Le azioni di Davide Savorani sono blocchi apodittici, geometrie belligeranti, danze di maschere e di armi fatte con il cartone piegato. I personaggi hanno elmi, corazze, stivali da combattimento, microfoni e mazze; rappresentano guerrieri stellari, ladri o sentinelle con il volto coperto da maschere cubiste senza fori per gli occhi. Il cartone è il nuovo metallo forgiato, con righello e forbici, per eroi da camera.
Le maschere sono qui per compiere un lavoro: prendono posizione in un angolo dello spazio e non lo lasciano più, come fossero luogotenenti. Sono fi gure anonime e geometriche e l’anonimato che interpretano è probabilmente lo scopo ultimo della battaglia. Prendere un’arma e perdere il nome, essere nessuno a viva forza e, in potenza, essere tutto. Occupare un angolo, moltiplicandone all’infinito i vettori spaziali come le proiezioni di un’esplosione. Le azioni di Savorani non sono costituite da coreografi e, non sono gesti teatrali disegnati nello spazio; i suoi personaggi scoprono lo spazio per la prima volta e rimangono sul luogo, dissolvendolo in un incendio, fino all’esaurimento del combustibile muscolare, come macchine che escono dallo spirito. La forma dei loro balli sembra trarre ispirazione da un folklore notturno, fatto di una sostanziale amnesia, che affonda senza mezzi termini nelle radici oscure del teatro, per poi scoprire di doverle recidere di sana pianta. Il folklore abbatte in un colpo solo il teatro, ignorandolo; la bassa frequenza delle sue immagini elude la complessità drammaturgica del teatro, spostando il punto di vista verso una tappa precedente l’avventura dell’uomo, verso una singolarità preindividuale non ancora — del tutto — succube del linguaggio. Questi balli rappresentano probabilmente una possibile festa della maschera in illo tempore, organizzata intorno al vuoto essenziale lasciato da un totem perduto. Ma a ben vedere, quello di Savorani è un falso-folklore-totale che non appartiene ad alcun luogo; non ha un’età né un popolo, una tradizione, una memoria o uno scopo; non vi sono antenati né morti.
La falsità erige se stessa come nuovo totem mancante e come nuova tradizione. Bisogna alterare la tradizione e creare uno spazio per l’immaginazione. La finzione esige completa presenza, completa corruzione. Come fare? Occorre aspettare che qualcosa accada in un assoluto potenziale immobile che potremmo chiamare danza perfetta. Un corpo in contatto con gli occhi della gente; un avanzamento drammatico in un bagliore a bassa defi nizione. Il falso ballo folklorico di Savorani annichilisce gli spazi di manovra intellettuale dello spettatore, che pare cadere in un’incapacità di giudizio. Ciò che toglie il terreno da sotto i piedi è la mancanza di un contesto in generale, ossia di un quadro umano del sistema-teatro che si accende ogniqualvolta vediamo qualcuno esibirsi davanti a noi e che richiede la nostra fatica ermeneutica. Ebbene, la strategia di queste maschere consiste nell’“eccedere” il significato, annullandolo al suo insorgere. Lo spettatore avverte la presenza di una finzione senza scopo; non solo il linguaggio folklorico è falso, ma anche la stessa esigenza di inventarne uno suona falsa. In effetti, non c’è alcuna necessità. È questa la buona notizia.
Alla fine, le azioni di ballo di Savorani sembrano dire: “Tu, guardami. Sono qui, sono sempre stato qui. In questo momento vivo sulla terra e non so cosa sono. So che non sono una categoria. Non sono una cosa. Non sono un nome. Sembro un verbo, un processo di evoluzione, una funzione integrale dell’universo. I miei passi sono colpi senza ego. Ora, quello che sto percuotendo con i piedi, anche se non te ne sei accorto, è il nostro posto. La terra”. Questo avviene anche quando Savorani disegna: i disegni risultano impersonali nella loro linearità, senza sbavature o apparenti indecisioni, come quelli ricalcati con la carta copiativa. La matita non passa mai due volte sullo stesso punto, come se la presenza dell’artista fosse altrove. Questi disegni mi ricordano quelli di Henry Darger, ricalcati dalle stampe popolari e commerciali della sua epoca, o quelli (possibile?) di un Buster Keaton. Vogliono qualcosa e alludono a un sistema logico in un mondo da interpretare nuovamente, cercando di spiegare drammaticamente come si fa. Spesso sono ordinati in sequenze, come i disegni delle istruzioni che illustrano come assemblare qualcosa. Ma anche il “saper fare” è altrove e l’effetto che sortiscono è quello di un umorismo malinconico, di una tecnica inadatta da sempre. I disegni di Savorani insegnano, per esempio, a incrociare in un certo modo le dita, a fare e disfare una palafitta o a scavare, nudi, un grande buco in terra con una pecora sdraiata accanto, a tenere una coda di cavallo tra le gambe o a infi lare un paio di mocassini a un animale su una poltrona; insomma, non hanno idea dell’esperienza della vita reale. The Realms of Unreal era appunto il titolo dell’opera di Henry Darger. Questi disegni sono il frutto di una strategia per non vedere il mondo. Infatti, il mondo che rappresentano è quello dell’immaginazione pura e della combinazione endocrina, una cortina di linee-oggetti-azionipersone eretta a bastione contro l’esperienza tout court.
“Devo solo chiudermi in camera, devo solo comportarmi come Henry Darger, disegnare, disegnare ancora, cercando di ripulire al massimo le linee dalla mia biografia, dormire seduto e possedere il romanzo del mondo. Per intero. Guarda: il nostro mondo che io immagino”.