Che cosa resta dei corpi dopo la necrosi della fisicità provocata dal capitalismo? Pelle e ossa. E polvere. E abiti, i calchi dei corpi che furono. Tutti questi materiali ricorrono nelle opere di Davide Stucchi (Vimercate [MI], 1988) e ne stimolano l’interpretazione nel solco di un progetto di riaffermazione del corpo, dei suoi meccanismi e della sua funzione sociale. Stucchi si definisce uno scultore, ma gran parte delle sue opere vede interventi minimi sulla materia: di sottrazione, deterioramento, alterazione dello stato chimico o lieve manipolazione della forma originale. Del resto cosa può scolpire uno scultore interessato all’umano quando questo suo soggetto è ridotto in frammenti, trasformato, trasfigurato, zombificato (dalla biopolitica, dalla tecnologia, dal consumismo, dal lavoro immateriale)? Reliquie, diremmo, resti corporali. E tali possono apparire a un primo sguardo le opere di Stucchi: simulacri di corpi devitalizzati. Eppure esse suscitano tra la materia inerte e lo sguardo dello spettatore una tensione che immediatamente rimanda alla vita. Perché questa tensione è presto detta desiderio, eccitazione sessuale. Un corpo che desidera è un corpo che esiste e che agisce – un corpo vivo.
L’opera Mattia (2015), ad esempio, è uno scampolo di pelle conciata su cui sono incise delle arcate dentali umane, come se quella superficie fosse stata presa a morsi da un individuo X. Il titolo dell’opera chiama in causa il partner dell’artista, figura che sta alla pratica di Stucchi come Ross stava a quella di Felix Gonzalez-Torres. Tuttavia, laddove il corpo di Ross è sempre implicato in assenza – è un corpo “al negativo” – quello di Mattia è agente e, di riflesso, agito. Che nell’intimità della coppia siano i denti di Mattia ad affondare nella carne di Davide o viceversa, poco importa; quei morsi su pelle sono un indice del vivificante desiderio dell’uno per il corpo dell’altro.
La cruda corporalità di certe opere di Stucchi potrebbe suggerire delle corrispondenze con quelle di Alina Szapocznikow: croste, carcasse, escrescenze di corpi femminili decadenti e libidinosi. Però Stucchi non partecipa del trauma di Szapocznikow, la spirale di “glamour e malattia e morte”[i] che l’artista polacca innesca in opere come i Tumors Personified (1971), e ricorre a immagini più sanitizzate. La sua opera V135 (2014), ad esempio, consiste in cinque cuscini di carta velina, originariamente impiegati per conferire volume a uno zaino nella vetrina del negozio; Stucchi ricompone i cuscini a evocare un torso maschile “tonico” – dal backpack al six-pack.
Quest’operazione è più vicina all’idealizzazione di un’immacolata superficie epiteliale operata da Ull Hohn nel suo ciclo di dipinti del 1993 in pasta modellante smaltata, noti come Tan Enamel. In risposta alla condanna del comportamento (e del corpo) omosessuale mossa dalla classe politica conservatrice nell’America dei primi anni Novanta, Hohn crea uno stato di pasta modellante percorso da segni “caotici” e “goffi”[ii], che successivamente ricopre con uno smalto color carne, come a censurare la plasticità della materia sottostante: “la patina di smalto monocromo neutralizza ciò che è percepito come ‘abietto’, caotico, e potenzialmente patogeno”[iii]. In Tan Enamel, così come in V135, intravediamo corpi reificati, a cui è stato sottratto l’afflato vitale.
Stucchi però non opera come Hohn braccato dal fantasma dell’AIDS… Nelle sue opere la riaffermazione del corpo non passa attraverso l’esorcizzazione della patologia, quanto la decostruzione dell’ideale corporeo così come professato dalla pubblicità, dalla moda, dal consumismo: un corpo iper-definito e innegabilmente eterosessuato, che per Stucchi non è più né oggetto di desiderio e tanto meno soggetto desiderante. L’artista quindi non interviene sulle strategie di rappresentazione del corpo, ma piuttosto sottopone “il corpo, i suoi organi e fluidi, … a un recupero plastico”[iv]. Ovvero, inventa nuovi modi di scolpire il corpo.
