Il controscatto è l’immagine (invisibile) di colui che fotografa al momento della ripresa e che Wim Wenders ha ben descritto nel suo libro Una volta (1993). Dietro all’obiettivo c’è una presenza che definisce l’immagine ma anche calibra la luce, la messa a fuoco, i tempi e che risulta sempre anche nell’immagine fotografica: non ne sono fissati i tratti del volto ma la sua disposizione verso ciò che ha davanti. “La macchina fotografica è un occhio che può guardare nel contempo davanti e dietro a sé. Davanti scatta una foto, dietro traccia una silhouette dell’animo del fotografo: coglie attraverso il suo occhio ciò che lo motiva. (…) Mostra le cose e il desiderio di esse”. Questa capacità del mezzo fotografico diventa allora portatrice di un duplice potere di manifestare allo stesso tempo soggetto e oggetto. Sotto l’apparenza di un evento formale, l’atto del fotografare rimane un comportamento etimologicamente estetico. Coinvolge i sensi e comporta una partecipazione alla realtà in prima persona. Il risultato è una dissoluzione tra il dietro e il davanti dell’obiettivo: chi fotografa può uscire da sé ed essere dall’altra parte, nel mondo o nella ricostruzione di esso mediante le immagini. Ecco allora che la “silhouette dell’animo del fotografo” rivela aspetti della realtà altrimenti destinati a rimanere opachi alla comprensione.
In questa prospettiva possiamo collocare molte opere di artisti che lavorano con la fotografia e che attuano grazie al mezzo fotografico un’immersione totale nelle vicende, nei luoghi e negli accadimenti. In un modo a volte palese a volte velato, il passato personale, storico o culturale diventa un terreno fertile su cui proiettare una ricerca che si amplia verso la scoperta e messa a fuoco di un’identità anch’essa personale, storica e culturale.
Nella serie “Muri di piombo”, Eva Frapiccini (Recanati, 1978) ricostruisce per frammenti gli anni bui di un trascorso storico italiano tragico e contradittorio. Partita da Torino, sua città d’origine, la sua indagine ha toccato diverse città, tra cui Roma, Milano e Genova, sul filo delle azioni condotte dal 1976 al 1982 da gruppi come le Brigate Rosse, Prima Linea, Compagni Combattenti e Nap. Lei, che quegli anni li ha vissuti solo sulla carta, riprende luoghi testimoni di sparatorie e attentati. Ogni immagine è il frutto di un lungo lavoro di ricerca bibliografica e d’archivio, e, come racconta Frapiccini, di sentimento. Per ogni luogo immortalato ha ripercorso le vie, le piazze, i vicoli nello stesso mese, giorno e ora dell’accaduto. Le immagini della cronaca cedono il passo a uno sguardo che vuole “immergersi” nella realtà ed esserne coinvolto. Il sapiente uso di sfumati, messe a fuoco di dettagli, prospettive lunghe accentua il senso di vaghezza e ambiguità che si ritrova spesso nelle testimonianze scritte sia scientifiche sia personali.
Anche nel lavoro di Moira Ricci (Orbetello, 1977), l’utilizzo della fotografia è da considerare come strumento per un’indagine sul passato e sul carico emotivo della memoria. L’artista ricostruisce la sua storia familiare, la relazione che ha avuto con la madre e con i luoghi della sua infanzia. Il suo rivelare l’atmosfera quotidiana, il sapore degli ambienti di “lontana memoria”, la nostalgia degli affetti è terreno fertile per coinvolgerci in una riflessione che tocca l’identità di ognuno. In uno dei suoi ultimi progetti, “20.12.53-10.08.04” (2004-in corso), Ricci inscena un lavoro di ricostruzione affettiva per ripristinare uno spazio immaginario in cui lei e la madre scomparsa possano incontrarsi. Accanto al volto della madre vediamo l’artista che la osserva nell’attesa e speranza che lei si accorga della sua presenza.
