Rita Selvaggio: In tutto il tuo lavoro c’è una relazione molto stretta tra mondo fisico e mondi verbali. Tra realtà e immaginazione, viene delineato quello che tu stessa definisci un “piano astrale” quale luogo in cui l’iniziato è in grado di proiettare una sorta di metafisica operativa. Possiamo incominciare da questi presupposti?
Chiara Fumai: Mi interessano le relazioni tra piani visibili e piani invisibili, perché l’opera esiste nei loro punti d’intersezione e quindi non può fare a meno di porsi certe domande. Il termine astrale deriva dalla cultura teosofico-misterica e con esso si intende tradizionalmente uno di questi piani invisibili, il più prossimo alla sfera fisica, contenente anche lo spazio dell’immaginazione. Per questo motivo l’astrale è strettamente connesso alla sostanza di cui è fatta un’opera, ma è anche uno spazio unidimensionale obbediente a leggi diverse da quelle fisiche, e quindi difficilmente comprensibile attraverso le nostre comuni categorie. Un artista che è riuscito nell’impresa di rappresentarlo in modo quasi dettagliato sul piano fisico è Mondrian, di conseguenza possiamo immaginare l’astrale come un mare anti-gravitazionale, posizionato sopra le nostre teste, che assomiglia vagamente a una grande tela di Mondrian. L’azione performativa che raccoglie i postumi di questa interpretazione interviene in maniera dinamica sulla relazione tra le due sfere (fisica e astrale), esplorandone lo spazio attraverso la ricerca di linguaggi che non siano quelli tautologici, fisici o dialettici cui siamo stati recentemente abituati. Nello specifico, l’azione performativa orale permette anche di lavorare “dal vivo” sulla dimensione temporale, capovolgendola, astraendola e svincolando l’opera da tutte quelle fastidiose questioni sull’evento unico, prezioso e irripetibile, che con l’avvento dell’Era dell’Acquario verranno finalmente abbattute.
RS: In più di un’occasione hai dichiarato che ti interessano molto alcune figure che hanno vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, le loro utopie ancora intatte e i loro metodi di relazionarsi a un’audience. Ce ne spieghi la ragione?
CF: La maggior parte dei miei artisti, ma non tutti, sono vissuti proprio in quegli anni. Questa preferenza è dettata da un grande interesse verso i metodi performativi in voga in quei tempi (freak show, cabinet medianici, fantasmagorie, numeri di illusionismo), ma anche dai contesti culturali, sociali e politici che li hanno generati.
RS: I tuoi sono spesso personaggi che reagiscono alla tradizione di una cultura materialista: Annie Jones, la mitica donna barbuta, Harry Houdini e più recentemente Eusapia Palladino che, nata a Minervino Murge, con i suoi poteri medianici riuscì a intrigare persino i coniugi Pierre e Marie Curie. Come ti relazioni a loro?
CF: I miei personaggi sono accomunati dal fatto che in vita hanno svolto delle attività performative altamente stimabili sia per i contenuti, sia per le strategie relazionali utilizzate. Le nostre collaborazioni sono le stesse che si instaurano tra un curatore e i suoi artisti, con l’unica differenza che i miei sono dei fantasmi. Più precisamente, sono delle “forme-pensiero” elementali: ossia non sono epifanie di spiriti trapassati, ma idee che l’autorità autoriale (me medesima) si è fatta di loro, in base alle associazioni prodotte dalla propria immaginazione. Nella pratica, io incarno questi individui traendo spunto da frammenti del loro lavoro che riedito o remixo, valorizzandone o esasperandone alcuni aspetti. Hai ragione nel riconoscere un’impronta anti-materialista di gruppo. Questi personaggi nascono per costituire un braccio armato al servizio della Rivoluzione Surrealista.
RS: E Helena Petrovna von Hahn, meglio conosciuta come Madame Blavatsky?
CF: Quanto a lei, il nostro è un legame molto profondo che non necessita ulteriori incarnazioni sotto forma di personaggio. È già presente in tutto quello che ti sto dicendo.
RS: Free like the speech of a Socialist: un numero di illusionismo condotto dallo stesso Houdini, ancora una nuova ma visionaria utopia. Sovrapposizioni vocali e immagini video, opacità che diventa trasparente: come hai trasportato tutto questo sul registro tecnico del linguaggio?
CF: L’opera in collaborazione con Harry Houdini è sia un disco, sia un numero dal vivo di presentazione dello stesso. Nel disco io imito la voce di Houdini utilizzando parti di circa dieci sue performance, costruendo un numero immaginario “composito” in cui una donna viene legata a una sedia, ammanettata e poi smaterializzata. Quando la donna sparisce, Houdini pronuncia una frase proveniente da un numero del 1914: “The chair is free like the speech of a Socialist”. Ho immaginato che quella donna fosse Rosa Luxemburg, così ho sovrapposto alla voce di Houdini una lettura urlata della sua lettera a Sophie Liebknecht del 1917. In questa lettera la rivoluzionaria dichiara il suo amore nei confronti degli animali, aprendoci gli occhi su una prospettiva, quella antispecista, che una buona parte del materialismo storico ha stupidamente sottovalutato. Qualcuno potrebbe interpretare il cinismo nascosto dietro questo accostamento come una dichiarazione di resa ma, in verità, la regola principale dell’illusionismo è: “Ogni cosa o persona che sparisce dalla scena deve necessariamente ritornarci”. Di conseguenza, se guardiamo questo numero da una prospettiva surrealista, ci accorgeremo che nel momento in cui l’utopia antispecista diventa attrice nello spazio performativo, essa non solo è già tornata, ma è anche molto più forte di prima.
RS: In sintesi il numero è immaginario ed esiste solo su disco?
CF: In pratica sì. La versione dal vivo è invece un racconto del sogno che l’ha generato ed è basato su ulteriori testi e azioni di Houdini opportunamente remixati per la circostanza.
RS: Dopo aver trascorso nell’agosto del 2008 ben trentuno giorni nel locale penitenziario, gli abitanti di Hoorn ti ricorderanno sempre come The girl with the blanket. Ci racconti di quella fuga?
CF: Si tratta di un’opera realizzata all’interno di un carcere olandese, che consiste nella fuga dallo stesso attraverso delle videocamere di sorveglianza di matrice keatoniana e con l’ausilio di una corda di dodici metri, ottenuta intrecciando i miei vestiti. Il titolo trae spunto dal fatto che per realizzare quella corda ero rimasta vestita con una coperta, che mi era stata oltretutto prestata. L’informazione è la materia principale di quest’opera, come in Chiara Fumai presenta Nico Fumai, una serie di lectures performative attraverso le quali racconto la genealogia del genere musicale Italo disco, usando gli stessi meccanismi mediatici delle prime tv commerciali italiane, ovvero inventando una leggenda intorno a qualcuno, nello specifico mio padre, che alcuni non hanno ancora capito. L’immaterialismo radicale ha il dovere di distruggere tutti i recinti spazio-temporali che provano a circoscriverlo, inclusa l’ignominiosa definizione di vuoto. Esso, così come l’assenza, non è altro che una categoria inventata dai paladini della dialettica per farci credere che la realtà sia molto più noiosa di quello che è. Invece noi abbiamo la fortuna di vivere ogni giorno con una grande tela di Mondrian appoggiata sulla testa.