Peter Nagy: In che modo questi nuovi lavori prendono le mosse o elaborano quelli della generazione Pictures degli “appropriatori” (intendo il gruppo associato in precedenza con Metro Pictures: Sherry Levine, Richard Prince, Trop Brauntuch, ecc.)? Haim, vuoi rispondere tu?
Haim Steinbach: È importante prima fare un po’ di storia. Nel 1979 presentai all’Artists’ Space l’installazione Display n. 7, che consisteva in una disposizione di oggetti su varie mensole in giro per la galleria, spaziando da un bollitore high-tech appoggiato a una scatola murale minimal alle riviste illustrate esposte sul tavolo della reception. La maggior parte degli artisti Pictures ha copiato immagini; io ho usato degli oggetti. Quest’arte pone il problema della posizione del soggetto rispetto all’immagine/oggetto, nella consapevolezza del modo in cui i media trasformano la nostra visione della realtà in senso illustrativo. I media ci hanno reso dei turisti e dei voyeurs proiettati al di fuori della nostra esperienza. Gli artisti Pictures discutevano la loro posizione di produttori d’arte in relazione al bagaglio mitico della soggettività e individualità. In questo senso c’è stato un cambiamento nell’attività del nuovo gruppo di artisti nell’interesse rinnovato nel localizzare il piacere ricavato dalle merci, che includono ciò che chiamiamo opere d’arte. Vi è un senso più forte della propria complicità con la produzione di desiderio — ciò che chiamiamo oggetti belli e seducenti — rispetto al porsi al di fuori di esso. In tal senso sta cambiando anche l’idea della criticità in arte.
Ashley Bickerton: Se dovessimo tracciare una linea differenziale correrebbe tra il programma originale, com’era delineato da critici come Douglas Crimp e Craig Owens, e le tendenze che ora iniziano a emergere con gli artisti più giovani. Una parola chiave in questo momento è “verità”: il gruppo Pictures inseguiva un esaurimento del processo di corruzione della verità, mentre a questo punto stiamo utilizzando quel processo di corruzione come forma poetica. Per mezzo di scelte tattili e della presentazione, l’oggetto artistico è posto ora in una relazione discorsiva col più ampio scenario della realtà politica e sociale di cui fa parte, in un consapevole dialogo col clima sociale, politico e intellettuale dell’epoca in cui opera, e col processo della sua ricezione. Molte opere prodotte dal gruppo Pictures erano decostruttive e rivolte a un fine nel loro didatticismo spettacolare. Era un approccio freddo a una cultura calda, mentre le nuove opere hanno più a che fare con l’informazione in generale, con la scissione tra informazione e significati presunti, e in particolare col modo in cui l’elaborazione formale dell’informazione incide sui suoi possibili significati.
PN: Così avete appreso alcune strategie della generazione Pictures.
AB: Come da molte fonti storico-artistiche. Penso che adesso, da questa posizione di forza e con il cumulo di informazioni contraddittorie di cui siamo stati testimoni nel periodo post-bellico, l’andirivieni degli “ismi” più diversi, possiamo fare un passo indietro e far implodere una varietà di strategie ed epistemologie diverse in un oggetto artistico totale, che riesce a parlare sia delle categorie proprie che in generale. Ciò sarebbe in opposizione all’operatività programmatica della pratica Pictures.
PN: Fino a che punto concetti tratti dalla politica di sinistra o di sovversione sono parte integrante delle opere?
Philip Taaffe: Il miglior modo di rispondere è presentare qualcosa che ho scritto poco tempo fa, una specie di diagramma aforistico nella forma di un immaginario libro di bordo. Il testo si rifà liberamente al caso della HMS Bounty, e s’intitola Mutiny within Bounty (Ammutinamento all’interno del Bounty). Questa è l’annotazione del primo giorno di diario di bordo: “La nostra condizione ci porta verso un moderato conflitto. Non ci piace e non intendiamo sopportarlo oltre. Sappiamo come guidare questa nave e stiamo prendendo il comando. Il nostro viaggio non deve servire a nulla meno che a stabilire il paradiso in Terra. Siamo stati maltrattati dalla nostra cultura, la sovrabbondanza non ci porta da nessuna parte e ci rifiutiamo di permettere che questa situazione venga perpetuata. Non compriamo e non vendiamo nulla. Stiamo mandando i nostri oppressori alla deriva su una zattera di bronzo, e poi andremo lontano, dove potremo celebrare il nostro nuovo destino in pace e libertà, dove i nostri soli possedimenti saranno le nostre menti, i nostri cuori e qualsiasi cosa potremo trovarvi”. Il secondo giorno prosegue: “Tutti sembrano convenire che la nostra destinazione vicina appare paurosamente scoperta. Potremmo dover cercare qualche altro luogo”.
