Ho sempre pensato a Como come a una città che vive perennemente dentro un romanzo, che esiste nella dimensione di “Quel ramo del lago di Como…”. Mi piace pensare che lo sarà ancora per diverse generazioni, o almeno lo è per la Gen Z, vuoi per questione di status sociale tuttora evidente, vuoi per la formazione scolastica italiana per la quale il romanzo è ancora fondamentale (o almeno lo spero). La prima volta che sono stata a Como ricordo ancora l’accesso alla città dalla stazione, diametralmente diverso da qualsiasi “ingresso” a una città. Un microcosmo, che implode su se stesso in un meccanismo di autopreservazione. Como è soprattutto nota per il tessile e il suo legame con l’arte è rappresentato dalla Fondazione Antonio Ratti. Nata con lo scopo di conservare la collezione di tessuti antichi di Antonio Ratti – con oltre 30.000 pezzi e una biblioteca aperta al pubblico con più di 7800 volumi specializzati in tessuti, moda, arti visive e artigianato – ma anche sostenendo e promuovendo la ricerca e la sperimentazione nella cultura e nelle arti contemporanee, la fondazione si è imposta sulla città come esempio e modello funzionale di istituzione radicata nel luogo con un imprinting internazionale. Il programma annuale Laboratorio di Ricerca degli Artisti (CSAV) avviato da Annie Ratti nel 1995, permette a giovani artisti internazionali di approfondire le loro pratiche attraverso la sperimentazione e il dialogo con figure seminali della scena artistica contemporanea. Altre realtà, come MINIARTEXTIL – una fondazione che promuove la produzione di minitessili, piccole opere d’arte di 20 cm realizzate con tecniche o materiali tessili – o il Rockefeller Foundation Bellagio Center – una fondazione che offre ad accademici, artisti, politici e professionisti un programma di residenze volto a sostenere la produzione di nuove conoscenze e di opere d’arte con uno sguardo ai problemi globali e sociali –, contribuiscono a rafforzare il volto di una città che risponde a standard e bisogni ben precisi. Una proposta diversa che rompe l’equilibrio marcatamente borghese dell’approccio all’arte arriva proprio dalla Gen Z, da una Como contemporanea.
CoCo – ComoContemporanea
Eleonora Milani: Como è una città legata un immaginario borghese, plasmato profondamente da una certa narrativa, e se da un lato sembrerà banale dall’altro non lo è per niente. Deve essere complesso provare a pensare a un altro volto di Como, anche solo immaginare di creare delle frizioni. In questa fissità di visione a maggio 2021 nasce CoCo, letteralmente una novità in città. Cosa pensate di questa “fissità”?
Marco Brugnera: È uno degli elementi che abbiamo subito preso in considerazione, ci siamo chiesti a che tipo di pubblico e di territorio ci saremmo affacciati, ma anche con quale cultura avremmo dialogato. Como agli inizi del ‘900 è stata culla del razionalismo, accoglieva le espressioni anche più alte, nel senso di verticalità di quanto accadeva. È effettivamente una città rimasta chiusa in se stessa, se pensiamo alla sua storia come “città murata”, le mura romane occupano tre lati del centro storico. Como vive di tante spinte che dall’esterno ritornano inevitabilmente verso il lago, che è la fonte di guadagno più importante e ad oggi è un mercato saturo, a differenza di Lecco pur essendo soltanto dall’altra parte del lago. Negli anni Como è diventata una città di ricchezza che si accumula su se stessa, ed è un tipo di ricchezza diversa dalle città europee.
EM: CoCo comunica al pubblico attraverso un account Instagram, irriverente, ironico, sornione. Ma chi è CoCo?
MB: CoCo sono tanti individui. Al momento siamo in sei, Bianca Brugnera, io, Elisa Diaferia, Eva Vallania, Vittoria Toscana e Giulia Wetter. Il progetto ha sede nell’ex Tintostamperia Val Mulini, rimasta chiusa per diversi decenni, un po’ come tutte le attività del settore che si sono spostate in Cina dopo gli anni ’80. Appena abbiamo lanciato CoCo ci siamo sentiti dire “Una cosa così a Como…!!!” La vibe era questa… tra incredulità e stupore.
Eva Vallania: Sembrava quasi un evento da meme, un po’ post-ironico. Il fatto che lavoriamo a Como, e in una certa maniera, è spiazzante per i locali. Alcuni di noi sono di Como, mentre altri vivono a Milano, quindi in CoCo convivono più visioni, che facciamo confluire nella pratica del ri-uso, di tutto ciò che era presente nello spazio fino a quando lo abbiamo occupato con il progetto. C’è molto materiale tessile, come si può facilmente immaginare, ma questo non ci vincola né ci forza a perseguire un’estetica. Lo sguardo di CoCo vuole/deve andare oltre i meccanismi della città, anche oltre Milano.
EM: Dove avete trovato il collante, intendo dire siete quasi tutti artisti con velleità curatoriali non espressamente dichiarate. Dove si incontrano tutte le teste che restituiscono qualcosa a CoCo?
