Alberto Fiz: Sin dagli anni Sessanta, hai assunto una posizione molto polemica nei confronti del sistema dell’arte. Attualmente, in una situazione che appare decisamente peggiore rispetto ad allora, quale è il ruolo dell’artista?
Daniel Buren: La situazione generale non è certamente migliorata. Siamo costretti a constatare, ogni anno, che il ruolo dell’artista continua a ridursi poco a poco. Non solo per la sua storica posizione di oppositore, ruolo che l’artista ha mantenuto per molto tempo, ma, cosa ancora più grave, non è più un elemento centrale del sistema. L’artista è diventato l’individuo che accetta tutto ed è accettato da tutti. Nello stesso tempo, si trova, senza nemmeno rendersene conto, inghiottito, digerito, rigettato e quindi rimpiazzato da un altro omologo che si trova esso stesso inghiottito, digerito, rigettato e così via. La società di consumo, la nostra, ha non solo fatto del sistema mercificato uno spettacolo permanente, come aveva anticipato Guy Debord, ma ne ha invertito poco a poco i termini in modo da controllare in maniera ancora più capillare ciò che accade nel mondo delle arti.
AF: Il sistema dell’arte dipende fondamentalmente dal mercato che, grazie a una lobby di galleristi, collezionisti molto potenti e case d’asta, ha assunto un ruolo dominante. Con la crisi attuale cosa cambierà?
DB: È esattamente quello che intendevo dire quando parlavo di inversione di termini. Da tempo, nel mondo delle arti, l’artista non è più al centro. È stato prima sostituito da curatori senza scrupoli che si credono artisti e che si sono sostituiti agli artisti confinandoli alla periferia, come una musica d’ambiente o, come dicevo già tanto tempo fa, come un piccolo tocco di colore necessario all’elaborazione e alla confezione della mostra. Più recentemente, il centro d’interesse si è ancora spostato con violenza seguendo il diktat delle case d’asta e dei collezionisti milionari. L’artista e la sua opera, nel mezzo di tutta questa banalità effimera, sono solo giocattoli tra le mani di speculatori avidi che finiscono per tenere in scacco questo sistema.
AF: François Pinault, uno dei maggiori collezionisti al mondo, è anche il maggior azionista di Christie’s. Non è un clamoroso conflitto d’interessi?
DB: Il sistema dell’arte non ha bisogno, come altri, di essere liberalizzato dal momento che non è mai stato regolamentato! Dal centro alla periferia, la regola generale è che non ci sono regole. Penso che questa aspirazione alla libertà, a rompere le catene, sia una lezione che generazioni d’artisti, almeno sin dal Rinascimento, hanno insegnato al mondo. Questa lezione è stata ben compresa dal sistema dell’arte che l’ha applicata strumentalmente a se stesso, imitando, in primo luogo, le teorie artistiche, le più libertarie, perfino anarchiche, per il proprio beneficio. Ma ciò che è senza dubbio eccellente a livello di pensiero, può esserlo a livello di business? Ciò a cui stiamo assistendo non è che una forma di liberalismo o, meglio, di capitalismo selvaggio. Sappiamo da molto tempo che il mondo dell’arte rimane uno dei meno regolamentati di tutti i settori dell’attività sociale. Dobbiamo rallegrarci o esserne preoccupati? Uno dei paradossi è vedere, da un lato, un numero sempre maggiore di situazioni inimmaginabili nel mondo degli affari. Un medico, per esempio, non può esercitare la sua professione e avere una farmacia (conflitto d’interessi) e le posizioni di monopolio, se sono scoperte, sono immediatamente perseguibili. Non succede così nel campo dell’arte. In questo caso si può fare di tutto contemporaneamente e gli esempi abbondano. È possibile, per esempio, comperare e vendere, collezionare, aprire un museo, aprire una galleria, occuparsi di una rivista d’arte, creare una fondazione, scrivere articoli, retribuire giornalisti, sponsorizzare musei pubblici all’interno dei quali collocare la propria collezione privata. Questo solo per limitarsi ad alcuni esempi. C’era (spero ci sia ancora) un regolamento (forse anche una legge) che proibiva a un conservatore del Louvre specializzato in tale o talaltra scuola d’arte, di acquistare per sé qualsiasi opera del medesimo periodo. Ciò significa che il suo sapere, al servizio di una grande istituzione pubblica come il Louvre, non poteva servire a fini personali. Cosa accadrebbe oggi se una tale regola venisse applicata ai direttori e conservatori di