Michele Robecchi: Come è nata “Cornucopia”, la mostra al Museo Oceanografico di Monaco?
Damien Hirst: Mi piace il museo. Monaco non ha un passato illustre in materia di arte contemporanea, ma ho sempre voluto fare una mostra qui. Mi piace quello che stanno cercando di fare, quest’idea vittoriana di portare il mondo alla gente. È fantastico poter disporre di un edificio incredibile come questo, e continuare il pensiero di Alberto I di Monaco, quando disse che l’arte e la scienza sono le forze trainanti della società. Credo che gli sarebbe piaciuto quello che ho fatto.
MR: Come hai scelto le opere?
DH: All’inizio volevo farne solo sei, poi quando sono arrivato ho cominciato a guardarmi intorno e ho pensato: “OK, magari metto qualcosa qui, un’altra lì, e forse alcuni quadri là”. Si è sviluppata molto rapidamente, in circa mezz’ora, e alla fine ho messo circa sessanta opere. È stato un continuo crescendo.
MR: Il tuo lavoro si presta a questi spazi con una forte connotazione architettonica. Anche al Museo Archeologico di Napoli funzionava molto bene.
DH: Sì, ho sempre cercato di non fare mostre museali, perché credevo che fossero per artisti del passato, ma poi ho realizzato la mostra a Napoli e mi sono reso conto che funzionava. Quando due cose stanno bene insieme, è come una somma matematica. Va bene per me, va bene per il museo e va bene anche per il lavoro. Porta tutto in una nuova dimensione.
MR: Anche la mostra alla Wallace Collection a Londra lo scorso autunno si muoveva su principi simili. Ti ha dato fastidio che la maggior parte dell’attenzione non fosse rivolta ai quadri quanto piuttosto al fatto che li avessi fatti tu?
DH: Sai, in un certo senso me l’aspettavo. Cerco sempre di ignorare le cose belle che scrivono su di me, così posso ignorare anche quelle brutte. C’è una frase fantastica di Andy Warhol: “Non devi leggere le tue recensioni, devi farle vedere”. È tutta una questione di volume. Ho solo fatto dei quadri, non dovrebbe essere così importante. La Wallace ha registrato un numero di visitatori più alto che in tutte le mostre precedenti. Ci sarei rimasto male se non ci fosse andato nessuno. Se mi avessero detto: “Damien, hai speso un sacco di soldi per la tua ultima mostra, hai fatto questa cosa enorme e non è venuto nessuno, come ti senti?”, mi sarei sentito di merda. Il problema è quello. Le critiche che ho ricevuto per quei quadri erano folli, è come se l’ultimo Picasso, o perfino Twombly, non fossero mai esistiti. Non ci vuole molto a fare un quadro, vai e lo fai. Secondo me il vero problema era che si trattava della Wallace, dove ci sono solo maestri antichi. Pensavano che volessi dire che anch’io mi considero un maestro antico.
MR: Vedi molte mostre adesso?
DH: Sì, anche se probabilmente dovrei vedere più artisti giovani.
MR: La tua collezione come va?
DH: Sta crescendo molto rapidamente, devo darmi una calmata. Bisogna stare attenti a non comprare più di quanto si possa esporre. Mi hanno detto che la collezione della National Gallery è sempre in mostra, in restauro o in prestito. Non hanno un magazzino. Quello sì che è un modo fantastico di gestire una collezione.
MR: Di recente hai anche ricomprato alcuni tuoi pezzi da Saatchi, vero?
DH: Sì. Mi piace Saatchi, vado a cena con lui e via dicendo, ma non mi compra niente da parecchio tempo, non ha più niente di mio. È strano, quando ho iniziato non tenevo nessun lavoro, vendevo sempre tutto, ma poi quando ho avuto i figli, ho cominciato a pensare al futuro. Mai fatto prima. C’era un grosso buco nella mia collezione, non avevo niente del primo periodo, e a quel punto Saatchi mi ha contattato per dirmi che voleva vendere. Avevo appena finito una mostra da White Cube, avevo un po’ di soldi da parte, e mi è sembrato giusto convertirli in opere vecchie. È pazzesco, ho ricomprato per 500.000 sterline un armadietto di medicine che avevo venduto a Saatchi per 500. So che può sembrare folle ragionare in questi termini, ma adesso vale molto di più. Quando l’ho preso ho offerto più di chiunque altro, molti collezionisti sono rimasti colpiti dalla fiducia che ho nel mio lavoro. Non era nata come operazione finanziaria ma alla fine ha funzionato bene anche in questi termini.
MR: Pensi di essere in una fase della tua carriera dove cerchi di sorprendere te stesso, oltre che il tuo pubblico?
DH: Credo di essere in una fase in cui ho capito che non posso più farlo. Non so. Forse non cerco di sorprendere me stesso quanto di scappare da me stesso.
MR: E non essere “Damien Hirst”?
