Maurizio Cattelan: Fin dalla tua mostra da Daniel Reich ti ho visto cambiare spesso media e stili. Gli artisti che lavorano con linguaggi diversi vengono percepiti dagli spettatori più lentamente. Senti che il tuo lavoro ha bisogno di più tempo o sei consapevole di come i tuoi lavori vengono recepiti?
Christian Holstad: Penso che mi ci voglia sempre un po’ di tempo per capire come usare metaforicamente i materiali. È come un sistema linguistico. Per esempio, ho utilizzato i capelli, soprattutto umani, fin dalla mia seconda mostra da Daniel. In quella occasione ho realizzato una iena fatta con una parrucca di capelli umani. I capelli in generale sono un medium sul quale, dopo averci lavorato per un po’, ritorno sempre, per cercare di capirlo meglio. Penso che le persone abbiano paura di essere animali e per me i capelli rappresentano un collegamento diretto tra l’animale e l’intelletto. Al momento, è tutto ordinato e sto sperando di ritornare a uno “stile peluche”: fronti e petti pelosi per tutti. La gente sembra confusa quando è costretta a pensare da sola. Se non c’è su Wikipedia, allora non ha una risposta. Le persone con capelli incasinati mi eccitano; ma non quelli incasinati con cura, piuttosto una massa ribelle. In seguito ho imparato l’arte, ormai perduta, di acconciarli alla maniera vittoriana. Ho impiegato anche mosche ed edera velenosa con le stesse tecniche del passato.
MC: Dove hai imparato a farlo? Esiste una scuola?
CH: Durante un viaggio a Independence, nel Missouri. La più grande collezione di capelli è ospitata nel retro di una scuola di cosmetologia. La proprietaria del museo è incredibile. Sulla targa della sua Cadillac c’è scritto “hair” (capelli, ndt). Mi ha detto che è capace di rifare qualsiasi acconciatura del passato: le basta guardare un ritaglio della rivista National Geographic, alla ricerca di nuovi corpi preistorici che vengono scoperti. I capelli si conservano molto bene, quindi può studiare le acconciature. Mi piace il suo entusiasmo; mentre visitavo il museo mi ha dato qualche rapida istruzione. Il resto l’ho imparato studiando dalle foto di eBay.
MC: Hai imparato molto da eBay?
CH: Di solito trovo stimoli al di fuori del mondo dell’arte. Vado dove mi sento ispirato. Ho bisogno di qualcosa che mi faccia sentire parte del mondo normale. Mi piacciono per esempio i vogue balls (categoria queer, ndt). Sono cambiati così tanto da quando li ha utilizzati Madonna come accessori, ma ora sono molto più “selvaggi” . È come un incrocio tra una lotta di galli e Martha Graham; possono avere i capelli acconciati in un elegante chignon, extension e occhiali da sole. I capelli svolgono un ruolo molto importante e le acconciature possono mostrare l’autenticità di una donna o la voglia di essere donna a tempo pieno. Adoro il fatto che i vogue balls abbiano regole tutte loro, con categorie basate sull’essere più effeminato che puoi. Vince chi è più checca. Pensa al gay pride: non so in quale altro posto accadano cose del genere.
MC: Quali sono gli altri eventi con uno stile simile?
CH: L’unica cosa che ho visto in termini di performance in questo universo è un gruppo chiamato Tunnel of Love. È un trio che viene da Brookline, Massachusetts. Mi sembra che stiano a malapena in piedi, e quando suonano è come guardare l’ultimo barlume di vita lottare prima di morire, ma in calzamaglie.
MC: Raramente mi trovo davanti a cose genuinamente oneste, tutto sembra così calcolato e meditato.
CH: Tranne che su YouTube. Amo YouTube per questo motivo. È incredibilmente onesto. Credo che qualcuno dovrebbe organizzare una mostra di persone che fanno le stesse cose che avvengono nei loro video, ma dal vivo. L’unico svantaggio è che mancano gli odori. Per me, ha decretato la fine della televisione.
MC: Stranamente, mi fa pensare a Kienholz. Forse per il modo con cui la camera si muove nello spazio.
CH: Ultimamente ho pensato molto a lui. Mi sto rendendo conto che ho cercato di evitare l’opera di Kienholz, che lavora con l’americanità come nessun altro, più di quanto pensassi. Secondo me, Warhol è un po’ troppo lontano dalla vita, ma io sono un suo grande fan per altre ragioni. A ogni modo, Kienholz mi ha dato lezioni sulla narrazione e sullo spazio. Nel processo di produzione dei cataloghi, mi sono reso conto, come lui, che cerco sempre di creare uno spazio con il mio lavoro. Uno spazio in cui qualcosa è accaduto oppure sta accadendo.
