Cinzia said,
vorrei cambiare il mio vestito che
vecchio ormai
non mi sta bene più su…”
(Matia Bazar, “Elettrochoc”, Aristocratica, 1984)
Cinzia Ruggeri: Alla fine degli anni Sessanta, di ritorno da Parigi, incontro un uomo di cui mi innamoro; insieme decidiamo di affittare una casa vuota; l’accordo era di non portarci dietro nulla che appartenesse alle nostre vite precedenti. Volevamo ripartire da zero. C’era un letto, un materasso, ma il resto, tutto quello che avrebbe fatto parte dell’arredo, doveva essere reinventato. Abbiamo deciso che la casa doveva essere bianca, come pavimento una moquette color farina. Nel grande salone, un tavolo da ping pong. In seguito ci è capitato di trascorrere un periodo di lavoro in Egitto. Tornati a Milano, organizziamo una festa e regaliamo ai nostri amici dei caftani. Li indossano subito e la serata si conclude giocando a volano! In seguito arrediamo la casa con mobili trasparenti, in perspex, disegnati da noi. Niente arte alle pareti, perché non puoi possedere ciò che ami… Abbiamo concepito così un nostro modo di abitare.
Marco Tagliafierro: Cinzia Ruggieri è innanzitutto attenta alle idee e le piace parlare; parla del progetto come di una possibilità per intendere il mondo. Fin dai suoi esordi non ci sono stati solo abiti ma anche ambienti, interpretati come luoghi sensoriali. Questa prima casa ne è un esempio. Correva l’anno 1967, ma già il concetto era quello di una casa facile; in quell’appartamento abbacinante, si pensava che ognuno potesse vivere reinventando il principio stesso dell’abitare.
CR: Quando a un certo punto trasferisco la mia sede operativa in via Crocefisso, un ex convento con dei soffitti altissimi e con dei bellissimi lucernari, faccio costruire un balcone interno in legno, dipinto di rosa come il muro, viene ruotato di 160 gradi e dietro la balaustra, ispirata a quella di Palazzo Farnese a Roma, faccio comparire la riproduzione ingrandita, su legno dipinto, di un particolare, un angelo, estratto da un dipinto di Piero della Francesca, una sagoma che si affaccia e sorveglia la situazione. Nel tempo lo associo ad altri segni di ogni genere. In quello spazio costruisco un lago, molto verosimile, una vasca nel pavimento foderata con la plastica e riempita d’acqua. Al centro, affiora una vecchia sedia a cui sego le gambe, così da creare l’illusione che l’acqua sia più profonda. Il lago non manca di isole flottanti, popolate di gamberi vivi. I tre bagni li allestisco poi a rotazione: in uno puoi trovare magari una pistola adagiata su un cuscino, in un altro una gallina. Ah, poi, accade che desidero offrire a un fenicottero rosa, in arrivo dalla Sardegna e destinato al parco di una celebre residenza milanese, un più felice e indimenticabile benvenuto. Così lo faccio portare in via Crocefisso e lo lascio sguazzare libero nell’acqua.
MT: Cinzia Ruggeri è sempre andata alla ricerca di ambiti di ricerca più aperti e per questo, forse, più rischiosi ma anche in grado di offrire la possibilità di vivere il design come atto linguistico o come gesto culturale in senso antropologico.
Mariuccia Casadio: Progettista visionaria, a largo raggio, Cinzia Ruggeri era per me un ricordo di redazionali, copertine, immagini di moda oltre la moda. Oltre i codici. Per molto tempo ho chiesto di lei, perché non è di quelle tante persone che a Milano presto o tardi, in continuazione, incontri dappertutto. Nel suo mondo sono entrata in punta di piedi, con una forma di ammirazione che mi è cresciuta dentro nel tempo. Un’ammirazione che lei, ti accorgi subito, merita tutta. Il suo parlato è un flusso intensamente narrativo, che ci riporta agli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Anni eroici, profondamente sperimentali, di cui non è difficile dedurre, lei è stata artefice, mescolando la vita e il progetto, progettando il suo vivere. Il suo parlato è un flusso avvincente, pieno di accurate descrizioni, aggettivi, suoni, musiche, ambientazioni, personaggi. E passioni decise, riconoscibili, presenti nel tempo. L’acqua del mare, gli animali, le piante, i colori più radicali, primari: il bianco, il rosso, il nero. L’azzurro deciso del mare aperto, guardato dall’alto, da un pezzo di terra a strapiombo. Il suo parlato è anche surreale, può trascendere facilmente il prevedibile. Perché così è Cinzia Ruggeri. Perché così sono gli abiti, gli oggetti, i mobili, gli ambienti che ha disegnato negli anni. Forme avventurose, che raccontano, mutano, comunicano, agiscono, ci vivono addosso, intorno.
