La vita istruzioni per l’uso
Karl J. Volk, New York: Temo di non sapere chi sia Maurizio Cattelan. Mi piacerebbe sapere chi è.
Maurizio Cattelan: Un ambizioso pigrissimo.
Patrick Prince, San Diego: Com’era la tua vita prima di diventare un artista famoso?
MC: Ero un perditempo, occupatissimo a tirare a campare. Ci sono voluti trent’anni a capire che se ero un fallito non era colpa mia: bisognava reinventarsi un sistema, trovare una via d’uscita. Impostare delle regole che andassero bene a me, e fossero compatibili con gli altri. Che poi alla fine temo sia la cosa che cerchiamo di fare tutti.
I Santini del prete, Rosignano Marittimo (LI): Che differenza c’è tra un artista e un ferroviere (o due)?
MC: Non molta, si cerca sempre di arrivare in orario, e si dà la colpa a un guasto tecnico quando le cose non funzionano.
Joop van Allen, Amsterdam: Come si svolge la tua giornata?
MC: Sono abbastanza maniacale e ripetitivo. Mi libero di tutto ciò che mi dà fastidio. Cerco di non possedere nulla.
Dirk Böckler, Colonia: Cosa deve fare un artista per avere successo?
MC: Non ho ricette, anche perché a me sembra di non avere fatto niente di speciale. Cerca solo di diventare qualcun altro.
Casa dolce casa
Andrea Contin, Padova: Tito Livio, il grande storico padovano del periodo di Augusto, veniva tacciato dai suoi contemporanei di “patavinitas” in un’accezione che rimarcava la sua origine provinciale…
MC: La provincia è un angolo di mondo: quindi non è poi così male. A me gli angoli piacciono: mi sento più sicuro quando ho le spalle al muro.
Claudio Sichel, Caselle di Selvazzano (PD): Quanta influenza ha avuto sul suo percorso artistico la scena padovana degli anni Ottanta?
MC: Non credo tanto alle scene o ai gruppi. E poi a Padova facevo le serali da elettrotecnico: non c’era molto tempo per l’arte.
Martine Deny, Lussemburgo: Cosa ti ha portato all’arte?
MC: Ci sono arrivato per tentativi, e forse è stata semplicemente l’ultima spiaggia. Mi hanno accettato, con i miei dubbi e le mie paure, e credo che questo abbia fatto la differenza.
Tutti insieme appassionatamente
Alberto Magrin, Borghetto (LO): Pensi di aver mai avuto un figlio o meglio di aver mai realizzato un’opera d’arte?
MC: Figli non ne ho, ma ne ho partoriti tanti per scissione e duplicazione: è per questo forse che mi piacciono i pupazzi e gli autoritratti. Sono un piccolo esercito di bambini, ma con la testa da grandi.
Samuel Bryson, Londra: Già da molti anni in caso di apparizioni pubbliche sei solito mandare al tuo posto Massimiliano Gioni. Come è iniziato questo gioco dello sdoppiamento? E che significato gli attribuisci?
MC: Non ci siamo sdoppiati, solo moltiplicati. Per me non c’è nessun significato segreto o nessuna truffa dietro questo gesto: è solo un modo per risolvere un problema. Non so parlare in pubblico, e allora ci può andare qualcun altro che lo fa meglio. E poi anche Massimiliano, quando risponde, copia, ricicla, inventa: il fatto è che la noia mi fa una paura terribile. Sentire il proprio lavoro raccontato da qualcun altro è sempre una sorpresa. E credo che la gente abbia bisogno di dubbi e di meno certezze.
Sonja Wessel, Vienna: Chi sta rispondendo a queste domande? Tu? Qualcun altro? Massimiliano Gioni?
MC: La risposta è dentro di te, ed è sbagliata.
Sono come tu mi vuoi
Susan Kendzulak, Taipei: Perché?
MC: Perché non so fare altro.
Stéphane Ollivier, Francia: Secondo te, qual è l’obiettivo dell’arte?
MC: La parola obiettivo mi fa pensare al tiro al bersaglio. Non sono così interessato ad obiettivi e scopi: preferisco gli sbagli.
Carla Roncato, Milano: Cosa pensavi mentre inchiodavi le mani al bambino sul banco di scuola?
MC: Mi chiedevo cosa facesse più male: una matita infilzata in una mano o una bocciatura in terza elementare.
Roberto Scala, Massa Lubrense (NA): Perché non pensare oggi a un’opera su Bin Laden, Saddam Hussein o George W. Bush?
MC: A me gli individui non interessano granché. Mi interessano le paure e le isterie di massa. Con tutto rispetto, Bin Laden, Saddam o Bush sono ancora soltanto persone, non ancora simboli.
Bruno Pierozzi, Italia: Cosa sai fare a parte concettualizzare?
