Giancarlo Politi: In una recente intervista hai usato il termine “classicismo” per definire il tuo lavoro.
David Salle: Uso il termine “classicismo” per indicare uno spirito di totalità nel riflettere sulla natura dell’oggetto che si sta facendo. Non si riferisce solo a un tipo un po’ datato di stile greco o romano; per me vuol dire analizzare la cosa che si sta facendo nella sua natura essenziale. È questa riflessione sulla natura dell’oggetto pittorico come tale che mi permette di usare l’ironia, per esempio. L’ironia fa parte di questo atteggiamento verso la natura dell’oggetto, non ha nulla a che fare con il cattivo gusto o con il kitsch. È un modo per spingere a osservare il quadro, e a osservarsi mentre lo si guarda. Credo che anche questo sia classico. A mio parere, più si osserva qualcosa più in là ci si spinge nello “spirito” della sua produzione, al punto che questi concetti — classico, anti-pittura, ecc. — si rivelano lati diversi della medesima cosa.
GP: In un articolo sei stato chiamato “l’assassino della pittura”; sei d’accordo con questa definizione?
DS: Sì, ma non basta. Ogni grande artista è un assassino della pittura; forse non tutti, ma molti. A mio parere, i pittori più grandi, come Johns o Manet, mettevano in discussione la natura dell’oggetto pittorico in un modo che potrebbe essere definito assassinio della “datità” della pittura. Ciò significa però che il quadro più emozionante, più spirituale, può essere un quadro orrendo. C’è un malinteso nell’opposizione tra arte e anti-arte, credo che essa sia completamente inadeguata a descrivere il mio lavoro. La bellezza sta nel costruire qualcosa e poi abbatterlo, in modo da poterlo costruire un’altra volta, è un processo mentale. Quando penso al mio lavoro penso al classico e alla bellezza, ma anche alla critica e alla negazione; sono cose inseparabili per me.
GP: L’idea di bellezza si trasforma col tempo, e tu sei un artista che ha contribuito molto a espanderla. Forse è un mio limite, ma non posso guardare e interpretare il tuo lavoro come quello di Matisse o di Jasper Johns.
DS: L’opera di Johns è più schiettamente filosofica e “problematica”. Sono d’accordo sul fatto che il mio lavoro non ha nulla a che fare con Matisse. Se pensi che la pittura al suo livello più alto sia Matisse o Picasso, allora puoi davvero considerarmi un anti-pittore. Credo che siano pittori interessanti, ma che non influiscano sulla coscienza odierna. Ma anche questo è un falso problema. Se guardi i miei quadri e pensi alla bellezza, bè, forse non è ancora giunto il momento. C’è ancora tempo.
GP: Quando lavori, in che modo sei coinvolto, mentalmente, fisicamente, sensualmente?
DS: È tutto molto intuitivo e interiore.
GP: Perché lavori soltanto su superfici di grandi dimensioni?
DS: Ho bisogno di una certa area per dipingere, se è troppo piccola è come una miniatura, non sembra reale, è simile a una fotografia. A partire da una certa scala qualsiasi particolare acquista uno spessore emotivo.
GP: Fai mai un disegno prima di cominciare a dipingere, o anche un progetto?
DS: Mai. È come un pezzo teatrale improvvisato, non c’è copione. C’è una routine, ma sono semplicemente delle strutture che saranno poi trascese nel corso del processo.
GP: Ma molti trovano una dominante mentale nel tuo lavoro…
DS: L’aspetto finale dà questa impressione ma il processo attraverso cui vi si arriva non è per nulla mentale. Credo che neanche l’aspetto sia mentale, ma all’inizio lo sembra.
GP: Ti piace lavorare?
DS: Oh, certo. L’arte è immaginazione. Chi guarda il mio lavoro e lo vede solo come anti-pittura perde contatto con argomentazioni più immaginative, ed è un peccato.
GP: Riesci a lavorare in presenza di altre persone?
DS: No, per questo c’è la porta! A parte gli scherzi, per me è un’attività privata. È come recitare, improvvisare; se interrompi quello che stai facendo distruggi il personaggio.