PN: E qual è questa meta vicina?
PT: Il nostro futuro, il punto d’arrivo dei nostri procedimenti, il luogo in cui ci troviamo in movimento.
Peter Halley: Credo che il pensiero marxista debba entrare a far parte del nostro pensiero, ma io mi identifico più con una posizione di Nuova Sinistra, in cui una posizione “esistenziale” viene integrata da concetti marxisti. Aggiungerei poi figure come McLuhan, anch’esse implicate in una specie di pensiero politico. Ma credo che oggi nozioni come “realtà” e “politica” sono datate. Ci troviamo in una situazione post-politica. Come artisti si finisce con l’aspirare a creare un oggetto d’arte che sia un oggetto situazionista, in e di se stesso, nel modo in cui è messo insieme. Più che di problemi d’attualità, un’opera deve discutere di questioni critiche; i problemi politici del giorno coinvolgono le persone in quanto individui, ma in un’opera sono le questioni strutturali dietro i problemi d’attualità a essere importanti. Per me la componente maggiormente politica in un’opera è l’idea che sia concepita in modo che chiunque possa farla. Questo ho sempre ammirato in Warhol o in Stella. Inoltre, mi interessano i problemi delle classi medie suburbane nei paesi postindustriali. Non voglio dire che ciò che accade per altre classi in condizioni anche peggiori non sia d’interesse, ma quel genere di situazioni mi sembra più definito. È proprio l’ambiguità e quella sconosciuta qualità della vita nella suddivisione che mi sembra valga la pena prendere in esame.
PN: Nel mio caso, come in quello di Meyer Vaisman, l’attività di gallerista ha un vantaggio situazionale simile. Mi sembra che in ogni vostra opera ci siano “al lavoro” due dialettiche separate: l’opera piace a un pubblico composto da una parte da artisti e intellettuali, e dall’altra da collezionisti e mercanti. Quanto l’artista è consapevole di rivolgersi a pubblici così distanti?
HS: Quanto a me, passo molto tempo facendo compere e trovo che i prodotti siano spesso rivolti a un pubblico generico, di cui io stesso faccio parte. Da una parte c’è un contesto artistico dal quale provengo e per il quale mi chiedo cosa significhi presentare un oggetto assieme a un altro oggetto o forma; dall’altra uso disposizioni di oggetti che sono già predisposti per un pubblico generico.
Jeff Koons: A me interessa raggiungere un pubblico generico riuscendo al tempo stesso a mantenere l’opera a livelli elevati. Chiunque può arrivare alle mie opere provenendo da un livello medio di cultura. Gli oggetti e le immagini connessi al corpo dell’opera hanno altri contesti, e lo spettatore può ragionare all’interno di un vocabolario artistico piuttosto che personale o sensazionalistico. Per questo cerco di spingere le persone fino alla porta, se poi vogliono andare più in là tanto meglio; ma cerco di escludere il vocabolario artistico “alto”.
PN: I primi lavori di Sherrie Levine avevano un intento strumentale nello sviluppare questo lato, perché il concettuale dei primi anni Settanta scartava le idee della bellezza e della seduzione, e ora abbiamo a che fare con opere molto intellettuali e al tempo stesso seducenti!
AB: Le opere di Sherrie avevano una valenza strumentale nel trattare l’oggetto artistico in tutte le stazioni della sua esistenza, dalla spedizione al museo, al modo in cui veniva assorbito dai media. Le questioni riguardanti la proprietà erano molto importanti. Sherrie aiutava a creare una consapevolezza di significati sociali e politici che esistono al di là della presenza pittorica dell’opera.