MC: Non sono neanche tanto bravo a concettualizzare. Mi interessano le immagini, e poco importa che siano mie o di qualcun altro.
Bettina Funcke, New York: Qual è stato il problema di copyright più curioso nel quale sei incappato durante la tua carriera di artista?
MC: Non ho mai avuto guai in realtà, anche perché non è che sia uno che ruba o copia sistematicamente. Alla fine siamo tutti parte dello stesso sistema digerente: ciascuno consuma le immagini e le idee come vuole e le risputa completamente trasformate e arricchite. Moltissime cose che ho fatto io sono state masticate e metabolizzate da altri: l’importante è assimilare la giusta dose di calorie. L’immagine è zero, la sete è tutto.
Helen Ruth, Minneapolis: A cosa serve l’arte?
MC: Se lo sapessi, farei il collezionista.
Carlo Piemonti, Gorizia: È possibile oggi l’arte senza marketing?
MC: E la vita senza la morte? Nulla è necessario, ma tutto torna utile.
Autumn Rooney, Brooklyn: C’è stato qualcuno, artista o non, che ti ha influenzato prima di affermarti nel mondo dell’arte?
MC: Cerco di imparare da tutti, davvero. Essere autodidatta forse è stato un vantaggio: non avevo debiti da pagare. Nessun maestro, e tutti mi sembravano compagni di classe.
Matthieu Laurette, Parigi: Qual è la tua opera d’arte preferita? E quale il tuo artista preferito?
MC: I nomi cambiano continuamente, è impossibile fare classifiche. Warhol è forse il nome che torna più spesso, anche se nelle sue mani persino morire sembrava chic.
La morte ti fa bella
Teresa Goltieri, Italia: Cosa pensi della morte? È una fine o un inizio?
MC: È un punto esclamativo. Dà un senso a tutto, ma distrugge la suspense.
Holly Golightly, New York: Per Blanchot la spoglia cadaverica manifesta ciò che si nasconde nella parola e nell’immagine: l’essere presente e nello stesso tempo altrove. È questo il tuo gioco tra realtà e finzione?
MC: I cadaveri, quelli veri, li ho maneggiati quando lavoravo all’obitorio: e sembravano così sordi, distanti. Forse è tutta colpa di quel lavoro, ma quando penso a una scultura me la immagino sempre così, lontana, in qualche modo già morta. E mi ha sempre sorpreso che la gente ridesse di alcune mie opere: forse davanti alla morte viene spontaneo reagire con una risata.
Jorge Ferrero, Barcellona: Il tuo lavoro artistico ha un’utilità sociale?
MC: Non ne ho idea, e non ho neanche troppe ambizioni di contribuire a un dialogo sull’umanità. Non mi trovo bene nel ruolo dell’eroe. Sono solo un altoparlante, o forse una spugna: non credo di avere mai fatto nulla di più provocatorio o spietato di ciò che vedo in giro tutti i giorni intorno a me.
Andrea Abbatangelo, Terni: Quali sono i principi e lo stato d’animo necessario per te, e per l’arte contemporanea in generale, per affrontare il nuovo millennio senza deluderne aspettative, sogni e nuove utopie?
MC: Al momento, mi sembra più che altro una questione di speranza e paura. Forse anche di modestia. E poi pane al pane e vino al vino. O forse, più semplicemente, tutti a pane e acqua.
Topylabrys: Da anni lavoro con i materiali plastici e con il cibo come materia, desidererei sapere se hai mai pensato di usare tale materia per fare arte?
MC: No, grazie, prendo solo un caffè.
L’uomo senza qualità
Genco Gülan, Istanbul: Come stai?
MC: Abbastanza stanco.
Katia Ceccarelli, Milano: Qual è l’ultimo regalo che ti sei fatto?
MC: Un’otturazione.
Martina Rapaggi, Londra: Ridi spesso da solo?
MC: No, non molto: da solo non so fare praticamente nulla. Mi sembra che le cose più interessanti succedano quando ci sono almeno due persone nella stessa stanza.
Brad Darling, Montreal: Cosa pensi degli zombi?
MC: Mi fanno solo arrabbiare quando vengono a cena senza essere stati invitati.
Andrew Eyman: Dove ti vedi oggi? E tra 20 anni? 50, 100 anni? È una tua meta l’essere ricordato e considerato un importante artista del tuo tempo?
MC: Essere ricordato anche solo fino alla fine dell’anno sarebbe già un buon risultato. Purtroppo non credo che durerà poi così tanto, e forse non è neanche importante: io cerco di dare un contributo al presente.
Angel Rock, Chicago: Che rapporto hai con i soldi?