musei d’arte moderna o contemporanea che comperano opere degli artisti che espongono accettandone persino i regali? Allo stesso tempo, in questo mondo così poco regolamentato, il paradosso è che sono gli artisti che la società tenta di mettere al passo. È certo che oggi gli artisti sono molto più integrati rispetto a quanto avveniva solo qualche decennio fa. Un artista poteva immaginare che sarebbe stato obbligato a iscriversi alla previdenza sociale per esistere e poter lavorare? Poteva solo immaginare che un giorno avrebbe preso la pensione? Poteva immaginare che taluni stati sarebbero stati obbligati ad acquistare ogni anno una loro opera per garantirne la sopravvivenza? Da un lato un’inaudita violenza commerciale dove le regole minime di rispetto sono sbeffeggiate ogni giorno, e dall’altro, artisti sempre meno liberi (ma più tutelati) nei loro movimenti, perfino nel loro destino. Quale dei due aspetti è migliore? Per chi s’interessa del mondo dell’arte, i conflitti d’interesse, pur essendo numerosi, non sono percepiti come tali. Che cosa pensare delle gallerie che si creano enormi collezioni quando è noto che hanno pagato le opere al massimo il 50 per cento del loro valore e, da buoni mercanti, un giorno rivenderanno tutto il pacchetto a un prezzo maggiore di dieci o persino cinquanta volte il prezzo d’acquisto, a meno che decidano di farne dono allo stato in cambio non solo di uno sconto colossale sulle tasse ma anche della Legion d’onore? Altri conflitti d’interesse sono sotto i nostri occhi quotidianamente. Che dire delle grandi Biennali d’arte e Documenta che, non avendo più soldi, si rivolgono alle gallerie per poter invitare gli artisti facendo entrare direttamente il mercato nelle mostre internazionali come se le fiere d’arte e le aste non fossero già abbastanza numerose? Di conseguenza, passiamo da una Biennale a una Triennale, da una Documenta a una fiera d’arte sino a un’esposizione d’asta e viceversa, senza che sia più possibile fare distinzioni.
AF: Nel 1972 Harald Szeemann accettò di pubblicare nel catalogo di Documenta 5 un tuo testo molto polemico dove attaccavi il metodo espositivo e il narcisismo della critica. In quell’occasione scrivevi: “L’esposizione s’impone come soggetto autonomo ed essa stessa si sostituisce all’opera d’arte”, dichiarando, nella sostanza, che l’opera era totalmente succube del contenuto. Pensi che queste considerazioni possano valere anche per l’ultima Documenta, quella diretta da Carolyn Christov-Bakargiev?
DB: Sì, certo, eccetto che Carolyn non ha il talento di Szeemann e si è visto! Documenta 5 mi aveva chiaramente indicato in quale direzione le cose stavano andando e come l’artista sarebbe stato relegato a un ruolo marginale. Nonostante tutto, Szeemann sapeva scegliere gli artisti e dava l’impressione che lui fosse un organizzatore che stava dietro le quinte. Non era ancora divenuto l’unico vero artista della mostra, anche se è quello che sostenevo nel mio scritto dove indicavo chiaramente come tutto rischiava di scivolare verso un’ipertrofia del senso, dal momento che Szeemann passava dal ruolo di organizzatore e di selezionatore, a quello di “inventore” di “creatore”. Dopo di lui, e da allora, questa sindrome si è sviluppata fino a essere rivendicata con orgoglio dai tanti organizzatori di eventi. I suoi successori sono stati influenzati in maniera totale da ciò che avevo percepito nell’atteggiamento di Szeemann e si sono impossessati senza vergogna del suo discutibile metodo.
AF: Gli anni Sessanta e Settanta sono tornati di gran moda con un remake che sembra non avere fine. Taluni artisti, anche tra i più celebri, copiano spudoratamente le opere di allora senza che nessuno sollevi la benché minima obiezione anche quando questo meccanismo appare evidente. C’è una totale perdita di memoria o un gioco mistificatorio tacitamente accettato?
DB: Fa parte di un decadimento che sembra essere una caratteristica dell’epoca in cui viviamo. Non c’è nessun complotto, certo, ma tutto va nella stessa direzione. Il cinismo è re e l’amnesia generalizzata sembra convenire a un gran numero di attori. Si ruba tutto a tutti, in maniera spudorata, addirittura rivendicando il furto come nuova categoria delle belle arti! Così, un po’ di teoria da strapazzo permette di rendere commestibile una creazione senza fiato, priva d’ispirazione, facendola passare per opera di genio.
