Adrian Dannatt: La tua mostra alla Cohen Gallery, intitolata “Pharmacy”, ha un che di religioso. Per lo spettatore è come essere dentro uno dei pezzi in vetrina.
Damien Hirst: Ho sempre visto l’armadietto dei medicinali come una specie di corpo, ma anche come paesaggio cittadino o come società con una sorta di gerarchia al suo interno. Ma può anche essere un museo contemporaneo del Medioevo. Fra cent’anni questa sembrerà una vecchia farmacia. Un museo di qualcosa che esiste oggi.
AD: In Francia hanno farmacie con insegne luminose, fatte per essere il più possibile al passo con i tempi, ma sembrano già datate, perché rappresentano un’idea del modernismo anni Settanta.
DH: Suscitano un’immagine di confidenza, di fiducia nel minimalismo. Mi piace molto il linguaggio medico, così essenziale, così asettico: c’è in esso un che di muto. Mi piace l’idea di interno ed esterno. Gli armadietti potrebbero essere la gente e le medicine le parti interne, in relazione con le diverse parti del corpo.
AD: In lavori come L’incapacità acquisita di scappare e L’asmatico fuggito sembra emergere il tema della fuga. C’è una relazione tra questo tema e l’idea interno/esterno?
DH: Mi piace la fuga da un punto di vista formale, come idea. C’è un elemento religioso in L’incapacità acquisita di scappare. Il pezzo della Tate ha quattro fessure: se tracciassi una linea immaginaria dall’obiettivo della macchina fotografica, otterresti una croce. È qualcosa che non vedi, ma che costituisce una parte importante di esso.
AD: La croce quindi è una via d’uscita, un modo di fuggire?
DH: Se decidi di sceglierla è una fuga spirituale, non fisica. C’è una buona dose di significato superfluo, di traiettorie, di interpretazioni possibili. Ho fatto un’intervista sulla conservazione, e mi è stato detto che la formaldeide non è una forma di mantenimento perfetta:“Questi pesci non resisteranno a lungo, cosa hai intenzione di fare?”. Ho risposto che non ho intenzione di fare niente, questo è il lavoro. Pensavano che stessi usando la formaldeide per poter lasciare un’opera ai posteri, mentre in realtà la uso per comunicare un’idea.
AD: Se uno dovesse scegliere un tema fondante per la tua opera, questo sarebbe senz’altro lo stato entropico.
DH: Non credo si possa ridurlo a un tema fondante, tuttavia sono certamente affascinato dall’entropia, ma in modo complesso. La contraddizione sta nel fatto che ti preoccupi della tua carnagione quando sarai solo uno scalpo nel giro di meno di cento anni. Vista da questa angolatura, può essere divertente invece che pesante: humor e terrore.
AD: Il paradosso umano comico di fondo.
DH: L’arte parla della vita e davvero non può essere nient’altro. Non c’è nient’altro.
AD: Non ti sembra che la tua arte tenda a parlare della morte?
DH: Ho una strana teoria in proposito: la morte in effetti non esiste nella vita. Tutto quello che ci è dato di sapere è che (la vita) finirà. Il mio interesse per la morte riguarda come uno vive, che è quello che importa. La perdita delle persone che si amano o della vita è triste, ma così è la perdita. Trovo che la fine di una relazione sia molto più sconvolgente della morte. La morte mi lascia insensibile.
AD: Tu usi la relazione nei titoli, ma stranamente nelle tue opere ti servi della violenza, dove peraltro c’è la decadenza; è morte ma è assente l’opposto: il sesso o la sessualità.
DH: Mi è venuto in mente di fare un’opera sul sesso, ma non sono mai riuscito a trovare il modo. Mi interessa comunicare faccia a faccia con lo spettatore, individualmente, per cui il sesso finirebbe per esprimere isolamento. Non so come affronterei la sessualità. Per qualche ragione, si trasforma sempre in assassinio.
AD: Il sesso?
DH: Sì. Non appena immagino un letto, lo voglio intriso di sangue. È difficile provocare la gente con la sessualità.
AD: La tua opera proviene forse da quell’estrema area di tabù del modernismo che è l’area autobiografica?
DH: Faccio sogni su spazi simili a quelli delle mie opere, in cui c’è un inquietante senso di claustrofobia. Ma credo che piuttosto che parlare di sé si debbano trovare propulsori universali. Tutti hanno paura del vetro, tutti hanno paura degli squali, tutti amano le farfalle.
AD: Se produci un’opera d’arte troppo facile da copiare per i media, non corri il pericolo di essere considerato solo un artista “sensazionalista”?
DH: Non lo so. Si potrebbe dire che Soutine era sensazionalista, o che lo era Bonnard con l’uso che faceva del colore, o Rembrandt col suo bue. Credo che il sensazionalismo sia solo un elemento nella composizione con cui ci si deve porre a confronto. Voglio dire, la sensazione si ricava solo dal toccare la pelle. Credo che sarebbe sensazionale portare un cane morto nella galleria e sparargli ripetutamente per alcune settimane. Forse c’è già un lavoro in un’idea del genere.