MC: Con il denaro ho un rapporto strano, ne ho quasi paura, e mi sono sforzato di continuare a vivere come se non fosse cambiato nulla. Certo, i soldi sono uno straordinario mezzo di comunicazione, forse ancora più efficace della religione. Ma allora non conta niente quanti soldi hai: conta solo come e dove i soldi si spostano.
Mary Houston, Santa Monica: Recentemente La ballata di Trotsky è stata battuta all’asta per due milioni di dollari. Come ci si sente nei panni di un artista i cui pezzi valgono migliaia di dollari, a distanza di pochi anni da quando ti era difficile vendere per pochi dollari? Da Cenerentola a principessa?
MC: A dire il vero, continuo a girare in bicicletta, senza cavallo né carrozza. Certo, senti una pressione diversa, un’altra responsabilità. Se non altro perché i soldi non è che aprano più porte o rendano certe sfide più facili: anzi, rischiano di intrappolarti, di renderti ripetitivo. È per questo che ho cercato di non cambiare niente nel modo in cui vivo: non sopporto le distrazioni.
Ruben Perrel, New York: Quanto guadagni?
MC: Sarebbe forse più interessante sapere quanto spendo, che poi è pochissimo. Ma sarà per un’altra volta.
Juan Escovedo, Granada: Quale dei commenti critici sul tuo lavoro hai odiato di più?
MC: Sono un po’ stanco di quelli che parlano solo di soldi o che dicono che sono un buffone o un bluff. Per qualche ragione, sembra impossibile credere che stia solo cercando di dire ciò che penso. Ma alla fine va bene così: se non altro, di tanto in tanto, posso dire qualcosa di serio, senza che nessuno se ne accorga.
Cécile Bernard, Parigi: In un’intervista a Vanessa Beecroft simile a questa, un lettore chiedeva: “Non credi che Flash Art ti abbia dato uno spazio eccessivo?”. Lei ha risposto: “E Cattelan allora?”. Allora: credi che Flash Art ti abbia dato uno spazio eccessivo?
MC: Probabilmente sì. Io mi merito al massimo un monolocale, e invece Flash Art mi ha fatto l’attico. Ma prima o poi arriva lo sfratto.
Stephen von Land, Darmstadt: Qual è il lavoro tuo a cui tieni di più o quello che ritieni il più riuscito?
MC: Ogni volta è una sorpresa, anche perché io non ci metto mano: le opere le realizza sempre qualcun altro. Quindi non è che mi affezioni particolarmente a un pezzo. Certi lavori servono in un preciso momento, altri crescono a poco a poco e se sei fortunato durano più a lungo. Più che altro mi piace vedere come le opere cambino significato in base a ciò che succede intorno a loro: è come se avessero tante vite.
Jenniffer Benavente, New York: Il tuo lavoro alla Biennale del Whitney era nascosto, soltanto una didascalia ne indicava la presenza al di sotto del pavimento della galleria. Di solito, però, i tuoi lavori sono visibilissimi e diretti. Puoi spiegare la decisione di questa tua anti-dichiarazione?
MC: La parola “mostra” mi ha sempre dato fastidio: è così esibizionista e sfacciata. Forse è per questo che le mie opere, anche quelle più frontali, di solito le trovi negli angoli o appese al soffitto, sempre scentrate. Mi piace perdere l’equilibrio, cadere, e magari anche scomparire.
Date al diavolo un bimbo per cena
Giancarlo Politi, Milano: Io avrei auspicato che il signor Franco De Benedetto — maldestro vendicatore dell’arte, novello esponente di un Ku Klux Klan dell’intolleranza culturale odierna —, cadendo dall’albero dei tuoi meravigliosi angeli sopra Milano, si fosse sfracellato a terra, o meglio sul dimenticato monumento al Risorgimento milanese che si trovava proprio sotto l’albero. Quale migliore occasione per un ubriacone in vena di esibizionismi di diventare un martire dell’arte di oggi? La storia è piena di santi, loro malgrado! In questo momento di grandi emozioni religiose e politiche, con adepti che urlano e si dilaniano, un santo nell’arte ci sarebbe stato proprio bene. Pensa quale folla di artisti frustrati, critici denutriti, cittadini benpensanti, leghisti sudati si sarebbe raccolta, in nome della giustizia, dell’arte e della religione, dietro un funerale di Stato meneghino, a piangere e santificare un ubriacone. Altro che festa dell’Unità! Sarebbe stato il segno del tempo e della storia. Insomma abbiamo perduto una parte dello spettacolo che la tua opera meritava e forse auspicava. Non credi?
MC: Ma a me i funerali non piacciono proprio, e poi al momento il mondo è pieno di martiri, che fanno cose ben peggiori. Forse è il momento di fare meno rumore: i bambini sull’albero erano così taciturni, a dispetto del traffico tutt’intorno. Magari bisogna ripartire da lì: non ti puoi certo tagliare un orecchio ogni giorno, essere sempre un eroe o un esibizionista. Il silenzio è d’oro. E a caval donato non si guarda in bocca.