PN: Mi piacerebbe che parlaste del rapporto della vostra opera col Surrealismo storico, con la storia dell’assemblage e del ready made.
JK: Il mio lavoro è all’opposto di queste esperienze. Sento di venir fuori dalla tradizione di Duchamp, che esponeva il ready made nella piena indifferenza verso di esso; il mio sviluppo personale è stato quello di mantenere l’integrità dell’oggetto. Se gli assemblage surrealisti manipolavano l’integrità dell’oggetto io la conservo. Gli “Equilibrium Tanks” conservano l’integrità di un serbatoio di uso commerciale, dell’acqua distillata e di una palla da basket. Abbiamo una specie di assemblage, ma gli oggetti non sono completamente uniti l’uno con l’altro. Non che escluda la possibilità di trasformare il contenuto dell’oggetto, sono anzi molto interessato a trasformarne il contenuto così da rivelare certi tratti della sua “personalità” che, pur essendoci sempre stati, hanno scelto di non mostrarsi fino ad ora. Un termine d’importanza vitale nel procedere del mio pensiero è “contingenza”. Attraverso questa successione di contingenze i discorsi vengono ricomposti nell’oggetto stesso, promuovendo la consapevolezza che tutti i significati sono contingenti rispetto a qualche altro significato, dove i significati vengono fatti propri per la loro relazione al più ampio schema sociale in cui sono inflitti.
HS: Nella mia opera c’è fondamentalmente un tentativo di presentare questi oggetti. Duchamp sceglieva tipi di oggetti, spesso banali, che si riferivano ad attività lontane dal luogo sacro e sacralizzante dell’opera d’arte. Ma, con una specie di procedimento inverso, c’era una gerarchia non solo dell’arte ma del problema della posizione dell’artista rispetto all’arte. Non è facile, perché se un’opera possiede integrità alla fine conquista un’autorità che ritorna poi sull’artista. Comunque il referente nelle mie opere ha molto a che fare con la partecipazione al piacere che deriva da oggetti facilmente accessibili e che provengono da scale di valori diverse.
PN: Mentre i primi lavori fotografici di Sherrie possono rappresentare il grado zero del collage, per i lavori di Haim e Jeff potremmo parlare di un compendio dell’assemblage come esiste oggi, proprio perché l’intervento manipolatorio dell’artista è così ristretto. Ciò conferma la mia idea che nessuna rivoluzione ha avuto tanto successo quanto quella dei surrealisti: viviamo oggi in un mondo obbligato al collage e in una realtà onirica. E che rapporto potremmo dire esiste tra l’arte nuova e l’astrazione geometrica dei costruttivisti e dei minimalisti?
Sherrie Levine: Vorrei leggervi due esempi francesi. Il primo: “Arrivata in cima alla collina, Félicité vide le luci del paese che scintillavano nella notte come innumerevoli stelle; lontano il mare si stendeva indistinto nell’oscurità. Allora una specie di debolezza la fece sostare; e la miseria della sua infanzia, la delusione del primo amore, la partenza del nipote, la morte di Virginie, come il flusso della marea, tutto le ritornò insieme alla memoria e le salì alla gola fino a soffocarla. Poi volle parlare al capitano del battello e senza dirgli cosa conteneva il pacco, gli fece un mondo di raccomandazioni. L’imbalsamatore tenne il pappagallo per molto tempo, lo prometteva sempre per la settimana seguente; dopo sei mesi annunziò che era partita una cassa e non se ne seppe più nulla. C’era da credere che Lulù non sarebbe mai più ritornato. ‘Me l’avranno rubato!’ pensava lei. Finalmente arrivò; era splendido, ritto su un ramo d’albero, fissato in uno zoccolo di mogano, una zampa in aria, la testa inclinata nell’atto di mordere una voce che l’imbalsamatore, per amore del grandioso, aveva indorata. Félicité se lo chiuse nella sua camera. Félicité entrò in agonia. Un rantolo sempre più precipitoso le sollevava le costole. Bolle di schiuma le si formavano agli angoli della bocca e tremava in tutto il corpo. Un vapore azzurro d’incenso salì nella camera di Félicité. Essa sporse le narici, aspirandolo con mistica ebbrezza; poi chiuse le palpebre. Con le labbra sorrideva. I moti del suo cuore rallentarono a poco a poco, come una fontana che si estingue; e quando esalò il suo ultimo respiro credette di vedere, nei cieli dischiusi, un pappagallo gigantesco che si librava sopra la sua testa”. Voglio dire che proprio quando pensi di aver capito, sei morto. Un altro esempio: fu coi suoi quadri di cerchi che Olivier Mosset si presentò al pubblico parigino alla fine degli anni Sessanta, come membro del gruppo di artisti radicali BMPT, acronimo per Buren, Mosset, Parmentier e Toroni. Tale affiliazione si dimostrò problematica in rapporto alle vere intenzioni di Mosset, perché i suoi quadri correvano il rischio di venire fraintesi come una specie di marchio. Mosset risolse questo dilemma adottando la griglia di strisce usata dal collega Buren, non nel senso di farne una mera copia, ma come lezione oggettuale.