GP: Sì, ma mi avevi detto, per esempio, che quel quadro non è ancora finito…
DS: È difficile dire quando è finito. L’unico modo per saperlo è conviverci per un po’ di tempo. Il quadro deve avere un’esistenza autonoma: o assume una realtà separata, e allora è finito, o non è riuscito. Vedi, il mio lavoro vive di questa alternativa netta tra fallimento e riuscita; per dirsi riuscito, il quadro deve essere qualcosa di più di una mera estensione della mia sensibilità. La non riuscita significa aver fallito, mentre, per altri artisti, un quadro meno buono di altri non è necessariamente un fallimento. Per esempio, Francesco ha fatto quadri di non grande levatura, ma rimangono dei Clemente. Un mio quadro che non raggiunge questa qualità del tutto inaspettata è quasi come se non mi appartenesse.
GP: Come ti concentri prima di iniziare a lavorare, segui qualche genere di rituale?
DS: Sogno a occhi aperti, ho bisogno di sprofondarmi a lungo nella rêverie.
GP: Può essere una decisione a condurre all’interno del lavoro?
DS: Capita. Ma è difficile iniziare in questo modo, perché l’intervento della coscienza nel lavoro innesca dei circoli viziosi.
GP: Hai mai distrutto dei tuoi lavori?
DS: Bè, certo. Ma più spesso semplicemente li lascio perdere, non li finisco.
GP: Credi che la critica abbia compreso i tuoi quadri?
DS: Penso che il lavoro del critico e quello dell’artista siano due cose separate, diverse, che a volte coincidono nei loro assunti. Ho un’alta considerazione dei critici, il cui lavoro può valere autonomamente. In ogni caso, non sempre critica e arte coincidono. Non credo che le affermazioni dei critici debbano essere “giuste”; alcuni dicono delle cose simili a quelle che direi anch’io, altri fanno affermazioni a mio parere del tutto bislacche. Ma ci sono stati critici che hanno “afferrato” quello che io sento come lo spirito del mio lavoro.
GP: Preferisci leggere un critico che è d’accordo con te o uno che ti dà torto?
DS: Preferisco leggere un critico che ha un effetto tonico sul mio lavoro. Leggere è un’attività complicata, da un lato è bello che la gente apprezzi quello che stai facendo, ma questo non vuol dire sempre che la lettura sia interessante, talvolta interessa anche leggere chi ha un’idea del tutto diversa. Non gradisco che qualcuno mi attacchi in modo gratuito e non mi piace che il mio lavoro venga usato come simbolo del disagio della cultura.
GP: In che direzione va l’arte oggi?
DS: Non ho idee precise in proposito. Sono molto interessato a un certo tipo di ricerca sulla performance, che non ha molto a che fare con la pittura in generale ma che sento molto vicina alla mia pittura perché lavora su alcuni ingredienti basilari, semplici — quello che chiamiamo classicismo. Come sai, sono estremamente interessato al lavoro di Karole Armitage, che per me è un’intensa fonte di ispirazione. In ogni caso, non posso dire quale sia la tendenza in senso specifico, anche se credo che tutto quello che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni sia generalizzabile come un mostrare differenti possibilità di usare un vocabolario di immagini che è quasi come un lavorare sull’astrazione, ma più “artistico” in senso stretto. Posso figurarmi diversi tipi di pittura eseguita usando tale vocabolario.
GP: In Europa abbiamo l’impressione che stia avvenendo una specie di restaurazione del clima culturale degli anni Settanta. Credi che questo sia possibile?
DS: Credo che quello che tu sembri descrivere come una specie di ulteriore “giro sulla ruota del tempo storico” sia qualcosa di diverso. Non dico che ciò non sia vero rispetto all’Europa, ma lo è per me. Credo che l’unica ragione per cui gente come Buren o Kosuth potrebbe essere di qualche interesse oggi sia che il loro lavoro sembra ancora più ridicolo adesso che cinque anni fa — cinque anni fa sembravano solo patetici, ora sono assolutamente grotteschi. La gente li riscopre perché sono bizzarri, quasi inspiegabili, ma è una cosa di nessuna rilevanza; ne ha meno adesso di dieci anni fa.