AF: Sei tra i pochissimi artisti di successo a non produrre oggetti per il mercato e questo avrà fatto soffrire non poco i tuoi galleristi che per lungo tempo hanno faticato a vendere le tue opere. Oggi chi sono i tuoi collezionisti?
DB: Voglio innanzitutto dire che non ho mai serbato rancore nei confronti dei miei mercanti per il fatto che non vendevano (o vendevano molto poco) il mio lavoro. Avevo con ciascuno di loro degli accordi molto precisi e se mi invitavano a una mostra, mi versavano onorari sicuramente modesti ma per niente non ho mai esposto. I mercanti mi hanno sostenuto ciascuno a suo modo e, per la maggior parte, con grande fedeltà, anche se non facevano affari con il mio lavoro. Tra i tanti con cui ho collaborato, citerei alla rinfusa Guido Le Noci, Apollinaire, che è stata la mia prima galleria, ma anche Gian Enzo Sperone, Massimo Minini, Tucci Russo in Italia, Konrad Fischer, Paul Maenz in Germania, Wide White Space e MTL in Belgio, John Weber, Leo Castelli, Claire Copley, Barbara Cusack, Max Protech negli Stati Uniti, Yvon Lambert, Eric Fabre a Parigi, Kanransha Gallery in Giappone, Lisson in Inghilterra, Sue Crockford in Nuova Zelanda. Da una decina d’anni, poi, altre gallerie più giovani hanno capito che il mio lavoro si poteva certamente vendere (cosa di cui io non ho mai dubitato per un secondo) a condizione di farlo seguendo le esigenze che imponeva. Convincere, ad esempio, i collezionisti che si potesse possedere un lavoro in situ fatto per un luogo e, eccetto rari casi non trasportabile in nessun altro. Queste gallerie dirette da persone molto più giovani si chiamano: Galleria Continua in Italia, Kamel Mennour in Francia, Hufkens in Belgio o André Buchmann in Germania. Certo siamo lontani dalla vendita di oggetti più o meno facili da realizzare, facili da appendere al muro e soprattutto disponibili e visibili immediatamente dopo l’acquisto. Qui si parla di opere che il collezionista deve riconoscere in base a uno schizzo. Dopo numerose discussioni, se accetta il progetto definitivo, si deve prendere l’enorme rischio che l’opera, una volta realizzata (nel migliore dei casi ci vuole un anno), non lo convinca o non corrisponda a quello che immaginava. Si tratta, dunque, di un processo di vendita completamente differente rispetto a quello abituale che viene preso in considerazione solo da un numero estremamente ristretto di gallerie.
AF: Hai coniato il termine travail in situ che, negli ultimi anni, si è diffuso a macchia d’olio mettendo definitivamente in crisi l’autonomia dell’opera d’arte. Dalla fine degli anni Sessanta a oggi, com’è cambiato il tuo lavoro? E come si è modificato l’approccio al luogo?
DB: Quando ho deciso di lavorare in situ, alla fine del 1967, mi sono subito reso conto che entravo in un campo lasciato quasi incolto sin dal Rinascimento e le cui opportunità di ricerca e di sperimentazione erano immense. Le porte si aprivano su una moltitudine di possibilità, senza dimenticare le questioni di fondo come, ad esempio, la perdita dell’autonomia (supposta!) dell’opera d’arte su cui ho preso una posizione assai radicale. Questo campo era ancora più ricco di quello che sembrava e non ho finito di esplorarlo. Del resto, il mio lavoro è tanto cambiato che i luoghi d’investigazione si sono moltiplicati, aumentando di continuo le opportunità. In quanto all’approccio o, piuttosto, alla scelta del luogo come punto di ancoraggio, non ho mai derogato e prendo coscienza ogni giorno un po’ di più che vi risiedono i fondamenti dell’opera e il suo possibile rinnovamento.
AF: È vero che qualche anno fa hai querelato un giornalista che si era permesso di utilizzare, a proposito dei tuoi lavori, il termine “installazione”? Non ti sembra fosse un’esagerazione?
