Guardando alle cose con un certo senso di irriverenza, senza giustificazioni narrative e con strabismo alieno, le opere di Davide Stucchi vanno incontro alle loro vicende senza troppo riflettere, senza esitare; la familiarità con un certo altrove, ne è solo la fisiologica conseguenza. Stanno sulla soglia dell’immagine senza prenderla senz’altro per reale, su quella soglia che attraversa la trama dell’esperienza restandone dubbia e sempre distante.
Mathilde Agius (2012) deve il titolo alla fotografa che ne ha prodotto un ritratto nel contesto della mostra “Pose Position” presso 1M3 a Losanna. Ispirata a un tatuaggio tribale e al procedimento stesso del tatuare si da un inizio volumetrico fatto di tubi di latex, cavi, perle di legno. Pensata per essere fotografata, esordisce come scultura, poi da corpo proprio, seppur segmentabile, nei lavori successivi si trasforma in un corpo in frammenti. È proprio in questo che risiede la sua performatività. Nelle sue dimensioni variabili, nelle infinite posizioni che può assumere, si annida una trappola per lo sguardo. Presupponendo gesti che procurano lacune o memorie tardive, l’immagine della scultura viene poi amplificata, ridotta, trasferita a laser su pelle e installabile a muro, fotografata come una maschera sul volto dell’artista. In una delle opere dallo stesso titolo, ad esempio, la foto viene ruotata di 90 gradi e manipolata digitalmente per ottenere un disegno che evoca un volto umano. L’opera diventa così l’avatar di un’altra opera, è il resto di un’astrazione che si libera definitivamente dalla concretezza. Dice Stucchi a proposito: “ Utilizzo il laser sui materiali come tecnica di stampa antitetica all’utilizzo di colore e inchiostri poiché funzionante per sottrazione all’immagine”. Dopotutto, occorre sempre far saltare in aria l’insieme delle cose, svuotarlo, metterne in discussione lo statuto rassicurante, ridurlo a un granello di sabbia o in miliardi di molecole, per poterlo ricostruire con una nuova presenza fisica e altra disponibilità.
Invitato lo scorso anno alla collettiva “Fuoriclasse” presso la GAM di Milano, Stucchi presenta quattro silhouette di carta che riproducono le superfici danneggiate di altrettanti iPhone, concepite per essere installate nella teca delle sculture di Medardo Rosso. La loro collocazione rimanda quella dei “planks” di John McCracken, l’artista a cui devono il titolo, e il lavoro viene realizzato in carta blu di Prussia, colore che ricorda gli accenti cromatici e l’idea di figurazione dello scultore minimalista americano. I vetri della teca bloccano i raggi solari facendo in modo che l’interno sembri illuminato autonomamente e questi elementi si dispongono a testimonianza di un completo naufragio della forma. In questo caso l’elemento dominante che definisce l’opera, non è esattamente l’iPhone, ma l’idea di rappresentare una scultura come schermo. Davide Stucchi, Améthyste, Medardo Rosso, John McCracken: c’è una sorta di vibrazione all’interno di queste ripetizioni, un esasperarne ossessivamente la consistenza. Soggetto e oggetto, immagine e contesto, si intrecciano e si confondono e nella scomparsa di ordine, il punto di inizio e quello della fine sono assolutamente identici.