MB: Al momento siamo cinque artisti, Bianca si occupa invece della gestione del gruppo, prima che arrivasse lavoravamo in modo piuttosto disorganizzato. Avendo un background in comunicazione e media ha dato ordine alle nostre progettualità. Rispetto al nostro nucleo attuale abbiamo però sempre ramificato, ampliando il network attorno a CoCo, che almeno per il momento si alimenta con i nostri sacrifici. C’è la voglia di fare le cose insieme, di dire determinate cose in una struttura che stiamo cercando di leggere in base a ciò che ha lasciato.
EM: Non mi piace etichettare necessariamente qualcosa, ma inevitabilmente per definirsi c’è bisogno di dare un nome, anche temporaneo, alle cose. Siete un artists space, una comune… cosa?
EV: A volte diventa necessario farlo. Anche se ci piace lavorare in maniera anarchica a un certo punto abbiamo avuto bisogno di direttrici su cui muoverci. Direi che siamo un collettivo che lavora in questo spazio al quale siamo legati ma nel quale non mettiamo radici. Lavoriamo sulla rivitalizzazione di ciò che ci circonda, CoCo è interessato a progetti che riguardano la riqualificazione, il recupero, tematiche strette alla nostra generazione con un’estetica che ci accomuna. Gli eventi realizzati fino ad ora sono il risultato di tante mani e ognuno ha una sua personalità con cui contribuisce, noi troviamo il modo poi di farle convivere.
EM: Marco, tu che sei di Como, come lavori con questa “assenza” di sistema?
MB: Lavoro benissimo (ha!). Como è una bolla, non c’è la pressione delle cose che succedono una dietro l’altra, delle persone che ti trovi a incontrare forzatamente alle inaugurazioni. Ho uno studio al centro città e soprattutto nel periodo del lockdown non c’era nessuno, non c’erano opening, non c’era niente. Se vuoi passare da me in studio devi avvisare, in un certo senso quindi si vive il tempo e l’incontro in maniera diversa. Abbiamo preso lo spazio dopo un tour con il responsabile di Consorzio Abitare, una cooperativa che si occupa di rigenerazione urbana. Senza una vera e propria ufficializzazione abbiamo abitato quello spazio, presidiandolo, grazie alla fiducia di chi gestisce l’immobile. Lo spazio di fatto mette in luce i lati oscuri della Como borghese di cui si parlava all’inizio.
EM: Suona come un ossimoro, il collettivo “giovane” che vuole cambiare le cose da un lato e la bolla borghese dall’altro. Sono due forze che a fatica stanno insieme, e o trovano una quadra o restano in un eterno in-between, un collante mancato che non riesce a connettersi alla città e che i suoi abitanti non comprendono. Come convivete con questo?
MB: I prossimi mesi serviranno proprio a trovare la quadra in questa cosa. Il primo anno di lavoro siamo stati percepiti da un pubblico sì positivo ma che non capiva il perché ci sostenesse. Adesso siamo più lucidi, più consapevoli di questa disfunzione.
EV: Il lavoro è stato graduale e stiamo cercando di svilupparlo al meglio. La fiducia che ci è arrivata dall’esterno è a tratti scioccante, questa dicotomia che sembra non funzionare a volte funziona proprio sulla base della fiducia. Il borghese comasco che visita CoCo è ancora scioccato ma negli ultimi mesi sta crescendo un pubblico giovanissimo di Como e grazie a loro il nostro lavoro diventa educativo.
EM: La dimensione dello spazio in molti casi influenza tantissimo la pratica di un artista, nel vostro caso di un collettivo. Ci sono esempi di collettivi o progetti ai quali vi siete ispirati?
EV: Quello che mi viene in mente non riguarda tanto l’arte ma più alcuni aspetti sociali. Penso a gruppi di connessione su app come Discord, dove possiamo dialogare su tanti livelli e temi.
L’arte ci riguarda ma non totalmente. Durante la pandemia siamo riusciti a fare delle azioni perché abbiamo queste “aperture” all’interno del collettivo stesso. Ad esempio attraverso i reel sul nostro account Instagram inglobiamo alcune risposte dalla nostra community. Adesso c’è tanta musica e scrittura nell’arte, tanta performance, e questo è in linea con il modo con cui comunichiamo.
Noi parliamo con TikTok, con i reel, e queste modalità ci distinguono, plasmando il nostro interesse. Siamo in uno spazio fisico ma cerchiamo di creare anche uno spazio empatico.
MB: Più che riferimenti propri al mondo dell’arte mi piace vederci come un’etichetta discografica. Come una forma di aggregazione vicina al mondo rap, che da un punto di vista comunicativo mi interessa di più. Ogni evento è come il lancio di un album, e il momento del drop è fondamentale.
Per la mostra che abbiamo inaugurato lo scorso novembre abbiamo girato un video in cui saltiamo dal tetto di CoCo con la sigla dell’Isola dei Famosi…
EM: Avete un’estetica molto camp…
MB: Sì totalmente, veniamo dal mondo queer e in questo senso siamo dei borghesi al contrario, per noi questo è daily life. Abbiamo network diversi già in partenza e unirli rientra nell’idea di gruppo. Assomigliamo a un videogame in cui ognuno ha un potere, un cartone animato in cui associ la “Sailor Moon” al suo pianeta. Insieme siamo dei supereroi, anche se poi ognuno torna alla sua narrazione.