Percorrendo velocemente gli enormi spazi della Karlin Hall ci rendiamo subito conto delle caratteristiche di questa rassegna. Ideata e diretta da Giancarlo Politi e Helena Kontova, già nelle due precedenti edizioni ha costituito un punto d’osservazione, e, al contempo, un trampolino di lancio, per situazioni artistiche fino allora ignorate o considerate marginali, ma che nel giro di questi pochi anni hanno acquistato un rilievo e un rispetto internazionale. Facendo il paragone con le sovraccariche, costose e paludate biennali a cui siamo abituati, si respira sicuramente un’aria diversa, e va dato atto agli organizzatori di essere riusciti a mettere in piedi, usufruendo di un budget limitato, una manifestazione articolata e agile allo stesso tempo, che prende luce al suo interno dalle antiche magie e dai nuovi fermenti che animano la città di Praga.
Andando “Dal genius loci al genius globi, e viceversa”, come ci viene indicato in apertura nel catalogo, prende vita un percorso di relazioni multiple che si snoda attraverso corsie delimitate da pareti divisorie, ad altezza d’occhio, mentre sopra di noi si espande l’enorme volume della ex fabbrica di locomotive. Lo spazio resta così aperto, e questo si avverte sia come sensazione fisica che come riflessione valutativa: nonostante la rassegna sia divisa in più di venti sezioni, questa eterogeneità si rimanda echi e corrispondenze, mentre la prospettiva, geografica e storica, ora si allarga ora si focalizza su realtà più circoscritte. Se due sono i motivi guida, la vitalità della pittura e l’arte come catalizzatore sociale, questi non mancano di interagire e sconfinare l’uno nell’altro, mentre l’asse sincronico si interseca con quello diacronico, e lo zoom sull’Europa centro-orientale si allarga in inquadrature grandangolari sul panorama internazionale.
Prima di iniziare il nostro percorso è doveroso ricordare la presenza di eccellenti special guests, una triade composta da Marina Abramovic, Vanessa Beecroft e Shirin Neshat da un lato e Carla Accardi dall’altro, a cura di Helena Kontova.
La prima sezione che ci viene incontro dopo l’entrata è “Storytellers”, a cura di Gea Politi e Sonia Rosso, con artisti del calibro di Jeremy Deller e Jonathan Monk. Entriamo quindi in contatto con le nuove dimensioni della pittura internazionale, vagliate in “Expanded Painting 2”, a cura di Giancarlo Politi e Helena Kontova, che comprende anche declinazioni fredde, come nel caso limite di Igor Eskinja, che usa mezzi extra-pittorici e che culmina negli impasti dalle risonanze metalliche di Adrian Ghenie. Questa tematica continua, declinata tutta al femminile, in “Fuck Off Macho Painter”, a cura di Andreas Schlaegel, in cui spiccano i dipinti, arricchiti da inserti e intrecci cartacei, di Kirstine Roepstorff.
In “Der Prozess”, a cura di Marco Scotini, dove sono indagati i fermenti politici ed esistenziali relativi ai paesi dell’est Europa, la tematica di impegno sociale è svolta in un allestimento esemplare per eleganza e misura formale; qui si mette in evidenza soprattutto Martin Zet con Passage, una sorta di piastrellatura del pavimento eseguita con migliaia di libri, allineati in modo da formare una libreria orizzontale calpestabile.
“What Went Wrong”, a cura di Andrea Bellini, mette a confronto con il background culturale di Praga l’esuberanza di quattro artisti californiani, mentre “Alias/Aliases” è una sorta di “capriccio” incentrato sul tema delle identità virtuali, a cominciare, forse, da quella della curatrice, Virginia Hackermann.
Vi è poi una serie di sezioni dove l’analisi si concentra sulle diverse realtà nazionali e geografiche dell’asse centro-orientale dell’Europa. “Glocal Outsiders”, a cura di Jiri David e Vasil Artamonov, fa il punto sulla giovane arte ceca, nella quale si segnalano gli intriganti interventi di Marek Meduna e Petr Pisarik, mentre “Lemon Bar”, a cura di Juraj Carny e Lydia Pribisova, ci presenta le ultime leve dell’arte slovacca. In “Glocal Girls”, a cura di Vladimir Birgus, dove sono di scena le giovani fotografe ceche e slovacche, si fa notare Sona Goldova, nei cui lavori oggetti di quotidiana banalità si trasfigurano in stilizzati paesaggi montani. “Schengen: from Kosovo to Kaliningrad”, a cura di Aaron Moulton, è un viaggio dal sud al nord del centro Europa. “Monument to Trasformation. Fragment #5”, a cura di Vit Havranek e Zbynek Baladran, si misura con la possibilità di documentare interdisciplinarmente il cambiamento avvenuto nell’Europa centrale dopo la caduta del Muro. “Baltic Mythologies”, a cura di Laima Kreivyte e Luigi Fassi, esplora i territori di Estonia, Lettonia e Lituania. A far luce sulla situazione di fermento creativo in Romania, ci viene proposta, a cura di Simona Nastac, “A Romanian Overview”, mentre “Personal Politics”, a cura di Gergely Laszlo e Kati Simon, indaga gli sviluppi dell’arte contemporanea in Ungheria.
“Existential Misticism”, a cura di Dadja Altenburg-Kohl, prende in esame il lavoro di quattro artisti cechi di differenti generazioni, mentre “Refusing Exclusion”, a cura di James Colman, ci presenta artisti la cui pratica acquista forza e significato dall’appartenenza a un determinato gruppo familiare ed etnico.
Singolare la presenza di “BizArt Travel Agency”, a cura di Davide Quadrio e Xu Zhen: gettando un ponte ancora più a Oriente, qui si pubblicizza un progetto incentrato sull’organizzazione di viaggi di aggiornamento culturale aventi come destinazione la Cina. Una finestra sul passato, con rivelazioni sorprendenti, si apre nelle sezioni più propriamente dedicate a una ricognizione storica delle aree locali: “Czech Minimalism”, a cura di Helena Kontova e Martin Dostal, esamina gli sviluppi dell’arte ceca negli anni Sessanta e Settanta; “Between Concept and Action”, a cura di Juraj Carny, è una carrellata sugli esiti delle ricerche concettuali e comportamentali in Slovacchia tra il 1965 e il 1976; “Kinetic Art in Eastern Europe”, a cura di Getulio Alviani, allarga la prospettiva agli altri paesi allora sottoposti all’influenza sovietica. Riemergono in questi settori figure di grande rilievo, meritevoli di occupare un ruolo importante nella storia dell’arte europea del XX secolo: come Stanislav Kolibal e Karel Malich, autori di strutture dal fascino sintetico e scarno, o come Pavel Rudolf, nei cui dipinti l’eccesso geometrico sembra dar vita a un’ipotesi organica.
Per concludere, con “Open Space”, a cura di Giancarlo Politi, Helena Kontova, Juraj Carny e Jiri David, una sorta di palestra culturale che offre una chance di visibilità alle giovani promesse del panorama ceco e slovacco, ci si sporge in una direzione ulteriore, nell’intento di mantenere aperta una finestra anche sul futuro.