GP: Credi che la situazione attuale sia condizionata da quella degli anni Settanta?
DS: È abbastanza evidente, a mio parere, che l’estetica degli anni Settanta è stata il risultato quasi soffocante del formalismo dei due decenni precedenti. Potremmo quasi spiegarli in termini economici. Il determinismo formalista aveva creato una nuova classe artistica, qualcosa di simile a una nuova classe sociale, a cui però il formalismo non aveva offerto gli strumenti necessari ad affrontare i problemi da cui era sorto. Si era venuta a creare una nuova classe di persone che si riconoscevano in un’identità “artistica”, classe che aveva certe aspettative intellettuali del formalismo ma era priva di tutte le altre componenti necessarie a sostenere la vita sul nostro pianeta.
GP: Provi ancora curiosità per il lavoro dei tuoi colleghi o ti sei rinchiuso nel tuo studio?
DS: Sono ancora curioso, ma in arte, per fare qualsiasi cosa, occorre rinchiudersi per lunghi periodi. Ho ancora interesse a vedere ciò che accade nel campo della performance, meno per quanto riguarda la pittura, che negli ultimi tempi mi pare diventata un prodotto sovrabbondante di genere imprenditoriale.
GP: Ti riferisci alla situazione dell’East Village?
DS: East Village o West Village è la stessa cosa, la mentalità non cambia. Credo che ciò che dico sia sempre stato vero, non credo sia frutto del 1985. New York ha sempre inseguito gli stili pittorici di successo, che fossero interessanti come negli anni Cinquanta, o meno interessanti come negli anni Settanta.
GP: Cosa è accaduto al tuo lavoro con la venuta del successo? È cambiato?
DS: Ho più mezzi a mia disposizione. È cambiato in termini di scala fisica ma il processo è quasi identico. La mancanza di residui da un quadro all’altro è la stessa.
GP: Quali sensazioni ti dà il successo?
DS: Nessuna in particolare. Ha significato dover lottare un po’ di meno. La sensazione predominante è di libertà, libertà dall’oppressione della falsa autorità, ma non si riversa molto all’interno del lavoro, l’opera deve già esprimere tale libertà per essere.
GP: Sei forse più sicuro di te stesso?
DS: No, lo ero anche prima. Un po’ di riconoscimento per un artista è senz’altro meglio di nessun riconoscimento, situazione che alla lunga può essere letale. In generale, avere poco successo è peggio di averne troppo.
GP: Per quanto tempo riesci a lavorare?
DS: Qualche volta tutto il giorno, altre non lavoro per niente, dipende.
GP: Hai un assistente?
DS: Sì, e mi aiuta moltissimo.
GP: Anche a dipingere? Prepara gli sfondi…?
DS: Fa solo i lavori di preparazione, di carpenteria. Non che sia contrario se qualcuno mi aiuti a dipingere, ma è un lavoro troppo complicato perché lo faccia qualcun altro.
GP: Ti piace vendere i quadri?
DS: Alcuni mi piace tenerli, altri preferisco venderli. Mi piace farli uscire da qui; dopo mi spiace, e a volte vorrei non averli venduti. Ma non ho bisogno di averli davanti agli occhi, ciò di cui ho bisogno è il prossimo quadro, quello che non ho ancora fatto.
GP: Così non hai una collezione personale?
DS: Una collezione piuttosto irrisoria.
GP: Ci sono dei quadri, tra quelli che hai fatto, che hanno un’importanza particolare per te?
DS: Sì, ma non significa che ho bisogno di tenerli, basta che sappia che esistono da qualche parte. In ogni caso, la mia concezione dei miei quadri si trasforma con il tempo, e cioè quello che era un quadro-chiave ieri può scambiarsi di posto con un altro il giorno dopo.
GP: Riesci a lavorare su più quadri contemporaneamente?
DS: Sì, ma non riesco a leggere e ascoltare musica allo stesso tempo.
GP: Qui in America non si avverte quell’odio caratteristico che i direttori di museo e i critici europei provano per i pittori di successo.
DS: E qual è il motivo di questo odio?