PH: Il mio rapporto con l’arte geometrica del passato ha un aspetto analitico e al tempo stesso sintetico. Analitico poiché vedo il mio lavoro come una decostruzione di temi di Mondrian e Donald Judd: per esempio, l’arte di Mondrian è una risposta alla crescente geometrizzazione della cultura e della città negli anni Venti e Trenta, quella di Judd una risposta alla produzione in serie nella sua forma più sviluppata nella civiltà postindustriale. Sintetico perché, più che appropriarmi di motivi di quell’arte, li iperrealizzo: prendo temi che hanno una certa realtà in un contesto sociale per poi gonfiarli in un’altra realtà. Due esempi: un’irradiante immagine di Rothko sarà sostituita nel mio lavoro da un’immagine in vernice Day-Glo. Dico anche spesso di aver preso la cerniera lampo di Newman per incorporarla nel lavoro di un idraulico.
PN: Molta della nuova scrittura può essere intesa in termini di angoscia dell’oggetto. Non è questa l’angoscia della civiltà tardo-capitalistica e dell’artista all’interno di queste civiltà? E forse l’angoscia del collezionista, nel suo rapporto conflittuale col capitalismo?
HS: L’angoscia della civiltà tardo-capitalistica è in noi: nella vanità che avvertiamo nei sistemi di valori quando sono messi a confronto con la nostra realtà; nella vanità che avvertiamo nell’atto morale come modo di determinare il buono e il cattivo. Ma esistono le merci, i feticci, gli oggetti artistici o è forse il nostro rapporto con essi che ci turba?
JK: In una società capitalistica siamo pagati in oggetti per il lavoro che facciamo. E negli oggetti vediamo tratti della personalità degli individui, li trattiamo come individui. Alcuni di essi sono più forti di noi e ci sopravviveranno.
AB: Non è solo la scultura a essere implicata in questo sviluppo. Dopo anni in cui si è strappato l’oggetto dal muro, disperdendolo nelle piaghe del deserto dello Utah ed esaurendolo nelle nostre secrezioni corporee, l’opera si afferma di nuovo — senza goffaggine ma aggressivamente — nel contesto della galleria, lo spazio dell’arte, ma lo fa attraverso un disagio aggressivo e una sfida complice.
PT: L’arte ambientale non è più quel gesto significativo che era nei primi anni Settanta. Per determinare situazioni psicologicamente avvincenti ora è necessaria una comprensione più oggettiva di come accostarsi alla produzione dell’opera.
PH: Credo che la Process Art fosse l’ultimo soffio dell’idea di vita nell’opera, e che queste nuove opere siano più statiche e abbiano superato quella fase.
PT: Ma siamo arrivati al punto in cui è dimostrato che la pittura non può essere uccisa.
SL: Penso che esista una lunga tradizione modernista della fine dell’arte, a partire se volete da Dada e dai suprematisti. Quanti artisti hanno fatto l’ultimo quadro? A molti di noi piace muoversi in una terra di nessuno, e l’importante è non perdere il proprio senso dell’umorismo. Perché è solo arte.