Sara Micol Viscardi, Milano: Davvero l’installazione in piazza XXIV Maggio aveva l’orchestrato fine di scandalizzare per aumentare la tua fama di enfant terrible?
MC: No, per nulla. Anzi, forse era solo un modo per prendere una posizione e dire qualcosa di chiaro su ciò che stiamo facendo al nostro futuro. Era una crocifissione, forse un sacrificio rituale: non doveva portare nuova attenzione su di me, ma solo sul mondo là fuori.
Luciano Muscu, Italia: Non sarebbe stato meglio spiegare alla cittadinanza le motivazioni che ti hanno indotto a realizzare la tua opera?
MC: Dare spiegazioni o scrivere note a piè di pagina non è il mio mestiere. È un compito che spetta agli spettatori e alla critica. E poi in realtà volevo che l’opera non sembrasse solo mia, non sono io che ho appeso i bambini agli alberi: noi tutti stiamo facendo molto peggio, in maniera diretta o per interposta persona.
David Spike, Miami: Ti aspettavi una reazione del genere?
MC: La discussione e il dibattito me li aspettavo. Che diventasse anche argomento di un confronto politico forse no, ma credo sia stato davvero interessante: l’arte ha anche questo compito, deve diventare un catalizzatore di opinioni diverse, una cartina al tornasole delle nostre paranoie. Soprattutto mi ha colpito che un’opera d’arte potesse aprire un confronto sulla libertà di espressione: viviamo in un momento in cui i diritti vengono dati per scontati, e spesso dimenticati. Di tanto in tanto, serve fermarsi e provare a discuterne.
Cristiana Ricci, Bari: Al di là del senso che intendevi dare alla tua installazione, non trovi che da parte tua e dell’Amministrazione Comunale si sia trattato di un gesto di colonialismo culturale? Infatti, soprattutto la gente che abitava lì, non ha gradito. Tu come reagiresti se venissero a casa tua e ti appendessero alle pareti qualcosa che detesti?
MC: Prima di tutto, non ho invaso uno spazio privato, ma ho agito in un luogo pubblico. Inoltre non ho fatto nulla di illegale, e nulla di più sconveniente di molte altre cose che ci circondano e sono già sotto gli occhi di tutti. Senza contare poi che, per qualche ragione, dopo la rimozione della scultura, a nessuno è sembrato indecente che l’opera venisse riprodotta e trasmessa su ogni giornale o televisione. Questo è un fatto piuttosto incredibile: un’immagine che secondo alcuni era intollerabile in una piazza, diventa accettabile sulle pagine di un giornale o durante una trasmissione televisiva. Infine si è tanto parlato di buon gusto, ma il gusto è roba da gelatai. L’arte, come la vita, travalica il gusto, perché aspira alla verità, anche quando dice bugie.
Katharina Schreyer, Zurigo: Dopo quanto successo con i bambini impiccati, Milano ti ama o ti odia?
MC: Non credo nelle generalizzazioni: a Milano c’è chi ha odiato l’opera e chi vorrebbe continuare a vederla in piazza XXIV Maggio. E poi, prima di appendere i bambini, ci sono stati mesi e mesi di incontri, discussioni e permessi: è da gennaio che la Fondazione Trussardi lavorava al progetto. E abbiamo incontrato tantissime persone che credono ancora che l’arte possa dirci qualcosa sul mondo.
Nicola Dimitri, Modena: È possibile che Franco De Benedetto possa essere condannato per quello che ha fatto? Non sarebbe il caso di perdonarlo, visto che ha enfatizzato nel modo migliore la sua opera?
MC: A me interessa lavorare sul collettivo, mai sugli individui: non credo che De Benedetto abbia enfatizzato granché rivendicando come privato uno spazio che in realtà era pubblico.
Louis Chang, Los Angeles: In due diverse occasioni le tue sculture sono state aggredite. Come ci si sente in compagnia di nomi illustri come Malevich, Michelangelo, Mondrian, Rembrandt e Barnett Newman?
MC: Da quando c’è arte, c’è iconoclastia: le immagini sono sempre vittime di attacchi, a volte simbolici, altre volte fisici. Invece io sono affetto da una forma acuta di iconofilia: se non vedo almeno cento immagini in un giorno, mi si copre la faccia di bubboni.
Angelo Errico: La società che ha varcato le soglie del 2000 è matura emotivamente più di quella che assisteva sulla pubblica piazza i tagli alla ghigliottina?
MC: Non mi sembra sia cambiato granché. Una volta le esecuzioni le guardavi in piazza, oggi in TV.