GP: Probabilmente la ragione principale è che questi artisti non hanno bisogno dei critici e dei direttori di museo, il loro lavoro piace ai collezionisti e al pubblico, guarda Cucchi o Schnabel. Tutto ciò ha a che fare con la restaurazione degli anni Settanta di cui si parlava.
DS: Credo che l’Europa sia sempre più ideologica dell’America, è una differenza culturale fondamentale. Gli europei sembrano spinti da forti motivazioni ideologiche, l’America è motivata e messa in movimento da forze di altro genere, che non conosciamo esattamente… cosa mi stavi chiedendo?
GP: Se ti sembrava di avvertire un certo rifiuto nei tuoi confronti in America.
DS: No, gli americani amano il successo, è una cosa fondamentale questa. Ma è un po’ più complicato perché non manca la gente che ritiene che il successo sia qualcosa di vergognoso per un artista.
GP: Cos’è più importante per il successo di un artista: le gallerie, i mercanti, i musei, i critici?
DS: Dipende dall’artista, dal tipo di lavoro, dalla creatività che la sua opera diffonde nel mondo. In alcuni artisti non c’è nulla nell’opera che offra degli appigli al discorso critico, e ciò malgrado abbiano successo, perché manifestano un’altra metafora della creatività. Per un artista il “successo” si usura in fretta, perché il denaro non è il solo indice del successo e il riconoscimento è troppo legato al momento. È difficile stabilire cosa sia veramente il successo, ma in ogni caso in America è qualcosa con una durata molto, molto breve.
GP: Pensi che sia possibile “inventare” un artista di successo?
DS: Mettiamola così, io credo che la gente in genere abbia ciò che si merita, prima o poi. Se la domanda è se credo che sia possibile vendere qualsiasi lavoro come arte, la riposta è ovviamente affermativa, ma non sono sicuro che sia la stessa cosa che avere successo.
GP: Se, per esempio, Leo Castelli volesse spingere un artista fino al successo…
DS: Facendo tutto da solo? La risposta è no ovviamente, in parte perché non gli verrebbe nemmeno in mente di provare.
GP: Ti faccio questa domanda perché molti nel mondo artistico europeo credono che ciò sia possibile…
DS: È il tipo di immagine diffusa da persone che occupano in modo abusivo posizioni di potere. Quest’immagine che pochi potenti decidono tutto genera reazioni molto complesse. Amiamo e odiamo le immagini di potere, ma l’immagine può sempre essere separata dalla realtà.
GP: Chi ha contribuito di più al tuo successo?
DS: Non so quanto questo abbia contribuito, ma, nel bene o nel male, i miei quadri hanno sollevato discussioni, non tanto in termini di successo quanto di ciò che l’opera rappresentava. Credo che artisti diversi abbiano ruoli diversi all’interno del mondo artistico, alcuni hanno il ruolo di ispiratori, il mio sembra essere più di stimolo alla discussione.
GP: Quali sono gli artisti contemporanei che preferisci?
DS: Diciamo che trovo qualcosa che mi piace un po’ dappertutto, ma è una domanda difficile. Non credo che come idea sia più funzionale, poiché riesco a pensare a molte cose interessanti ma che non rappresentano un genere di consapevolezza di qualche utilità per me.
GP: Ma quando guardi al lavoro di altri, come lo giudichi? Sei sempre David Salle che guarda i quadri di un altro e così li giudica come se fossero i suoi?
DS: Succede qualche volta, ma non sempre. Se dovessi guardare al lavoro di un altro lo guarderei nelle determinazioni specifiche del suo lavoro, ma non sempre si riesce.
GP: Credi che gli artisti siano buoni critici quando guardano il lavoro dei loro colleghi?
DS: Ancora una volta, è impossibile generalizzare, alcuni lo sono altri no. Nella maggior parte dei casi non è così, ma alcuni, come Alex Katz per esempio, sono semplicemente straordinari. Non so come spiegare perché. Parrebbe una cosa importante essere un buon giudice di se stessi ed estendere tale capacità di giudizio alle opere di altri, ma è difficile distinguere le componenti auto-riflessive del proprio giudizio da quelle esteriori, oggettivate.