CR: Le feste, però, non sono così frequenti neanche in quegli anni. Lavoro molto. Mi piace raccontare, sempre di quel periodo, lo spolverino grigio e bianco, a righine; indossandolo puoi essere timido, ma a un certo punto se non ne puoi più: zac! Tiri fuori le fodere delle tasche, enormi; è una forma di espressione liberatoria! A un certo punto abolisco l’etichetta, nel senso tradizionale e la sostituisco con un frammento letterario, una poesia che poi rimanda all’abito successivo.
MT: La gioia di esistere per esistere; Produce segni che non hanno la pretesa della verità. Ruggeri non ha famiglia. Non l’ha mai avuta. Rifiuta di essere etichettata: il post modernismo, i revival storicistici le vanno stretti così come i reflussi deco che qualcuno le ha imposto descrivendola. Queste etichette pregiudiziali sono smentite dal fatto che lei ha dimostrato di essere in grado anche di produrre un caleidoscopico good design. Quando ha ideato nuove tecniche, sperimentato materiali inediti, lo ha fatto operando al di fuori della retorica delle possibilità della tecnologia, convinta che si possa dimostrare che essa non è necessariamente presuntuosa, ma che può ironizzare su se stessa, nutrire dei dubbi.
MC: Fare tabula rasa. Ripartire dal grado zero. Ricominciare. Ci sono in lei un coraggio, un’energia profonda, un’intelligenza che l’hanno portata a compiere scelte radicali. Più o meno sempre. Provocazioni. Rivoluzioni e reinvenzioni di codici, modi di abitare, modi di viaggiare, modi di lavorare, modi di vendere e di vendersi. L’arte entra negli abiti, che concepisce come strumenti di comunicazione e provocazione, mezzi per esprimere il sé, il proprio sentire. Paiono accurati concetti sartoriali, ma possono deflagrare, mutare, sentire. Le preziosità, le unicità sono spesso celate. Sono perle o altre piccole cose che luccicano cucite negli orli. Sono interni di tasche in velluto colorato, cuori o tappi di champagne accuratamente ricamati, che puoi sfoderare al momento giusto, quando una situazione si fa più appassionante, entusiasmante. Sono ricami che si muovono come cartoni animati sulle camicette abbottonate dietro, siparietti provocatori, che portano un cagnetto a fare la pipì contro un albero. Sono zampironi accesi sui decolleté da ballerina, che prendono il posto di fibbie o pon pon. Sono abiti architettati, spazi da occupare con il corpo, abitare e interpretare con la propria identità.
CR: Mi sono interrogata sull’inequità di rapporto tra noi che quotidianamente affidiamo a un’agenda tutte le nostre cose, anche più intime, e lei che ci restituisce solo freddi numeri. Così ne progetto una, taglio ogni pagina in modo diverso, una pagina per ogni giorno e a ognuna affido un colore e un disegno.
MC: Ha conosciuto la massima visibilità, ma ha saputo anche scegliere e praticare l’invisibilità, Cinzia Ruggeri. Il materiale e l’immateriale. E questa libertà di essere, come una sfida, l’ha rinforzata, l’ha resa autonoma, unica. Sono cose che solo una donna può capire di un’altra donna, perché Cinzia Ruggeri è intensamente femminile. E la sua femminilità rappresenta, credo, un dato fondamentale per comprenderne le scelte professionali e umane, culturali e personali. Indissociabili una dall’altra, ispiratrici l’una dell’altra.
MT: La matrice creativa di Cinzia Ruggeri ha gene femminile ma non necessariamente segno femminile. Gli abiti che ha progettato coinvolgono il corpo come sorgente di sensazioni e vibrazioni estroflesse che in ultima analisi diventano dei moltiplicatori di sensazioni, enfatizzate in termini quasi rituali. Qualità astratte e figurative paiono rafforzarsi le une con le altre nella sintesi rappresentativa.
MC: Il suo modus vivendi m’inorgoglisce e mi rafforza come una terapia. Mi ha raccontato che a un certo punto ha lasciato tutto: “ho pensato a ciò che mi faceva davvero felice. Ho ripensato a mio padre, al mare aperto, alle lingue a strapiombo sul mare, là dove la terra finisce e comincia l’acqua.” E quello ho scelto, partendo solo con un bagaglio. Tante lenzuola rosse, perché nulla come le lenzuola rosse puo’ creare un ambiente, un’idea di casa…con me anche pochi vestiti. Là, affacciata sul mare del Salento, ha resistito quasi dieci anni…ma quella è ormai per lei una vecchia storia. Oggi Cinzia Ruggeri vive di nuovo a Milano in un appartamento a misura di persona, dove, tra seggioline di Hoffmann e scrittoio anni Venti sopravvivono mobili, oggetti, opere di sua concezione come la poltrona Meghaton, il Portalacrime, la caffettiera Wake Up e molto sorprendente altro ancora, tra siparietti di maialini di gomma e cani di peluche con museruola, scatole che, a sorpresa, abbaiano e Pall Mall disposte a schiere digradanti in un cubico portasigarette in radica degli anni Cinquanta. Autentico e, come lei, inevitabilmente ludico conversation piece!