DB: Quello che è esagerato è affermare una tale fesseria! Nel suo articolo sull’ultima Monumenta, Le Monde ha fatto il suo “cappello” di prima pagine indicando questa assurdità. Due giorni dopo si è scusato sulle stesse colonne del giornale. Detto ciò, nel 1980 (cioè più di 32 anni fa) ho scritto un piccolo testo che indicava quello che pensavo della parola “installazione” che cominciava a espandersi coinvolgendo tutti quei lavori che non erano più esattamente né dipinti né sculture e che si trovavano temporaneamente disposti in un certo ordine nello spazio di una galleria o di un museo. Questo termine è utilizzato consapevolmente quando si parla di installazione di una vetrina dove tutto è fatto con finalità commerciali per allettare il passante curioso. È esattamente ciò che accade nell’arte con quelle che vengono chiamate “installazioni”, ovvero messa in scena temporanea per la vendita di oggetti eterogenei o no la cui caratteristica principale, perlomeno, paradossale, è di non avere nulla a che fare con la problematica del luogo, così come un paio di scarpe ben sistemate nella vetrina di un grande calzolaio non ha a che fare con il luogo di esposizione. È per queste ragioni, tra le altre, che questo termine non mi sembra assolutamente adatto e che mi appare addirittura in antitesi con il mio lavoro. Adesso, se qualcuno vuole ugualmente utilizzarlo, non vedo come proibirglielo. Dimostra così che non solo non sta attento a quello che vede ma anche al senso delle parole che usa.
AF: Anche tu vivi e lavori in situ, come scrivi nella brevissima biografia che accompagna i tuoi cataloghi. Ma l’atelier che fine ha fatto? È solo un retaggio ottocentesco?
DB: Per me, e non è assolutamente una regola, l’atelier è nocivo e contraddittorio. Non avere più la necessità di uno studio mi ha permesso di affrancarmi da gran parte dei vincoli storici e materiali. L’abbandono dell’atelier era necessario per lo sviluppo del mio lavoro. La sua sopravvivenza avrebbe significato, in un certo qual modo, ricadere nei numerosi sentieri già battuti.
AF: E, a proposito di nomadismo, da tanti anni collabori con il circo. Mi racconti di quest’esperienza che pochi ancora conoscono?
DB: L’abbandono dell’atelier va, evidentemente, di pari passo con un certo nomadismo. Quindi, l’obbligo del viaggio affinché un certo lavoro si possa realizzare. In certi campi artistici abbiamo molti esempi dove il nomadismo fa parte integrale dell’attività scelta. Un musicista che non è nomade non esiste, gli attori devono muoversi spesso e i personaggi del circo sono chiamati anche “attori girovaghi”. Tuttavia, non è il nomadismo che ha stabilito una relazione tra il circo e me. È, piuttosto, una proposta fattami più di dodici anni fa, insieme a una decina di altri artisti, da parte di un direttore del circo, di presentare uno dei numeri dello spettacolo. Successivamente, la richiesta reiterata ha consentito di andare molto oltre nella nostra collaborazione che oggi prosegue sempre più intensa. Questo genere di lavoro permette di arricchire il rapporto molto speciale e coinvolgente con il pubblico, rapporto che non esiste nel campo delle arti visive. Ciò che personalmente mi ha più impressionato è la qualità umana di tutti questi artisti, acrobati, giocolieri, equilibristi, musicisti, trapezisti… La precarietà, la pericolosità del loro lavoro, l’assoluta perfezione richiesta nell’esercizio, l’abnegazione, l’umiltà di tutta questa gente che rischia la vita e guadagna molto poco, quando guadagna. È una grande lezione di vita per tutti.
AF: Hai preso parte alle prime mostre di Arte Concettuale ma non ne hai mai accettato la componente teorica e ideologica. Perché?
DB: Perché da una parte è idealistica e dall’altra assolutamente incoerente. Tutti gli artisti che hanno fatto appello a questa filosofia, d’altronde, l’hanno dimostrato alla perfezione.
AF: Ma oggi come giudichi quell’esperienza che, nel bene e nel male, ha influenzato più di ogni altra l’arte degli ultimi quarant’anni con una fila infinita di epigoni?
DB: Questo periodo ha influenzato gran parte dell’arte che si è fatta fino a oggi, così come Duchamp il quale è stato riconosciuto, più di ogni altro, come padre spirituale del concettualismo. Io, nei limiti del possibile, me ne sono sempre tenuto lontano e continuo a farlo. Molte delle “innovazioni” alla fine degli anni Sessanta vengono ripetute oggi da un’orda di artisti che accademizzano tutto questo rendendolo per di più estremamente banale e commerciale. Buon pro gli faccia e tanto peggio per noi!