MC: Mi parli dei tuoi jukebox?
CH: Per Performa05 ho fatto una mostra al McDonald’s dove ho trasformato un jukebox in una semplice vignetta. A New York, è illegale ballare nei posti senza una licenza da cabaret. È una vecchia legge, che è stata utilizzata per far chiudere i locali che il Governo considerava “pericolosi”. Le immagini usate in questo lavoro erano manette rotte, lo skyline di Manhattan, note musicali e scarpe da ballo. Ogni canzone rappresentava una persona e la musica del jukebox veniva trasmessa dall’impianto stereo del McDonald’s. L’inaugurazione è stata surreale: normali clienti, collezionisti e gente del mondo dell’arte mangiavano i panini e vagavano imbarazzati, senza sapere cosa fare o come comportarsi. Credo di aver costruito una piccola parte della scenografia e la performance è stata interpretata da altri.
MC: È simile alla tua mostra che si è tenuta a New York la scorsa primavera. Perché ti interessa usare questo tipo di spazio?
CH: Ho deciso di fare Leather Beach un po’ di tempo fa. Quando ero più giovane, ero alla ricerca di spazi abbandonati nel Midwest, contattavo i proprietari degli edifici e li affittavo per un certo lasso di tempo. Era di grande ispirazione lavorare con la vita che veniva abbandonata, molto più che avere a che fare con un white cube. Ho ottenuto i locali abbandonati di un negozio di gastronomia da un’organizzazione e ho cominciato a fare l’allestimento, che ho realizzato poi in due settimane e che poteva andare bene anche per altre location. Volevo qualcosa vicino alla Third Avenue e la Trentesima, dove c’è la maggiore concentrazione di leather daddy bars (tipologia di bar gay, ndt). La sera dell’inaugurazione temevo che qualcuno sarebbe caduto dalle scale e mi avrebbe citato per danni. Ricordo molto poco dell’evento.
MC: Le tue installazioni spesso sembrano vivaci e solitarie allo stesso tempo. Ce ne puoi parlare?
CH: Sono invasato come un bambino per la vendita di oggetti, specialmente quelli sporchi. Tavoli pieni di meravigliosa immondizia semi-organizzata. Abbiamo un sacco di roba che, quando è suddivisa in categorie, ti permette di scoprire quali sono i tuoi interessi. Vorrei creare storie sugli oggetti; ricordo per esempio che una volta camminavo in una stanza piena di bambole, appese a casaccio con delle mollette, e molte erano bruciate, ad altre mancavano parti del corpo, vestiti e teste. Questo negozio usava adesivi colorati per indicare i prezzi: blu 50 centesimi, rosso 25 e così via. Non c’era niente sul pavimento, solo corde lungo la stanza con le bambole punteggiate di adesivi fluorescenti e mollette. Mi sono seduto a guardare le facce degli acquirenti eccitati che si confondevano una volta entrati. Mi piace anche visitare case o appartamenti. Ne stavo visitando alcuni al Nord, ma poi mi sono reso conto che non ero ancora pronto per farlo. Ho trascorso la maggior parte del tempo a perdermi nell’arredamento IKEA, fra le modanature di Home Depot e gli effetti personali del venditore. Ci si focalizza sulla creazione di stanze che sembrino più grandi e familiari, fondamentalmente vendibili, come le gallerie. Le loro case sono divise in sezioni. Non ero veramente in grado di entrare in questo modo di guardare e ho deciso di non sforzarmi finché non ci sarei riuscito.
MC: Prima parlavi di Kienholz… In cos’altro ti ha influenzato?
CH: Sono stato abbastanza fortunato ad avere vissuto vicino al Walker Art Center quando ero un ragazzino, soprattutto perché ci andavo molto spesso con mia madre e mia zia. Alla mostra di Jenny Holzer mi sono sballato. Mi ci ha portato mia zia e l’abbiamo guardata per ore. Era come stare vicino all’origine di tutto; inoltre, aveva un effetto che ti disorientava. Avevo sedici anni, credo. Dopo ho avuto bisogno di stendermi sull’erba. È stato in quel momento che ho realizzato che, quando sono confuso, sono maggiormente predisposto a imparare.
MC: Cosa sta stimolando il tuo attuale processo di apprendimento?