AD: E le fotografie che ti riprendono fra i cadaveri nell’obitorio?
DH: Anche quella era un’idea che era solo nella mia testa. All’epoca nutrivo questo interesse nell’idea vita/morte, ed ecco quella stupida fotografia. Faccia a faccia con la morte. Ridere in faccia alla morte, con una testa morta accanto a me. È ironico e scioccante, triste e confuso: è una cosa che ha dieci anni. La gente dice: “Quando farai un essere umano in formaldeide?”. Non lo farei mai, perché il fattore shock sarebbe eccessivo, mancherebbe lo scopo.
AD: Perderebbe il suo status metaforico.
DH: Amo la metafora, la gente deve sentirsi distante. Puoi guardare una mosca e pensare a una persona; ma se guardi una persona che è morta, cominci a renderti conto che la morte non esiste. Dopo due settimane trascorse all’obitorio, i morti smisero ai miei occhi di essere cadaveri. All’inizio rimasi scioccato, ma dopo una quindicina di giorni di contatto con loro, la morte si era spostata appena più in là. La morte dimora nel cadavere fino a quando hai a che fare con i cadaveri; poi si sposta in qualche luogo che sta oltre il cadavere. I veri timori non si identificano con le cose reali. Vaghiamo senza meta nella nebbiosa convinzione che non moriremo mai; di tanto in tanto vediamo un fantasma passando davanti allo specchio e un secondo dopo lo dimentichiamo. Dovremmo accogliere tutto questo a bordo, goderne, considerarla una cosa positiva. Accettare di essere destinati a morire rende più capaci di vivere, spero.
AD: Per citare le parole di Proust, “Un giorno l’idea della morte ha installato in me l’idea dell’amore”.
DH: La morte si è installata, ma non so se si sia installato anche l’amore (ride).
AD: L’altra faccia della mortalità e dell’entropia è quell’area dai contorni sfumati rappresentata dalla spiritualità. Tua madre veniva da un’educazione cattolica molto rigida. Mi sembra di percepire, anche quando viene rimossa, una sorta di colpa cattolica, un desiderio intenso di redenzione.
DH: Non mi sono mai realmente avvicinato a quest’area, in qualche modo la nego. Sono stato educato in una scuola cattolica, quindi ho una grande quantità di ricordi importanti dell’immaginario religioso. Avevamo una grande Bibbia illustrata, e da ragazzo andavo dritto alla crocifissione, o staccavo le pagine che la precedevano. Non mi piaceva l’idea della redenzione, ma le immagini di sangue. Ma Dio è solo un’idea, Dio è un elemento aggiuntivo della composizione. Penso all’insetticida e all’accendino come a una specie di emanazione divina, ma è solo energia. Non sceglie quando le cose devono morire. Dio e amore sono solo parole vuote che servono a separare le persone dalla paura, o a unire le persone ad altre persone. Le mosche si infilano nell’insetticida e muoiono per caso.
AD: In termini di armadietti di medicinali, fa parte del collasso di un ideale modernista che tutti possano essere curati, tutti possano essere salvati, che il corpo possa essere redento?
DH: Per il momento la gente può solo essere curata; dopo è destinata, in ogni caso, a morire. Non è possibile arrestare la decadenza, ma questi armadietti di medicinali suggeriscono che lo sia.
AD: Dipende dal design di queste farmacie, luccicanti, pulite fino al ridicolo, con gli interni sapientemente illuminati, come gallerie d’arte. Usare un buon design modernista comporta la salvezza.
DH: Sono molto religiosi, pieni di speranza, direi. C’è una grande esigenza di dislocamento del significato nell’arte; l’arte deve reiventarsi ogni giorno. Cerchi di fissare queste cose, ma c’è un movimento costante.
AD: Non vuoi un significato fisso?
DH: No, credo che determinati propulsori siano più importanti. Voglio tracciare situazioni che spingano la gente a cercare di scovare un significato. Non credo che i miei significati, le mie interpretazioni siano importanti su vasta scala. C’è una certa confusione tra fisico e intellettuale. E questi sono certamente oggetti fisici che possono essere resi intellettuali.
AD: Credi nella vita dopo la morte?
DH: No. Per me ha perfettamente senso così poiché la vita è questa, poi finisce. Gran parte dell’opera è sul punto di scendere a patti con queste idee. Se dovessi fare un’opera a carattere sessuale cercherei di realizzarla al di fuori di un formalismo cavilloso e di un soggetto particolarmente intenso, in un luogo dove questi due elementi siano del tutto separati l’uno dall’altro. Per cui è come una composizione floreale formalmente, ma totalmente violenta in termini di immaginario.
AD: Ancora sesso come violenza.
DH: Solo nella misura in cui quel tipo di sesso ha a che fare con la vita. La violenza nelle mie opere non può essere messa direttamente in relazione alla mia vita o alla vita di qualcun altro. È un’immagine di violenza, è come un film dell’orrore. Magari, in un film, ti diverti a vedere qualcuno a cui viene mozzata la testa, ma la tua reazione nella vita reale sarebbe completamente diversa. È un modo di cominciare. L’arte non è vita.