critiche e di analisi del cambiamento, con le quali provare a sintetizzare la molteplicità di dati di fronte alla quale ci pone il presente, con le sue evidenti contraddizioni.
Sembrerebbero quindi le traiettorie fra il pensiero e lo spazio reale a definire il binomio sperimentazione – espressione, che “trasgredendo le regole di utilizzazione […] inaugurano piste inedite di significazione”3.
João definisce sé stesso un “artista espanso”, la cui pratica non si rivolge esclusivamente alla pittura ma anche alla scrittura, alla musica, agli oggetti. Emblematica a questo proposito la serie di cucine (2024), opere senza titolo, perfettamente funzionanti sebbene pensate come una scultura. João si interroga sulle molteplici possibilità di senso di un oggetto, al di là della sola sfera estetica e funzionale. Guardando alle pratiche di Donald Judd, Olivier Mosset e Dan Graham, riesce – come dichiarato dall’artista in più occasioni, non da ultimo in una nostra conversazione – a speculare sui massimi sistemi per ore, oppure semplicemente a guardare e dire: “ah starebbe bene con il divano di casa mia”, con ciò stesso alludendo sia al valore figurativo che al valore economico di quanto realizzato.
In conclusione,
considerando che il linguaggio musicale fa parte del suo corredo di artista, ho chiesto a Francesco João di suggerirci alcuni brani con i quali accompagnare la lettura di questo mio vaniloquio su carta.
Queste le sue indicazioni:
Plantains di Aquiles Navarro
Kraft Und Licht di Len Faki
Twist di Korn