DH: Sì. Per molto tempo ho cercato di non essere Damien Hirst, mentre adesso è una cosa che accetto. Una cosa che ho sempre fatto è stata quella di mettere qualsiasi idea mi passasse per la testa in un contenitore. Il tavolo con le sedie? In vetrina. Lo squalo? In vetrina. Le medicine? In un armadio. Per un po’ ho cercato di evitarlo, ma alla fine ho pensato che mi piace. Siamo nati in un contenitore. Moriremo in un contenitore. All’inferno continuerò a farli.
MR: Anche il teschio (For the Love of God, 2007) era in un contenitore. Mi domando se quel lavoro sia nato quando da ragazzo andavi a lavorare al mercato di Leeds in cerca di diamanti per i gioiellieri.
DH: Sì, i diamanti sono un simbolo di benessere, ma c’entra anche l’idea di trovarli e il mistero che li avvolge. Un diamante allo stato naturale è come un pezzo di carbone da spolverare. Si trovano ovunque, non è una cosa che puoi fabbricare. Anche se sei povero, puoi sempre coltivare la speranza che scavando sottoterra magari trovi un diamante. È un po’ tutte queste cose. Un diamante è per sempre, no?
MR: È un lavoro molto ambiguo in questo senso. L’eternità del diamante contro la temporaneità della vita.
DH: Come artista, cerco sempre di essere ambiguo. Non mi piace essere a favore o contro, mi piace dire una cosa e negarla al tempo stesso. Nel caso del teschio, si tratta di una celebrazione o di un gesto nichilista? Entrambi. Alla fine non importa quanti soldi fai, la morte ti aspetta. Non puoi portarteli dietro. Il teschio di diamanti è un tentativo disperato di contrapporre la ricchezza alla morte. Alla fine vince la morte, però rimane la celebrazione di qualcosa. Sono un ottimista. Per me è una luce nell’oscurità.
MR: Cosa ti attrae della morte?
DH: È un fatto semantico. Se c’è una cosa che non posso evitare, cerco di affrontarla. La morte è probabilmente la più grande di tutte.
MR: Di recente hai anche fatto una mostra a New York, intitolata “Fine di un’epoca”.
DH: Quando ho fatto l’asta ne ho approfittato per chiudere alcuni cicli. Ho smesso di realizzare quadri puntinati, o con le farfalle, ho smesso tutto. Sì, immagino sia la fine di un’epoca. Però sai, la fine di un’epoca coincide sempre con l’inizio di un’altra. Adesso sto attraversando un periodo in cui cerco di fare cose nuove, e lavorare a nuovi progetti.
MR: Come è andata l’asta?
DH: Alle gallerie non è piaciuta, perché i compratori si rivolgono direttamente a me, però alla fine è un modo per allargare il mercato. Mi pare che nel 50% dei casi si trattasse di compratori nuovi, gente che non aveva mai acquistato un’opera prima.
MR: Ci sono stati commenti molto severi sul fatto che tu ti mettessi all’asta, come se lo stessi facendo solo per soldi.
DH: La gente pensa sempre che i soldi rovinino l’arte. Secondo me è una disgrazia che un artista come Van Gogh sia morto senza fare un soldo. La cosa importante è assicurarsi che l’arte abbia la precedenza. Molti pensano che in questo modo perdi la tua integrità. Il mio manager tempo fa mi disse di cercare sempre di usare i soldi per fare arte e non il contrario, ed è vero, bisogna stare attenti. Sono orgoglioso di quello che ho fatto. Certo, i soldi mi interessano, credo siano una di quelle cose che devi trattare con rispetto, soprattutto quando c’è così tanta gente in giro che non ne ha. Per me i soldi sono come una chiave, danno accesso a molte opportunità se li hai e sono una porta chiusa se non li hai. Molti sottovalutano il potere dei soldi, credono che siano qualcosa di negativo, ma se sei un artista devi pensare a queste cose. I soldi però non indicano il valore di niente, ci sono cose costosissime che fanno schifo e cose gratis che sono fantastiche.
MR: Cosa pensi della recente crisi finanziaria?
DH: Penso che adesso sia meglio. Almeno è una situazione normale, prima era surreale, non riuscivo neanche a prenderla sul serio. L’arte è strana. Ho sempre pensato in termini di valuta, e l’arte è la valuta più potente che esiste al mondo. È per quello che dipingono le banconote, usano l’arte per dare valore alle cose. Una moneta è come una scultura, se dai a un tizio un disco di latta non vale niente, ma poi basta che ci incidi sopra la faccia di un capo di Stato ed ecco che tutti la vogliono. Se il tuo lavoro è bello, la gente lo compra. Quando facevo i quadri puntinati, o anche altre cose, pensavo sempre, se li lascio per strada, per quanto tempo ci rimarranno? Ci sarà qualcuno che passa e se li porta a casa? È un metodo molto efficace per capire quanto vale. Se lasci qualcosa in strada, te ne vai e quando torni non c’è più, vuol dire che è bella. E se riesci a capire questo concetto, ti stupirai di vedere quanto la gente sia disposta a pagare per averla. L’importante è fare dell’arte che sopravviva.