CH: Più mi addentro nel mondo dell’arte commerciale, più forti sono le critiche su quello che faccio. A un certo punto, infatti, ho cominciato a sentire voci che criticavano il mio fidanzato, i miei galleristi e minacciavano la nemesi del mio lavoro prima ancora che lo realizzassi. Stavo letteralmente diventando schizofrenico; allora ho lasciato New York per un po’ e sono andato in campeggio in Romania con un amico. Avevo bisogno di ritornare ai miei istinti e fare qualcosa per riacquistare le forze. In questo senso il campeggio mi fa bene. La natura non mente, non ha motivazioni misteriose. Può essere severa e oscura ma è onesta. Il “saccoapelismo”, in particolare, mi fa bene quando mi sento depresso. Quando faccio campeggio sono troppo occupato a pensare alle cadute, agli orsi e alla sopravvivenza per pensare ad altre cose e questo fa sembrare i tuoi problemi un lusso.
MC: La mente è una cosa terribile.
CH: Di recente ho guidato per il paese con un amico. Stavamo facendo un tour per le case di Frank Lloyd Wright che si trovavano lungo la strada. Mi è stato d’aiuto visitarne molte per tre settimane. Ho scoperto tutti i metodi utilizzati per nascondere gli angoli, cosa che non trovi nei libri. In una sono rimasto per un paio di giorni e pensavo che mi sarebbe piaciuto perché di solito adoro gli spazi piccoli e scuri. Invece mi sono sentito intrappolato: avrei voluto sedermi sul pavimento per stare lontano dai soffitti bassi, guardando fuori alla struttura. Le intenzioni di Wright erano di spingerti fuori e funziona!
MC: Ti consideri un artista outsider?
CH: Penso di essere un outsider che hanno fatto entrare dentro. Quando sei una minoranza di qualsiasi genere, il tuo punto di vista è sempre dall’esterno. La prospettiva della maggior parte delle persone si sviluppa come un sogno o un obiettivo. Tanta gente, poi, ha gli occhi foderati di prosciutto e raramente si concede il lusso di sedersi e di decidere cosa vuole. È difficile sopratutto quando è la società ad alimentare la paura, che è lì solo per distrarci dai pensieri o dai sentimenti. Abbiamo bisogno di spostarci per guardare da una certa prospettiva. Ho imparato molto lavorando da freelance e ho dovuto fare ricorso a molte delle mie capacità per andare avanti. Il resto l’ho fatto da solo. Quando ero piccolo ero particolarmente intimidito dal disegno, così ho cominciato a fare disegni al contrario. Le mie teste erano ritagliate dai giornali e poi vi disegnavo intorno. Per prima cosa ho rimosso i pigmenti, in seguito ho imparato a ombreggiare guardando l’immagine una volta rimossa. I primi lavori erano meno disegnati perché avevo paura che il mio disegno facesse schifo. Ora ho meno paura.
MC: Sei pro o contro l’insegnamento?
CH: Contro, perché è sempre più orientato verso il mercato dell’arte. Ma nonostante ciò, ho imparato molte cose. Penso che dipenda da come si insegna. Una volta ho fatto un workshop con Linda Montano, che mi ha detto che avrei ottenuto quello di cui avevo bisogno attraverso il mio lavoro e che non me lo sarei dovuto aspettare da nessun altro. Dato che sono un generoso (che mal sopporta i truffatori), questo consiglio non mi calzava bene all’inizio, poiché mi sentivo egoista. In seguito, ho realizzato che avevo bisogno di qualcosa, che probabilmente non era disponibile nelle immediate vicinanze. Se lo avessi ottenuto, non sarebbe stato solo per me ma anche per gli altri e quindi non ero così egoista come pensavo. Credo che sia questa la cosa più importante che ho imparato. Il mio lavoro può essere molto personale ed è fondamentale per comprendere me stesso. Ho imparato con l’esperienza che se non trovi un posto per far funzionare le cose, allora qualcun altro, di solito meno gentile o produttivo, lo capirà per me. Montano ha inoltre realizzato il mio catalogo d’arte preferito. Su una pagina c’è la foto della mia performance con una descrizione, mentre in quella a fianco c’è un pezzo dal suo diario di quel periodo, da cui si evince che quello a cui stava lavorando era direttamente correlato alla sua vita personale, era addirittura alla base del suo lavoro. Quando guardo quello che ho realizzato e mi accorgo di quanto sia influenzato dall’ambiente che mi circonda. Le performance devono sempre essere generate da un bisogno di connettersi immediatamente con gli altri. Ora non ne faccio più perché non ho gli stessi bisogni e ho scelto di rapportarmi con le persone in altri modi.