Il corpo del ragazzo di vita
I corpi maschili rappresentati nelle opere di Stucchi sono sempre sottili. E ciò non solo perché l’artista forza dei processi di riduzione della materia. In questo caso, pare voler liberare quei corpi da ogni elemento che li trasfigurerebbe nell’ambito del machismo e così riscoprire le fattezze di una mascolinità ridotta all’essenziale e, per questo, genuina, pasoliniana diremmo. La sfida è all’immagine pubblicitaria della mascolinità, quella per cui il corpo maschile “è tutto organo del sesso, o pretende di esserlo; ma … si tratta di un sesso né casto né impudico, né naturale né convenzionale, perché situato aldilà di tali partizioni. Situato cioè nella moda…”[v] I cui corpi aitanti sono in realtà defisicizzati e decarnalizzati.
Stucchi innesca quindi due riflessioni: critica la moda come sistema di regolarizzazione dei corpi, ovvero idealizzazione della natura nello standard rappresentato dal corpo del modello; e torna all’organo sessuale, che approccia quale soggetto scultoreo – non feticcio, ma semplice forma anatomica.
Per la sua recente mostra personale alla galleria Deborah Schamoni di Monaco, Stucchi ha disegnato un invito sul quale insieme al collage di un suo ritratto fotografico e dell’immagine di una delle sue prime sculture – Mathilde Agius (2012), qui ruotata di novanta gradi e posizionata sul volto dell’artista a suggerire lo schizzo di un volto – ha riportato le sue misure e caratteristiche facciali, come se l’invito fosse il composit di un modello: altezza 173, petto 95, vita 83, fianchi 94, scarpe 43, capelli biondo scuro, occhi blu.
Malamente appeso alla vetrata della galleria era l’invito indirizzato e mai recapitato a Eva Gödel, la fondatrice dell’agenzia di modelle e modelli Tomorrow Is Another Day. Aperta nel 2010, Tomorrow Is Another Day è tra le piattaforme responsabili di aver introdotto nell’industria della moda un inedito paradigma visivo della mascolinità, ovvero un’estetica che potremmo dire del “ragazzo di vita”, repentinamente trapiantato dal lumpenproletariat alla passerella e sottoposto a un grooming minimo che per nulla ne ha intaccato l’aspetto emaciato, heroin chic – in ogni caso, un ready made esente da un vero processo di iper-definizione del corpo.
Stucchi chiama in causa la vicenda di Tomorrow Is Another Day per testimoniare che la cultura visiva progressivamente asseconda sì l’immagine dell’anti-macho; allo stesso tempo, forzando un confronto tra il proprio corpo e quelli dei modelli dell’agenzia, evidenzia che le espressioni di una mascolinità viva non possono essere cercate nella moda. Perché qui troveremmo solo che “l’impudicizia [é] casta, e la castità impudica”[vi], per dirla con Pasolini. Ovvero troveremmo il genere sessuale ma non la sessualità.
All’altro dei due ambiti discorsivi accennati in precedenza appartengono le sculture Naso (pisello) (2017). Realizzate attraverso il semplice gesto del rimodellare una gruccia di metallo, sono “disegni spaziali” che, a seconda del punto di aggancio alla parete di supporto, evocano la silhouette di un naso o quella di un pene. La loro stilizzazione ricorda quelle “ombre ‘divine’” che il professor Giubileo dell’omonimo racconto pasoliniano intravede proiettate dal “rilievo” sui calzoni del Moro[vii] – laddove il “grembo” del Riccetto, costretto nel calzone domenicale in stile “giovane borghese”, è immediatamente “casto … senza un’ombra nel grigio”; è solo “un po’ spinto in avanti”…[viii]
Le sculture Naso (pisello) costellano la mostra di Stucchi a Monaco, nella quale l’artista ha invitato Corrado Levi a esporre un’opera di vecchi data, Cinture (1992), rititolata per l’occasione Desiderando gli amici. L’opera è un cavo d’acciaio teso in diagonale a cui sono appese decine di cinture maschili. L’ironia di Desiderando gli amici spiana la via a quella di Naso (pisello) – come a dire: confiscate le cinture, i calzoni fanno fatica a restar su… Entrambe queste opere iscrivono la sessualità in una cornice di frivolezza, gioco e jouissance. Tratteggiano un corpo maschile fatto sì di segni, ma comunque vivo. Così vivo che invita e sfida, perché non conosce l’impudicizia, né la castità. È finalmente un corpo sessuato.
