L’espressione inglese copyleft — gioco di parole su copyright — individua un modello alternativo di gestione dei diritti d’autore basato su un sistema di licenze attraverso le quali l’autore indica ai fruitori che la propria opera può essere utilizzata, diffusa e spesso anche modificata liberamente. Nella versione pura e originaria del copyleft, la condizione principale obbliga i fruitori dell’opera a rilasciare eventuali modifiche apportate all’opera a loro volta sotto lo stesso regime giuridico (e sotto la stessa licenza). In questo modo il regime di copyleft e tutto l’insieme di libertà da esso derivanti sono sempre garantiti.
Continuous Project è un progetto artistico ed editoriale collettivo che si fonda essenzialmente sul principio del copyleft. Nasce nel 2003, per mano di quattro artisti fondatori: Bettina Funcke, Wade Guyton, Joseph Logan e Seth Price. La capacità artistica di Wade Guyton e Seth Price è accompagnata da una stretta amicizia che li lega e da un istinto cleptomane che li spinge irresistibilmente ad appropriarsi di immagini, video e testi altrui per re-interpretarli a modo proprio. Bettina Funcke è senior editor di Parkett, Joseph Logan è art director di Artforum: le loro figure sono determinanti per plasmare quell’armonia di abbinamenti di immagini e parole prese a prestito dal passato che costituiscono il filo conduttore estetico del quartetto di Continuous Project. Un magazine dalle pagine di cellulosa trasformato in una performance editoriale in continuo divenire.
“Artisti”, “performance”, “editoria”, “riciclo”, creativo sì ma sempre riciclo: per descrivere questa nuovissima iniziativa dell’intellighenzia newyorkese si usano parole vecchie. Dov’è allora l’innovazione e l’assoluta originalità di una vecchia rivista in cui la creazione sembra appartenere al passato e l’unico apporto artistico è relegato all’opera di raccolta e selezione dei contenuti? L’innovazione è sia fuori che dentro il progetto. Fuori perché, a un panorama che afferma l’arte come creazione individuale e frutto di un individualismo creativo, Continuous Project contrappone una forma di collettivismo artistico, oggi molto rara, che getta le basi di una scuola di pensiero; dentro perché il contenuto stesso della forma artistica, il magazine, appartiene a una moltitudine di soggetti che perdono la propria paternità nel gesto della rilegatura, della sceneggiatura. L’opera è frutto di un circolo a cui aderiscono artisti, critici, scrittori che abdicano alla paternità della creazione artistica, generando un’opera che potremmo etichettare come “di tutti e di nessuno”.
Potremmo definire Continuous Project come un fenomeno di “user generated content”, fuso con una spontanea violazione del copyright. È bene scrivere “potremmo definirlo” perché etichettare con una definizione un “progetto continuo” è un errore per definizione. “User generated content” è un termine coniato dal web, è la creazione di contenuti attraverso la partecipazione di coloro che lo utilizzano. Continuous Project apre alla partecipazione di altri soggetti, apre a inserzionisti, pittori, fotografi, attori, unendone contenuti, re-interpretando copioni esistenti, ristampando copertine già stampate e recitando versi già recitati; eppure si genera arte nuova.
La violazione del copyright non viene invece dal web ma il web ne ha certamente accelerato il fenomeno. Il copyright non esiste, la proprietà intellettuale è concettualmente una barriera alla conoscenza. Alcuni artisti come Wade Guyton, Seth Price, Josh Smith e Kelley Walker, tra i più interessanti del panorama contemporaneo, sono definiti “appropriazionisti”: non credono nell’autorità della firma, privilegiano l’anonimia, la rielaborazione dell’esistente, per creare attraverso il rifiuto dell’originalità. Wade Guyton e Kelley Walker lavorano anche in collaborazione, producendo opere che non sono la somma di ricerche individuali ma rappresentano il frutto di una nuova entità artistica. Anche questa tendenza non è una novità ma si rifà a un modus operandi già vissuto negli anni Ottanta.
L’entità di Continuous Project è inafferrabile, definibile in diverse maniere e in tutte coerente. Un prodotto che non comunica un messaggio preciso — alcuni lo hanno definito a ragione “everything and nothing” — che lavora d’impatto sul lettore, che racconta in un flash back continuo l’idea confusa di arte costruita nell’immaginario di questi artisti e dei suoi inserzionisti. Dall’astratto ai materiali, nulla è lasciato al caso, frutto di un minuzioso recupero e presa a prestito dalla storia dell’arte, dalla pubblicità, dalla politica, dal web, tutto mescolato in maniera provocante, ironica e, di tanto in tanto, molto seria. Continuous Project è un terreno neutrale in cui i suoi partecipanti si sfidano come in una partita a scacchi.
Continuous Project si avvicina ai giornali d’avanguardia degli anni Sessanta-Settanta. Il primo numero edito nel 2003 propone un fac-simile di Avalanche, rivista fondata dal curatore Willoughby Sharp, “a transcontinental cultural catalyst”, come lui stesso amava definirsi. Avalanche e Continuous Project si contaminano, gli artisti intervengono, si intervistano, si raccontano, si pubblicano tra loro senza la consacrazione di critici e curatori, sconfessando un meccanismo conservativo del sistema dell’arte. Gli artisti guidano come allora la rivista stravolgendo lo status dei ruoli consolidati. Tra il 2003 e il 2006 si susseguono ben otto numeri in cui forma e concetto artistico evolvono in forme imprevedibili, mantenendo nel quadro d’insieme la coerenza di un’immutata ispirazione artistica. Nel 2004 CP#3 e CP#4 pubblicano rispettivamente Escape To Hell and Other Stories, di Muammar Qaddafi, e il primo numero di Eau de Cologne, rivista d’avanguardia del 1985 con in copertina l’opera di Cindy Sherman e il poster di Rosemary Trockel, Passerby. È del 2005 il CP#5, che ripropone una lettera di Robert Morris del 1969, originariamente apparsa su Pacemaker Magazine dello stesso anno. Nella lettera viene illustrata da Morris la bizzarra performance che coinvolge dodici donne, intitolata A Performance for the Land. Dalla lettera ai fatti, CP#6 diventa una performance nella galleria Klosterfelde di Berlino: nove ore di lettura dell’intervista tra Virginia Dwan, dealer e sostenitrice di artisti come Heizer, De Maria, Smithson, e Charles Stuckey, noto critico d’arte. Nel 2006 CP#7 riproduce il libro d’artista Publit (del 1971) di Ferdinand Kriwit. A distanza di pochi mesi, l’ultima edizione, CP#8, prende le distanze dalle immagini e dal colore uscendo in versione bianco e nero, e si concentra sui testi, raccogliendo contributi di critici, artisti, curatori riguardanti il tema del rapporto tra arte e pubblico. Tra gli aderenti al progetto, nomi di artisti affermati e di giovani emergenti: Allen Ruppersberg, Jacques Rancière, Seth Price, Claire Fontaine, Dan Graham, Bettina Funcke, Matthew Brannon, Alexander Kluge e Oskar Negt, Mai-Thu Perret, Joshua Dubler, Tim Griffin, Charles Fourier, Maria Muhle, Pablo Lafuente, Melanie Gilligan, Simon Baier, Donald Judd, Nico Baumbach, Serge Daney, Johanna Burton e Warren Niesluchowski.
L’obbiettivo di Continuous Project è quello di riportare in vita alcuni fatti e testi del passato per ricontestualizzarli, a volte senza un filo logico, come accade nell’inconscio collettivo. È come se la critica dell’arte fosse ciclica, e gli artisti di Continuous Project cercassero esattamente i punti da cui ripartire.