MC: C’è qualche altro medium con il quale non lavorerai?
CH: L’unica cosa che non farò mai è dipingere perché penso che se lo fai una volta, poi continuerai a farlo per sempre. La pittura è ciò che la maggior parte dei collezionisti vuole e spesso si rifiuta di comprare altro. Il resto del tuo lavoro passa in secondo piano. Molti artisti, che sono principalmente pittori, sono capaci di fare altre cose grandiose e raramente sono incoraggiati in questa direzione. Alcuni in passato mi hanno detto di smettere di fare quello che faccio e di realizzare dipinti. È la cosa peggiore che mi abbiano mai detto riferita al mio lavoro.
MC: Sei pentito per qualcosa che hai fatto?
CH: No. Sono un grande sostenitore del fare e mostrare qualsiasi cosa. Odiavo la furbizia delle gallerie quando sono venuto a New York nel 1994. Penso che inseriscano le cose in una macchina e poi le appendano al muro. È facile per i musei comprare e diventare simili a quello che propongono le gallerie. Al contrario, credo che svolgerebbero un ruolo più importante se diventassero una sorta di “estensione” dello studio degli artisti. Il lavoro dei musei è invece quello di assimilarsi a ciò che gli artisti stanno creando.
MC: Ci sono altri artisti contemporanei che ti piacciono e che lavorano nel sistema delle gallerie?
CH: Una volta ho visto una performance a Brooklyn che mi ritorna in mente spesso, realizzata da Heidi Hilker, la quale crea dei personaggi e li interpreta per un po’. Questo lavoro, Das Pfaschion Aktion, era una specie di autobiografia sotto forma di sfilata. Era basato sull’idea di Otto Muehl di una comunità per bambini affetti da handicap mentali che crea una linea di abbigliamento. Mi piaceva la confusione mescolata con incredibili capacità artigianali. La Hilker era capace di fondere un sincero amore per la moda con un concetto interessante. Pochi artisti-designer sono riusciti a farlo con successo. Mi piace anche il designer Carol Christian Poell per lo stesso motivo. Credo che stia facendo molto di più che realizzare abiti per negozi. E mi piace pure il nuovo lavoro di Rob Pruitt che penso stia lavorando proprio in questa zona grigia. Riempiva i jeans di calcestruzzo e il modo in cui lo faceva somigliava alla cellulite. Era bello che nei suoi racconti ci fosse una stanza che si prestava ad altre interpretazioni; ho immaginato un gruppo di donne dai 27 ai 50 anni di peso normale, in topless, con le braccia alzate e con grandi sorrisi sulla faccia: stavano vendendo qualcosa, probabilmente forni a microonde oppure tavolette per il water, ma sotto forma di libertà mentale.
MC: La tua ultima mostra è stata al Museum of Contemporary Art di Miami e ospitava un branco di asini, disegni di teste e un jukebox con 45 giri solo di Nina Simone. Perché gli asini?
CH: In origine collezionavo asini del presepe. Volevo presentarne un stanza piena. Stavo pensando a come mai non ci fossero più Marie, saggi, Gesù o Giuseppe, ma solo asini. Solo cocciuti animali carichi di cose da trasportare; mi fanno tristezza, e a un certo punto della mia vita mi sentivo vicino a loro. Così ho deciso di fare per loro abiti a righe grigi. Mi è sempre piaciuta l’idea che gli abiti possano trasformarti. Per questo li ho fatti più grandi, in modo che fossero più umani. Volevo anche realizzare asini un po’ più piccoli del naturale allo scopo di dare allo spettatore un senso di potenza. A posteriori, credo che si invertissero i ruoli. C’è qualcosa di indubbiamente grazioso nelle sculture, una specie di “povero me, esausto” che spesso fa la parte del derelitto ma che in realtà è il carnefice. Ho messo gli asini in questione in questa posizione in modo da poterli trattare con un po’ di compassione: sono animali da soma. Ho bisogno di ricordarmi che i potenti necessitano di compassione e della possibilità di migliorare le cose attraverso alcune gentilezze mixate con i calci; tendo infatti ad avere punti di vista opposti all’interno di uno stesso lavoro. Un sacco di volte uso oggetti comuni in maniera particolare per polarizzare l’attenzione del pubblico verso nuove idee. Mia nonna non avrebbe voluto guardare la pornografia ma, avvolta in una coperta a fare l’uncinetto, si sarebbe scoperta vicina a essa prima di riuscire a evitarla.