Il corpo del twink
Applicare al corpo maschile un processo riduttivo e di sostanza e di portato simbolico significa privarlo di muscoli. Stucchi agisce in questa direzione: spolpa i corpi maschili, non della massa muscolare congenita a un corpo sano, ma dei muscoli innaturali, costruiti, estetizzanti.
Nello slang omosessuale il corpo maschile senza muscoli è detto di un twink. È un corpo magro e longilineo e spesso anche glabro; efebico in sostanza. Nel ventaglio di sembianze e atteggiamenti virili adottato dalla comunità omosessuale, il twink è agli antipodi del bear, nerboruto e peloso. Il bear è marcatamente mascolino, il twink è effemminato.
Lo scorso anno Stucchi ha realizzato un’opera intitolata Heat Dispersion (Mattia e Davide). Prodotta nel corso di una residenza a Triangle, a Marsiglia, e presentata in occasione della 16a Quadriennale d’Arte al Palazzo delle Esposizioni di Roma, l’opera consiste in due calchi in sapone dei corpi dell’artista e del suo partner, Mattia. Nell’opera i due corpi giacciono distesi, come se stessero dormendo ciascuno occupando la sua metà del letto. Sono nudi e sdraiati a pancia in giù, per cui né se ne coglie la fisionomia, né si intravedono i rispettivi sessi. Sono però chiaramente maschili, con le loro schiene triangolari, i glutei compatti, le mani e i piedi massicci. Allo stesso tempo sono sottili e longilinei e senza muscoli – sono corpi di twink.
Heat Dispersion è un’elegia all’amore twink, l’amore “maschile effemminato”. Il sapone è un materiale che evoca la pulizia. Nell’opera, la cura del calco – a partire dalla semplice pulitura delle imperfezioni lasciate dal processo di colata – è pari alla cura del corpo: il proprio ma soprattutto quello dell’altro, dell’“amico”, come direbbe Levi. Replica il gesto amoroso di lavarsi reciprocamente la schiena. Allo stesso tempo, la deperibilità del sapone implica che la cura, se eccessiva, può causare il deperimento della scultura. Quanto dannoso può essere quindi questo nostro amore? – sembra chiedere Davide, innestandosi in una tradizione che interpreta l’amore omosessuale come “condannato” all’insuccesso…
In una conversazione precedente la realizzazione di Heat Dispersion, Stucchi mi rivelò che, una volta conclusi i calchi, avrebbe voluto “lavarli” in mare, fino a ridurre i corpi a masse informi. Con questo gesto avrebbe trasceso ogni rappresentazione – di sé, del suo compagno, di corpi maschili più genericamente intesi – in una cerimonia; ma nella cerimonia avrebbe finito per subordinare la realtà della coppia alla nascita dell’opera (come alla nascita di un figlio). Heat Dispersion, invece, esiste a testimoniare che l’atto creativo non è sempre e necessariamente “produttivo” – così come nel sesso gay l’atto sessuale non è procreativo.
Nell’opera, l’instabilità materica del sapone si traduce in una tensione di cui la fisicità dei due corpi è vettore. Dormono, ma sappiamo che si desiderano l’un l’altro. Così come noi desideriamo toccarli perché il sapone è come un magnete per il nostro senso del tatto. Come dobbiamo comportarci quindi di fronte alla loro “nudità”, al loro esserci “tal quali sono”[ix]? In un’era in cui il gay medio si comunica come un masc-4-masc per individuare un partner sessuale – è ovvero un “maschio” che cerca un altro “maschio” –, la fisicità di questi due amanti twink riafferma quanto la soggettività gay sia legittimamente il risultato di una dialettica di mascolino e femminino. È abbracciare questa cangianza che ci permette di abbandonare le rappresentazioni normative della sessualità. E così evolvere i modi di abitare il corpo, sentirlo e rappresentarlo.