Se Moira Ricci si concentra sul proprio vissuto per renderlo universale, Linda Fregni Nagler (Stoccolma, 1976) sembra compiere un’operazione inversa: nel suo ultimo progetto (“Immemore”, 2008) l’artista raccoglie fotografie ottocentesche e dei primi del Novecento per raccontare storie di uomini senza nome e senza storia. Con un piglio antropologico ricostruisce per impressioni delle storie passate, dichiarandone poi l’impossibilità di risalire al loro senso originario. La fotografia, mezzo per antonomasia che attesta un atto di presenza indubitabile, un “è stato”, va a infrangersi nella malinconica evidenza che, se rifotografate, perdono completamente di significato. In Senza Titolo (Famiglia), Fregni Nagler amplifica questo concetto: recuperata una foto di famiglia la riproduce in una stampa solarizzata che la trasforma in un supporto nero opaco, e su questa superficie impenetrabile proietta la diapositiva della medesima stampa. Il risultato è un quadretto familiare avvolto da un alone spettrale, chiuso nel suo anonimato.
Questa propensione al non-colore, al piccolo formato, a un tipo di fotografia lontana da facili effetti visivi si ritrova anche nei lavori di molti altri fotografi. Pensiamo all’opera di Carlo Andreasi (Legnago, 1969). Tutto il suo lavoro si gioca sull’accostamento di immagini in sequenza che non si esauriscono in narrazione bensì raccontano dell’invenzione di una rappresentazione: la successione, scardinata dalla dimensione temporale, diventa ritmo analogico e ricerca di metodo. Nella serie “Terre arse” si susseguono un interno, un ritratto, dettagli di un lampione, un albero, strade, parcheggi, per finire in un buio quasi totale. Questo lavoro si sviluppa per contrasti — bianchi/neri, notte/giorno, dentro/fuori — ma soprattutto si sostanzia sul visibile e il non visibile. Anche in “Passaggi di stato” si privilegia la dimensione notturna. Il progetto prevedeva la documentazione delle postazioni di confine della provincia di Trieste. Con lo svilupparsi della serie Andreasi constata che queste architetture, rese inutili dai mutamenti politici, mantengono ancora un forte significato identitario. L’oscurità, reale e metaforica, che egli percepisce nel suo territorio, si trasforma in un inconscio sociale, fatto di rimossi storici e rancori in parte risolti. Ritorna anche in questo lavoro la necessità di rendere visivamente i confini per fondare i limiti territoriali, ma anche affettivi, del proprio territorio d’origine.
Per molti versi anche nel lavoro di Claudio Gobbi (Ancona, 1971) si individuano molti aspetti di una ricerca sull’identità dei luoghi. Nei suoi lavori recenti, ma potremmo dire in tutta la sua ricerca, è evidente uno sguardo sociologico che unisce tipologie e archetipi di un comune tessuto sociale europeo. Praga, Parigi, Berlino, Milano, Barcellona: tutte città da lui percorse e scrutate nei dettagli per cogliere somiglianze e affinità. Le sue fotografie di luoghi pubblici, per lo più teatri ma anche oratori, balere, circoli di periferia, sembrano una sequenza che immortala un unico grande spazio interno, ma anche interiore, dove le assonanze luminose e cromatiche si susseguono al ritmo di onde centripete, somma della stessa radice culturale e artistica, ma anche centrifughe, frammentazione di uno spazio che non rivela mai tutto completamente, che spesso cela anziché mostrare. L’atmosfera di tempo sospeso è accentuata dall’assenza dell’uomo, elemento imperfetto, disturbante nella perfezione maniacale dei tagli prospettici.
La stessa ossessione per un ordine formale si ritrova nel lavoro di Stefano Graziani (Bologna, 1971). La sua ultima serie fotografica ha dato vita a un libro, Taxonomies: raccolta di venti immagini su centoventi in cui prende in considerazione le discipline delle scienze naturali e gli studiosi delle stesse in quanto pionieri nel campo dell’osservazione. Scrutare, riprodurre, archiviare sono caratteristiche fondamentali in questa raccolta che ambisce a diventare una metafora visiva della tassonomia illuminista che ha fatto dell’osservazione il primo strumento di comprensione. Le sue intenzioni sembrano però infrangersi nella constatazione che riprodurre dettagli di un archivio di piante, fossili, animali altro non è che uno scendere a compromessi con la fascinazione estetica intrinseca alle collezioni più che un percorso gnoseologico. Il risultato a cui Graziani aspira è di poter lavorare con una singola immagine metonimica anziché compendio di un pensiero più vasto. La serialità, scusa o alibi che giustifica molti progetti, è ciò che ha cercato di evitare grazie a uno studio maniacale della sequenza delle foto, dove a immagini della natura ha dato un ritmo e una profondità che non si esaurisce nella pura piacevolezza formale.