Formafantasma (Andrea Trimarchi, 1983, e Simone Farresin, 1980) sviluppa progetti di design che abbracciano le pratiche artigianali per il loro valore etico, di tutela delle culture locali e sostenibilità ambientale. Attraverso un processo creativo che si fonda nella conoscenza intima della materia prima, Formafantasma afferma la propria autonomia dai modi – e dai fini – della produzione industriale.
Al momento in cui scriviamo, siamo due designer di origine italiana di base nei Paesi Bassi. Non ci siamo mai preoccupati dell’idea di un design “nazionale”. Anzi, a dire il vero, la respingiamo totalmente; e non perché riteniamo che non abbia senso analizzare come la disciplina del design si evolva sulla base di opportunità o restrizioni nazionali, ma perché le urgenze globali ci sembrano semplicemente più rilevanti. Oltretutto, quando una disciplina s’inscrive in una lettura nazionalista, questa categorizzazione finisce per diventare un parametro qualitativo che sfocia in associazioni del tipo “è questo il design italiano? = è questo il buon design?”. Crediamo che il design debba essere letto all’interno di un contesto, e quello dell’identità nazionale è solo una dei tanti possibili. Le riflessioni che seguono sono quindi osservazioni sullo status quo della disciplina e sul suo rapporto con la produzione, evitando ogni riferimento al design italiano o olandese.
Con l’industrializzazione la produzione artigianale è stata costretta a confrontarsi con le abilità della macchina – più veloce, più economica, “più” perfetta. La macchina in sé rappresenta quello che l’uomo non sarà mai in grado di produrre, ovvero non solo un originale ineccepibile, ma anche la sua copia.
Con il movimento Modernista la capacità tecnica della riproduzione meccanica ha fornito un espediente per favorire una rivoluzione all’insegna della democrazia. Il Modernismo ha portato con sé la volontà di investire di nuovi significati i prodotti industriali ed è evoluto in un programma socioculturale, culminato nell’idea di uno “stile internazionale”. Le forme geometriche, gli elementi formali tipici dell’International Style, sono i simboli della sua pretesa idealista e universale.
In questo contesto, l’artigianato sembrava appartenere al passato: costoso, decorativo e sintomatico di una cultura localista. Tuttavia, è importante notare che l’avversione del movimento Modernista alla decorazione è stata più volte fraintesa. Quel rifiuto si basava sull’idea che ogni mezzo necessiti di un approccio particolare. Inevitabilmente la nuova estetica ha influenzato l’artigianato, che ha reagito in due modi divergenti: imitando il passato, o imitando l’industria e il suo stile – eliminando quindi, quanto più possibile, qualsiasi traccia di lavoro manuale.
L’artigianato è sopravvissuto all’ondata delle “nuove macchine”, nei migliori casi collaborando con l’industria (l’Italia presenta ottimi esempi in questo senso), o diventando una sorta di attrazione turistica.
In passato i negozi, così come li conosciamo oggi, erano realtà rare in campagna e se un contadino aveva bisogno di un oggetto, andava direttamente dall’artigiano. In questo modo la forma del manufatto era il risultato di un dialogo fra l’artigiano e il suo cliente. Sulla base delle esigenze quotidiane e della loro evoluzione, anche l’artigianato stesso è evoluto. Ma dal momento in cui, tra il Diciottesimo secolo e il Diciannovesimo, è stato possibile acquistare prodotti industriali, le pratiche artigianali sono decadute.
Oggi, in molti casi (Caltagirone in Sicilia e Delft in Olanda ne sono due buoni esempi), il turista ha rimpiazzato il cliente tradizionale. Il turista è l’unico che ancora visita le botteghe artigianali per acquistare oggetti, i quali tuttavia non sono impiegati per le loro finalità funzionali, quanto per restituire un’esperienza (il viaggio) o l’idea stereotipata di un luogo (sono, in altre parole, nient’altro che souvenir). Il nostro progetto Molding Tradition (2009) guarda a questi problemi e svela il complesso rapporto tra artigianato locale, politiche nazionaliste e posizioni anti-immigrazione emerse di fronte alle crisi globale dei rifugiati.
