Stefano Raimondi: Uno scultore, un performer, un ballerino ma anche un cuoco e un wrestler. Chi è David Adamo e come si combinano tutti questi elementi?
David Adamo: Nel corso degli anni ho realizzato diversi lavori e coltivato numerosi hobby; penso che questa diversificazione e sperimentazione sia una caratteristica comune a molti giovani artisti newyorkesi. Ognuna di queste esperienze confluisce, anche se in modo inconsapevole, nel processo artistico. Per esempio, non penso alla danza o alla scenografia quando mi relaziono con lo spazio espositivo ma è indubbio che immetta nelle opere quell’esperienza che ho “incorporato” nel mio vissuto. Credo che il lavoro dell’artista consista proprio in un continuo e infinito assemblaggio di ingredienti, alla ricerca del giusto equilibrio: in questo non credo differisca molto da quello del cuoco.
SR: Nato a Rochester (New York) ma di stanza a Berlino, un trascorso di studi a Firenze e un’attività artistica che negli ultimi due anni ti ha portato in giro per il mondo senza tregua. Eppure questa tensione ad agire rientra perfettamente nel tuo processo artistico.
DA: Effettivamente negli ultimi anni gli impegni si sono moltiplicati e così anche gli spostamenti. Nel contempo il lavoro è diventato più mirato e pensato, spesso realizzato direttamente in sito. Capita sovente che mi trovi a produrre in tempi molto ristretti, ma questo limite temporale è anche un grande vantaggio perché imprime nelle opere una forte tensione ed energia. Mi piace pensare il lavoro come una costante sfida, non solo temporale ma anche e sopratutto fisica e psicologica: spingermi al limite tra quello che si può e non si può fare, sapendo che la partita viene giocata da più attori. I curatori, gli allestitori, le sculture, i guardiani di sala e l’istituzione stessa sono sottoposti alla medesima pressione, poiché desidero coinvolgere in questa sfida e in questo sforzo le persone con cui lavoro.
SR: Vedendo le ultime mostre ho notato un’attenzione sempre maggiore alla relazione tra la singola opera e l’intera architettura spaziale, come se l’allestimento servisse per trasformare lo spazio in un ambiente scenico.
DA: È vero, penso che questo dipenda dall’architettura dello studio in cui realizzo le mie opere da due anni. Sono passato dal lavorare in una stanza piccola e bassa a uno spazio ampio e a cupola. Questo mi ha permesso di rapportarmi in modo diverso con i volumi, allontanandomi dalla visione singola dell’opera per abbracciare una struttura più organica.
SR: Con questo credo si possa spiegare anche il progressivo allontanamento dalla dimensione figurativa delle sculture.
DA: Se inizialmente utilizzavo oggetti culturalmente definiti che rientrano nell’uso quotidiano, come il bastone, l’ascia, il martello o le mazze da baseball, quando ho potuto lavorare in uno spazio più complesso, con legni più grandi, il lavoro è diventato più astratto. Le opere sono passate dall’essere un’estensione del mio braccio a essere un’estensione dell’intero corpo; talvolta sono così pesanti che non posso nemmeno muoverle, e devo lottare a lungo prima di riuscire a vincerle. Considero le recenti installazioni come paesaggi interiori e dedico molto più tempo a giocare con l’architettura.
SR: La mostra personale alla Galleria Untitled di New York è stata in questo senso un punto di svolta, anche per quanto riguarda i materiali usati.
DA: Molto tempo fa una persona importante per la mia formazione mi consigliò di lavorare con il legno e con il profumo; scolpire poteva soddisfare entrambe queste esigenze. Ho iniziato a “frantumare” manici di oggetti comuni che erano fatti principalmente di frassino e noce americano, poi i primi pezzi di legno di pino, che trovavo più facilmente. A partire dalla mostra di New York ho realizzato la maggior parte delle installazioni con legno di cedro perché sono rimasto colpito dall’intensità del profumo e del colore, che si integrano perfettamente con l’idea organica d’opera d’arte di cui parlavamo poc’anzi.
SR: Le sculture che nascono dal legno tagliato, svuotato, scavato o assottigliato, hanno un’esistenza minima, un equilibro incerto e precario, un minimo grado di tenuta.
DA: Mangio le unghie, quando mi siedo a tavola con degli ospiti piego compulsivamente il tovagliolo, ho un’ulcera, fumo, bevo, mi vergogno, i miei polmoni soffrono, mi preoccupo delle ernie, conto le calorie, allo stesso tempo provo a tenermi in salute, compro cibi biologici, mangio frutta e verdura, prendo lezioni di pilates su YouTube, bevo infusi di erbe cinesi e faccio sedute di agopuntura. Tutta la mia vita quotidiana si basa su questo equilibrio difficile e precario con il corpo, che poi è l’equilibrio difficile e precario delle sculture medesime.
SR: Quanto è importante la routine per raggiungere questo equilibrio?
DA: La routine è molto importante per il mio lavoro, il mio metodo è strettamente connesso alla ripetizione costante di un gesto. In un certo senso penso di essere una persona affezionata alla routine.
SR: Pere, mele, arance, chicchi d’uva, frutti realizzati in gesso e morsi come se si volesse mangiarli in un sol boccone sono disseminati, seppur nascosti o addirittura invisibili, negli spazi espositivi. Che valenza hanno e in che relazione si pongono con gli altri elementi?
DA: Qualche anno fa realizzai una performance in cui creai una grande natura morta fatta di frutti di ogni tipo: arance, pere, mele, grappoli d’uva. Passai la notte intera in galleria a mangiare la frutta e quello che avanzò furono gli scheletri, i torsoli, le bucce. Rielaborando questa immagine ho creato una varietà di frutti in gesso morsicati o mezzi mangiati. Anche quando sono nello studio, mentre scolpisco il legno, il mio assistente mangia la frutta, mi piace fissare questi momenti così teatrali, creando un calco, modellando un istante.
SR: Nella tua ultima mostra a Bergamo, presso la basilica di Santa Maria Maggiore, hai introdotto per la prima volta una presenza animale.
DA: Durante il sopralluogo nei matronei della basilica è stato spontaneo aprire una piccola finestra che dava su un affresco della navata raffigurante Deborah, antica Sibilla delle Api. Ho poggiato alla parete della finestra una vecchia scala a pioli su cui è possibile salire per vedere questo affresco, mentre sulla parete opposta, in corrispondenza della finestra, ho posizionato un’arnia contenente duemila api. Le api possono uscire dall’arnia e girare liberamente per la città, diffondendo in questo modo il loro messaggio e creando una serie di possibili rimandi con il luogo espositivo. Mi affascina la relazione tra interno ed esterno, tra spazio accessibile e nascosto, tra musica e silenzio.
SR: La musica in effetti ritorna spesso come un desiderio ossessivo ma anche incompiuto, se ne avverte la presenza ma non il suono.
DA: La verità è che ho sempre desiderato essere un musicista, mi è sempre piaciuto immaginarmi come un violinista virtuoso. Un Natale di tre anni fa ho ricevuto in dono un violino, che ho utilizzato in ogni modo, senza però mai suonarlo. Così cerco di portare la passione per la musica nelle mostre, anche se agli strumenti è sempre sottratto il suono: dell’arpa rimangono solo le stringhe ma non il corpo, il violino è chiuso in due blocchi di legno, l’archetto ha dimensioni raddoppiate rispetto al naturale. Il processo è analogo a quello delle sculture, in cui rimuovo qualcosa per offrirlo all’immaginazione. Perché sottrarre non significa necessariamente diminuire ma arricchire di nuovi significati.