AF: E quali sono stati i tuoi contatti con la Land Art?
DB: Sin dall’inizio sono stato molto critico nei confronti della Land Art che era per me, tra tutte le ricerche vaste e variegate nate in quel periodo, la più idealistica e una delle più ambigue. Idealistica perché lasciava credere che l’arte potesse fare a meno della società andandosi a sviluppare nei deserti; nello stesso tempo era ambigua in quanto veniva proposta in tutti i musei sotto forma di foto a volte ingrandite in scala uno a uno. Quando queste foto non erano esposte, allora si doveva andare sui luoghi per ammirare le opere dal vero. Hanno, dunque, inventato il turismo artistico di lusso. A me interessa il paesaggio quando è il risultato della mano dell’uomo, quando è stato lavorato per centinaia, perfino migliaia di anni, con continuità, quando la “natura” è il risultato del disegno degli uomini, così come lo sono la città, il villaggio, la casa.
AF: Tu hai collaborato con diversi architetti di grande prestigio come Jean Nouvel. Ma quale è la differenza sostanziale tra arte e architettura?
DB: Per me la differenza sostanziale risiede nel fatto che l’architettura può essere solo funzionale e che l’arte, a priori, non lo è per nulla. L’architettura è sempre fatta con uno scopo, per una richiesta, per una necessità, un bisogno. L’arte, invece, non ha queste necessità: è fatta per niente e per nessuno. Può essere che, col tempo, assuma una funzione ma, in questo caso, è solo a posteriori.
AF: La forma a righe con bande alternate bianche e colorate della larghezza di 8,7 centimetri rappresenta un outil visuel, uno strumento visivo per entrare in contatto con la realtà e intercettare il mondo esterno; in definitiva, un lasciapassare per lo sguardo che ti ha permesso di realizzare interventi estremamente variegati. Ma rinunceresti alle tue famose strisce?
DB: Chiederesti a Maurizio Pollini oggi all’età di settant’anni di abbandonare il suo piano dopo averlo utilizzato per 57 anni?
AF: Lo sai che a Colle Val d’Elsa sono ancora arrabbiati perché le piazze e la fontana sono realizzate con strisce bianche e nere che ricordano i colori dello stemma di Siena, la loro acerrima rivale. E questo non è un aneddoto del Medioevo, ma fa riferimento a un progetto completato lo scorso anno.
DB: Mi ricorda un progetto recente, un’aspra critica che mi è stata rivolta da uno degli abitanti della città, indicandomi che avevo messo in cima al progetto in questione, composto da sette diversi colori, il colore della squadra di calcio nemica da sempre della città vicina. A proposito della Toscana, tutta la regione è disseminata di grandi e piccole chiese dove si possono vedere strisce (generalmente orizzontali) di pietre alternate bianche e nere. Siena non ne ha l’esclusività, né Volterra, né Pistoia, né nessuna. Tale osservazioni sono, mi sembra, un po’ ridicole.
AF: Non hai mai pensato che il tuo lavoro fosse inadeguato al paesaggio naturale che ti trovavi di fronte?
DB: No, ma certe persone possono certamente pensarlo.
AF: Gli interventi che realizzi devono la loro esistenza all’interazione diretta con la forma dei luoghi. Nel 2012 hai realizzato due grandi progetti. Il primo al Grand Palais di Parigi in occasione di Monumenta e il secondo al Parco Archeologico di Scolacium in occasione di “Intersezioni”. Esiste una relazione tra due luoghi così diversi? A ben vedere sono entrambe due forme di archeologia.
DB: Si possono, senza difficoltà, trovare molte corrispondenze tra questi due luoghi, come con altri apparentemente senza relazione tra loro. L’unica cosa importante per me, è il modo in cui questi luoghi agiscono in rapporto alle opere. È in questa relazione che si possono trovare coincidenze o incroci tra Scolacium e il Grand Palais.
AF: A Scolacium, per la prima volta, sei intervenuto su un’intera città antica, non su un singolo reperto o monumento. Hai coinvolto il Foro, la Basilica, il Teatro romano, oltre all’uliveto, attraverso un’operazione che non rievoca il passato, ma consente di andare incontro a una narrazione dove i dati reali si mescolano con quelli puramente fantastici. Nel Foro, per esempio, hai fatto emergere un colonnato a strisce verticali bianche e bordò “giocando a fare l’archeologo” confermando la componente ludica del tuo lavoro spesso sottaciuta.
