Stella Santacatterina: Con te vorrei cominciare dall’esordio londinese, dove ho visto per la prima volta il tuo lavoro dal vivo. Sono rimasta positivamente sorpresa, l’ho sentita come un’esperienza radicale e nuova. Questo mio giudizio è stato confermato anche dal mondo dell’arte londinese. Sei stato anche tu sorpreso da questa velocità?
Daniele Puppi: Certo. Rispetto ai tempi lunghi italiani mi ha sorpreso, anche se subito non ci ho dato peso perché conoscevo poco o nulla la situazione inglese. Figurati che il motivo per cui accettai di fare la mostra a Londra da Niccolò Sprovieri riguarda indirettamente Massimo De Carlo, il quale mi disse: “Tu devi andare a Berlino o a New York, Londra non serve e soprattutto non serve che tu faccia una mostra da Sprovieri”. In quello stesso istante decisi che era proprio il caso di vivere a Londra e fare la mostra da Sprovieri… Il resto è Storia, la mostra fu molto apprezzata, è da lì che la Lisson Gallery mi invitò a lavorare con loro.
SS: Ma un tale comportamento è dettato da una sfiducia verso i galleristi e il genere umano in generale?
DP: No, non direi che è una questione di sfiducia. Per principio non faccio mai quello che fanno gli altri o quello che mi dicono di fare. È semplicemente una sfida con me stesso.
SS: Ah, adesso che parli di sfida è tutto più chiaro, in effetti è proprio una sfida quella che fai con lo spazio. Penso a Fatica no 25 alla Lisson, dove un gigantesco piede schiacciava e attraversava la galleria, trasformando completamente la percezione dello spazio. Non esisteva più, era azzerato. Lo spettatore era interamente spiazzato, coinvolto in questa illusione di verticalità e sprofondamento. Mi viene in mente quello che scrisse allora un critico inglese: “Until I saw this work I never knew a work of this calibre was possibile”…
DP: Certamente. Mi spiego meglio con un aneddoto. Durante le riprese di un film di Herzog, mi sembra riguardasse Fitzcarraldo, un indio che stava disboscando con una motosega il sentiero fu morso da un Black Mamba. Il poveretto aveva soltanto 7 secondi per decidere se tagliarsi la gamba o morire, lui reagì istantaneamente e si tranciò la gamba con la motosega…
SS: Mi stai forse dicendo che le tue opere sono frutto di un’ispirazione momentanea?
DP: Direi di sì, non solo il mio lavoro ma anche la mia vita, gli affetti, le relazioni. L’uomo calcolatore è un codardo. Affermo questo perché i calcoli hanno a che fare con il guadagno e la perdita, e l’opportunista si preoccupa sempre di ciò. L’artista invece si occupa di tutt’altro…
SS: C’è un altro aspetto che emerge dal tuo lavoro, il fatto che è irrappresentabile, indicibile. Mi spiego meglio. Mi sono trovata completamente coinvolta, stravolta dall’accadere di questo evento che mi obbligava ad abbandonarmi a una condizione di oblio.
DP: Quello che hai provato è un’ulteriore conferma che, grazie a Dio, il lavoro funziona: non c’è una narrazione, non c’è un inizio, non c’è una fine, nemmeno qualcosa da interpretare, c’è soltanto il momento in cui ci si imbatte nel lavoro, allora forse qualcosa può succedere.
SS: Quando ho detto che la tua opera è irrappresentabile, impossibile da descrivere, è perché quello che a me è rimasto è soprattutto una esperienza sensoriale, sarei tentata di dire “visione sonora”. Il lavoro non è facile da definire, anche per quanto riguarda l’uso dei materiali. In generale si potrebbe dire che fai delle installazioni video-sonore o site specific, ma questo ancora non spiega nulla…
DP: Se lo sapessi forse te lo direi, il punto è che non lo so. Certo, gli obiettivi che mi prefiggo sono sempre quelli: esplorare lo spazio, farlo “esplodere”, raggiungere la sintesi delle percezioni, fare qualcosa che sia immediatamente visibile, udibile e tangibile, ma non sono sufficienti a fare un buon lavoro, deve accadere qualcosa… qualcosa che mi permetta di “vedere.”
SS: Finora abbiamo parlato delle “Fatiche”. C’è un altro aspetto del tuo lavoro: i “Frammenti”. Ne vuoi parlare?
DP: Diciamo che i “Frammenti” possono esistere perché esistono le “Fatiche”, non potrebbe essere il contrario, anche se hanno una loro vita autonoma. Comunque, anche nei “Frammenti”, come nelle “Fatiche”, l’immagine è una sintesi, deve essere trovata, non è mai uno still da video. Da un punto di vista tecnico i “Frammenti” sono delle immagini fotografiche ad alta definizione che realizzo con il banco ottico. Successivamente, a stampa ottenuta, c’è un ulteriore passaggio di coloritura a mano sia sulla stampa fotografica di base che sui materiali trasparenti, che montati assieme formano il “Frammento” vero e proprio. Ne risulta una sovrapposizione di piani della stessa immagine che incamerano lo spazio e incantano l’occhio.
SS: Hai più volte dichiarato di non scegliere mai il luogo dove realizzare un lavoro, che uno vale l’altro, e di fatto, vedendo le tue opere, risulta chiaro che non hai un rapporto dialettico con i vari spazi — quello che tu realizzi è un altrove. Eppure, allo stesso tempo, il rapporto con l’architettura nel tuo lavoro è forte. Inoltre, per esempio, l’anno scorso eri interessato all’invito della Biennale di Architettura di Venezia, anche se poi non facesti il lavoro perché il gioco non valeva la candela. E ancora, dalla tua mostra in Germania nel museo ideato da Gehry hai iniziato degli scambi con lui, insomma, questo rapporto con l’architettura e gli architetti è sempre presente. Puoi spiegare?
DP: Mi piaceva l’idea di un confronto diretto tra “Architetto” e “Artista”, una specie di duello “spaziale” e leale dove l’illusione reale dello spazio architettonico entra in rapporto con l’illusione reale dell’arte. Ma non in un rapporto di sudditanza come si vede quasi sempre in giro nei musei o nelle biennali internazionali, ma di pura potenza; la materia “pesante” dell’architettura contro la materia “sottile” del suono e della videoproiezione. A Venezia ebbero paura, non rischiarono, non mi lasciarono fare il lavoro che volevo. Temevano un suono talmente potente da mandare in risonanza l’intero spazio scrostando muri e cartongesso in un colpo solo, erano tutti preoccupati di fare il loro compito in classe da bravi architetti. Il risultato fu disastroso per loro, e il Padiglione italiano passò completamente inosservato.
SS: Per concludere, cosa stai facendo adesso? Stai progettando una prossima “fatica”?
DP: Sì, sto preparando Fatica no 16 all’Hangar Bicocca di Milano per gennaio 2008.
SS: Numero 16? Nel 2004 alla Lisson eri alla numero 25. Che fai, torni indietro?
DP: Al contrario. L’avevo lasciata appositamente per l’Hangar Bicocca…