È una sera di maggio appena tiepida a Los Angeles, il tramonto drammatico come al solito. Una piccola folla inizia a raccogliersi quasi per caso, alla spicciolata e in silenzio nella grande sala del Resnick Pavillion del LACMA, Los Angeles County Museum. Le facce sono scure e attonite. Il centro della sala è interamente occupato da un arnese di grandi dimensioni, di colore lattiginoso a forma di sigaro al momento ancorato a una struttura di ferro. Alcuni operatori iniziano ad affaccendarsi intorno all’oggetto misterioso, nella sala c’è silenzio e aria di grande attesa; si sente rumore di ferraglie, ed ecco pian piano il dirigibile si solleva dalla sua base e inizia a muoversi in maniera circolare nell’atmosfera densa di commozione e stupore, il suo passaggio genera gentili folate di aria fresca; all’inizio il volo ha un’andatura pencolante e incerta, poi continuerà più regolare, a muoversi in grandi circoli intorno alla sala, per circa dieci minuti, con una lentezza tragicomica. Chissà perché mi viene in mente una poesia di Giovanni Pascoli, L’aquilone: “…Pencola, urta, sbalza risale, prende vento…” Invincibile potere del patetico. Un applauso, lungo ma sommesso saluta il volo di Ode a Santos Dumont. A due settimane dalla sua morte, l’ultimo lavoro di Chris Burden, viene presentato al pubblico per la prima volta. Burden aveva fatto in tempo a vederlo volare nel mese di gennaio, per la prova generale effettuatasi in un grande Hangar alla periferia d Los Angeles. Santos Dumont era l’aviatore brasiliano che nel 1901 aveva pilotato un dirigibile intorno alla torre Eiffel, accendendo l’immaginazione di molti e attirando l’attenzione del mondo intero. Chris Burden, che da sempre coltivava una grande passione per il volo e l’aeronautica, aveva iniziato a parlare di questo progetto circa dieci anni fa. Da alcuni anni uno dei suoi passatempi preferiti era acquistare piccoli arei in disuso su ebay, si stupiva e si eccitava come un ragazzino quando riusciva ad aggiudicarseli a prezzi particolarmente vantaggiosi. Una delle sue prime performance del 1973 si chiamava Icarus. Il mito di Icaro, che ignorò gli avvertimenti del padre e volò troppo vicino al sole bruciandosi le ali, è sempre stato caro agli artisti. Chris Burden ha forzato i limiti della resistenza fisica del corpo umano, ha esplorato le possibilità del movimento e i confini dello spazio, alternando un rigore da uomo di scienza, forse ereditato dal padre ingegnere, con la fantasia di un poeta. È stato l’artista contemporaneo che più si è avvicinato a Leonardo da Vinci. Possiamo persino leggere la sua performance più famosa e iconica Trans-fixed (1973), in cui si fece crocifiggere sul retro di un maggiolino Volkswagen, come una cupa riedizione dell’uomo Vitruviano di Leonardo. Le proporzioni del corpo umano in relazione alla macchina: nell’era del tardo capitalismo il mito della centralità dell’essere umano degenera in schiavitù al mezzo meccanico. Il suo primo lavoro, realizzato come tesi di laurea nel 1971 chiariva fin dall’inizio i termini della sua poetica. In Five Day Locker, per cinque giorni consecutivi, Burden si chiuse in uno degli armadietti della scuola, il numero cinque per l’esattezza: nell’armadietto superiore c’era una tanica d’acqua da cui poteva bere con un tubo, in quello inferiore un altro contenitore vuoto per i bisogni fisiologici. Già da questo primissimo lavoro è evidente che Burden sia stato un pioniere del discorso sull’institutional critique che diventerà predominante nei primi anni Novanta. Nel 1986 Burden inizia a scavare: scava il pavimento del MOCA, esponendo le fondamenta del museo quasi a voler rivelare i limiti fisici dell’istituzione. Dagli anni Ottanta in poi Burden si concentra maggiormente sulla creazione di sculture tridimensionali di larga scala. In questo sicuramente influenzato da Nancy Rubins, la moglie scultrice che gli sopravvive, nota per i suoi assemblaggi di resti della civiltà post industriale, con un’attenzione particolare verso i mezzi di trasporto. Nancy ha inspirato lo scrittore Don De Lillo per il personaggio dell’artista nel romanzo Underworld.
Nel 2004 la posizione di Chris Burden sulla performance si evidenzia ancora una volta come chiara e fondante nel rifiuto di concedere a Marina Abramovic il diritto di ricreare Trans-fixed al Guggenheim. Indimenticabile nei miei ricordi personali la serata passata a discutere di questo, che si concluse con l’idea maliziosa da parte Mike Kelley di controproporre a Marina la possibilità di ricreare invece Five day locker. Nel 2008 viene installato all’entrata del LACMA il suo lavoro più conosciuto e iconico anche al di fuori dei circoli dell’arte contemporanea Urban Light, un’opera che a mio avviso pronuncia l’ultima sentenza nei confronti dell’idea di arte pubblica così come era stata concepita fino al secolo scorso. “Urban Light” diventa anche il simbolo del rinascimento losangelino nell’arte contemporanea.
Chris Burden si è mosso da un’estrema dimensione claustrofobica ed è partito alla ricerca di spazi aperti: nella sua vita personale la scelta di vivere a Topanga in un isolamento circondato da orizzonti infiniti e senza limiti, la fascinazione per il volo.
Il rapporto con il pubblico e con il museo è cercato e temuto, la paura di bruciarsi le ali, confrontata costantemente in una dialettica di tensione continua che sottende tutta la sua ricerca. Pensando a Chris mi viene in mente spesso Antoine de Saint Exupery, autore del Piccolo Principe e aviatore scomparso misteriosamente in volo. In una delle frasi di inizio della novella Terra degli uomini ha scritto “Misurandosi con l’ostacolo l’uomo scopre se stesso. Ma per riuscirci gli occorre uno strumento…”
L’ultimo strumento inventato da Chris Burden è stato il dirigibile di Ode a Santos Dumont. La sua traiettoria termina con un attimo di magia e un volo incerto e contenuto, ma comunque misterioso all’interno delle sale di un museo.