Questa panoramica semplifica, e non poco, il complesso rapporto tra industria e artigianato e tutti noi sappiamo bene come l’intera storia del design abbia visto i progettisti collaborare con successo con gli artigiani, a partire da William Morris e dal movimento Arts and Crafs, fino agli innumerevoli esempi contemporanei. In questo senso, il rinnovato interesse per l’artigianato non è esattamente una novità, ma sicuramente definisce un cambiamento nelle esigenze della società.
Mai nella storia l’umanità ha prodotto così tanto, eppure la distanza fisica tra prodotto e produttore è aumentata esponenzialmente. Le merci sono confezionate in un “altrove” indefinito e percepite perlopiù prive di storia e di informazioni sulla loro origine, così come gli individui che si sentono sempre più sottratti di un’identità e di un luogo di appartenenza. In questo clima di frenetico consumismo globalizzato, si è iniziato a rivendicare un senso del locale in nome della sostenibilità. La produzione locale sta diventando una condizione necessaria, non solo per questioni ambientali, ma per una sorta di equilibrio psicologico: accorciare la distanza esistente tra gli individui e la produzione dei beni di consumo aiuterebbe a riconnettere i primi alla propria cultura. Comprendere il significato intrinseco degli oggetti, infatti, ci permette di conoscere ed esternare al meglio noi stessi. In questo senso l’artigianato sta via via assumendo un valore quasi simbolico, per cui l’oggetto “fatto a mano” rappresenta un modo più sostenibile, più onesto e più umano di produrre.
Riteniamo che questa tendenza sia già in atto. Essa si lascia alle spalle ogni tratto di nostalgia e romanticismo, oltre all’idea di una supremazia della produzione dell’uomo su quella della macchina, ma conserva la sua raison d’être: la necessità di una produzione più trasparente e opportuna, in cui il superfluo e il non-etico non siano solo qualità deplorevoli, bensì terribilmente radicate nella cultura consumista del Ventesimo secolo.
Se dovessimo identificare un’area che il design dovrebbe indagare più approfonditamente, questa è il rapporto tra l’estrazione e l’approvvigionamento dei materiali e la loro conseguente trasformazione in prodotti.
Con l’inizio della Rivoluzione Industriale il designer è emerso come una figura di mediazione tra i materiali e le loro trasformazioni in prodotti mediante i macchinari. Questo fenomeno ha portato allo sviluppo di una prospettiva creativa più indipendente rispetto a quella dell’artigiano, in cui l’approvvigionamento del materiale, la sua raffinazione e, infine, la sua trasformazione in un oggetto erano fasi di un processo unitario. Possiamo infatti affermare che il design è intrinsecamente più attento alla trasformazione che alla genesi dei materiali, e per questa ragione viene chiamato in causa per definire ciò che un materiale potrebbe diventare, senza che necessariamente esso si interroghi sul luogo di provenienza di quella sostanza. I minerali sono estratti, raffinati e trasformati in prodotti quasi finiti, come barre, lamiere o lingotti, e quindi consegnati ai produttori in modo da essere trasformati in oggetti commercializzabili.
La nostra visione del design va controcorrente rispetto a questa realtà. Negli anni abbiamo sviluppato la nostra pratica grazie alle commissioni di diverse industrie, ma spesso autonomamente. L’indipendenza del nostro metodo di lavoro, che ci mantiene alla periferia della produzione industriale, ci permette di mettere in discussione costantemente la materialità dei nostri stessi prodotti. Al momento stiamo realizzando un nuovo corpo di lavori chiamato Ore Streams, commissionato dalla National Gallery of Victoria di Melbourne, che, come in progetti quali Botanica (2011) e De Natura Fossilium (2014), guarda ai materiali e alla loro origine come punto di partenza. Il nostro obiettivo è sviluppare una serie di oggetti, e le relative strategie produttive, che possano sollevare una riflessione sul significato della produzione e sulla trasformazione delle risorse naturali in beni di consumo.