DB: I cilindri prendono a modello i resti ancora visibili delle antiche colonne. Ne ho fatto una replica identica al diametro e all’altezza del cilindro; ho utilizzato, poi, la distanza tra le colonne per disegnare la griglia sulla quale i cilindri sono stati collocati. A questo punto non abbiamo né a che fare con una ricostruzione, né con un’imitazione di non so quale tempio perduto, ma con la nascita di una punteggiatura geometrica puramente astratta e senza nessuna realtà archeologica né storica, prendendo, invece, come punto di partenza le vestigia di un lungo colonnato sul ciglio del Foro riportato alla luce dagli archeologi. Una sorta di gioco virtuale, quindi, un’invenzione senza nessuna attinenza con una qualunque verità storica.
AF: L’intervento nel Foro ricorda uno dei tuoi lavori più famosi, Les Deux Plateaux, realizzato nel 1985 nella corte d’onore di Palais-Royale a Parigi che fu a lungo contestato. Oggi è diventato uno dei simboli della Ville Lumière.
DB: Effettivamente c’è una somiglianza evidente con i poligoni del Palais Royal. È la prima volta, da allora, che riutilizzo una forma uguale in un luogo completamente differente.
AF: La componente emozionale è sempre più consapevolmente presente nei tuoi lavori recenti. Lo notavamo insieme al Grand Palais analizzando la reazione del pubblico. E proprio a Scolacium la reazione più imprevedibile è stata quella degli archeologi che hanno talmente apprezzato l’inserimento di due finestre rosse e gialle nei vuoti della Basilica normanna da desiderare che il lavoro rimanesse in permanenza. Mi pare un bel risultato. Solo qualche anno fa sarebbe stato considerato un sacrilegio.
DB: Questo fatto merita un’attenta riflessione che farò.
AF: Nel Parco di Scolacium, al centro del Teatro romano, è collocata una struttura specchiante lunga 33 metri e alta 3 che ricostruisce virtualmente l’emiciclo. Una molteplicità segnica che imbroglia e imbriglia. Che si tratti di una metafora della storia di ieri e di oggi dove fatti reali e immaginari si confondono e si mescolano?
DB: Questa grande parete riflettente nel mezzo dell’emiciclo lo taglia in due, mentre ricompone visivamente quello che occulta. Abbiamo, quindi, l’impressione di trovarci al centro dell’emiciclo completo prima di renderci conto che la sua metà è nascosta e, quindi, che l’immagine occultata è solo l’inversione della realtà fisica nella quale ci troviamo e non la ricostruzione esatta della parte mancante. Da questo gioco di specchi ne possiamo dedurre che la visione della storia, al contrario di quanto ci vogliono far credere, è tutt’altro che oggettiva. In realtà appare sempre come una sorta di trompe-l’oeil, deformato, perfino parzialmente reinventato.
AF: Accanto all’aspetto ludico ed emozionale, la mia impressione è che il rispetto assoluto delle regole sconfini verso il paradosso con accadimenti spesso imprevisti e imprevedibili.
DB: Sono d’accordo con te. Penso che la messa a punto del dispositivo debba essere il più preciso possibile, come gli ingranaggi di un orologio e che solo a partire da questo meccanismo senza difetti, sia possibile l’evasione e l’immaginazione: la virtù di un tale meccanismo è proprio liberare l’immaginazione di chi lo guarda. Un errore bloccherebbe definitivamente il pensiero e la possibilità di andare oltre.
AF: Quali sono i tuoi prossimi impegni?
DB: Un progetto pubblico e permanente a Chemnitz in Germania sulla ciminiera più alta di Europa (equivalente all’altezza della Torre Eiffel), un altro pubblico e permanente per la stazione di Tottenham Court Road a Londra. E poi, con un team composto da architetti, ingegneri, designer, scultori di luce, creatori di suoni, si trasforma tutta la città di Tours in Francia attraverso la collocazione di una linea tranviaria per la quale faccio il rivestimento, come per tutte le stazione di fermate collegate, oltre a cinque o sei piazze attraversate dalla linea, dal nord al sud della città. Questi lavori di ampio respiro iniziati alcuni da più anni sono accompagnati da mostre personali o collettive a Bruxelles, Los Angeles, New York…