Chi è Ludwig, il protagonista dell’ultima, omonima, opera video di Diego Marcon? E, del resto, non sarebbe più corretto domandarsi: che cos’è Ludwig? Pongo fin da subito una questione di natura ontologica, perché è opportuno notare come questo personaggio sia, prima di tutto, un’apparizione. Emerge da un’oscurità densa e si rende visibile “di luce propria”: ovvero, accende uno zolfanello, che terrà in mano, davanti al volto, fino alla sua completa combustione – fino a scottarcisi le dita; per quindi ricadere, improvvisamente, nel buio. Nei secondi di flebile luminosità donati dal fiammifero, lo intravediamo: è un bambino; si direbbe che abbia circa sette anni; è biondo ma ha gli occhi scuri; le guance rosee, ma anche delle inaspettatamente marcate borse sotto gli occhi. Ludwig, solo e indifeso come un vero “piccolo fiammiferaio”. Intona una canzone, sulle note “allegrette” di un pianoforte extradiegetico: “Diooo, come son staaanco, mi seeento proooprio giùùù. Vooorrei tiiiraaar le cuoooia. E nooon peeensaarci piùùù. Eppur…” La fiamma raggiunge i polpastrelli diafani e con un urletto – “Ahi!” – il nostro puer cantor si eclissa. Il pianoforte incalza, ma né la voce bianca e tanto meno il faccino di Ludwig si rifanno vivi. Con una coda, allora, la melodia esce di scena anche lei. Eppur…
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Ludwig è l’ultimo di una serie di personaggi animati apparsi nella produzione artistica di Diego Marcon a partire dal 2014; ovvero, da quando l’artista crea Dick the Stick, un soldatino estraniato dalla routine della vita militare. Come Ludwig, anche Dick è un’apparizione. Nella video-animazione che lo introduce, Interlude (Introducing Dick the Stick) (2014, 1’56’’), una voce fuori campo recita: “To the North, nothing. To the South, nothing. To the East, nothing. To the West, nothing. In the center, nothing.” – e, infatti, il fotogramma mostra un foglio bianco, una landa deserta fatta di carta. Il soldatino si manifesta solo a conclusione del video, quando la voce torna a spazializzare la vuotezza del foglio immacolato, ma questa volta perché ne emerga il disegno. “In the center” compare “a tent. And, in front of the tent, an orderly busy polishing a boot”.[1] Eccolo: Dick the Stick, catturato in un’azione inespressiva, automatica – e senza un’evoluzione. In pochi secondi, infatti, Interlude termina, con tanto di titoli di coda. E, allora, viene da domandarsi, anche in questo caso: chi è Dick the Stick? Qual è la sua storia? Nella famiglia di opere che nasceranno a corollario del video – vinili, adesivi pre-spaziati e una scultura di tubi al neon – Dick acquista gradualmente “umanità”: è tediato, fa un pisolino, si dispera, fa una telefonata (ai suoi cari?)… In uno degli adesivi lo si vede addirittura atterrito, mentre dei proiettili gli sfrecciano attorno (The Trench, 2015); ma in un altro, ad oggi l’ultimo della serie (Any Body Suspended in Space Will Remain in Space Until Made Aware of its Situation, 2015), l’elmetto e lo scanno con i quali è sempre stato rappresentato sono sospesi in aria, sopra una nuvola che suggerisce una caduta nel vuoto[2] – di Dick nessun’altra traccia. Che sia sopravvissuto alla sua guerra? Si rifarà mai vivo?
Le tecniche di animazione a cui Marcon ricorre sono svariate: dall’animazione diretta, dove il disegno è effettuato direttamente sulla pellicola cinematografica (i cinque film del ciclo Untitled [Head Falling], 2015, 10’’ l’uno, loop), all’appropriazione di animazioni esistenti (Untitled [All Pigs Must Die], 2015, 10’’, loop, un frammento “trovato” del cartone animato della Walt Disney Winnie the Pooh), alla cosiddetta computer-generated imagery, o CGI, ovvero animazioni create tramite software di computer grafica (alcuni dei personaggi in Monelle, 2017, 13’56’’, loop; in Ludwig, 2018, sia il personaggio che la scena).
Indipendentemente dalla specifica tecnica impiegata, l’animazione non è solo responsabile dell’apertura della produzione artistica di Marcon verso un immaginario a lui inedito – quello infantile –, ma implica un modus operandi che programmaticamente si distacca dalla tradizione cinematografica del documentario in cui l’artista ha mosso i primi passi di video-autore. Etimologicamente, “animare” indica l’atto di infondere la vita (l’anima) in una forma che ne è priva. È l’accezione più “prometeica” della creazione. Marcon approda all’animazione quando la sua riflessione sul mezzo audiovisivo innesca una sempre più acuta messa in discussione del rapporto mimetico che quello intrattiene con la realtà. Ovvero, se l’atto di filmare un accadimento (sia esso sceneggiato o meno) presume necessariamente l’abbracciare un “modo” della rappresentazione, perché – sembra suggerire Marcon – non aggirare del tutto l’ambiguo statuto di verità dell’immagine filmica perseguendo un realismo che co-esista con la realtà della rappresentazione? Le sue animazioni sono da leggersi in quest’ottica: non presentano allo spettatore un surrogato di realtà nel quale ricercare una trasposizione metonimica di una fenomenologia degli eventi mondani. Piuttosto, l’artista ricorre di volta in volta a una determinata strategia formale, ma perché quella – e non i personaggi e le loro storie – possa essere lo strumento attraverso cui indagare una realtà, del resto, sempre più informata dalla rappresentazione.
Marcon ha esplorato questa commistione di soggetti e linguaggi audiovisivi secondo una traiettoria graduale ma assolutamente diagrammatica. Già nella prima opera che si incontra nel suo portfolio – SPOOL (2007 – in corso), un ciclo che ad oggi conta sette video di durata variabile, nei quali l’artista acquisisce e rimaneggia altrettanti archivi di film di famiglia, producendo immagini tanto ordinarie quanto stranianti – Marcon introduce un realismo “perturbante”, che attenta alla tradizione naturalista del cinema amatoriale. A SPOOL seguono dei video girati dall’artista stesso e che sembrerebbero esplorare una sorta di alchimia della produzione visiva. In salut! hallo! hello! (2010, 22’45’’), ad esempio, la videocamera entra in una tipografia con l’intento di registrare il processo di stampa di una cartolina. Se la finalità di partenza è spassionatamente di tipo documentaristico, progressivamente la camera indugia sui macchinari con fare sempre più morboso. L’immagine che ne deriva sembra partecipare dell’intimo logorio della macchina: più che un’immagine descrittiva, informativa, è un’immagine deteriorata, entropica.
È tuttavia con il film Super8 Pour vos beaux yeux (2013, 8’39”, loop) che Marcon approccia un soggetto e una tecnica che gli permetteranno di toccare con mano – letteralmente – l’azione della rappresentazione nella documentazione della realtà. Pour vos beaux yeux registra la formazione di ammassi di nubi nel cielo sopra l’Île de Vassivière, in Francia, sede di un centro d’arte dove Marcon è stato in residenza per tre mesi nel 2013. La nuvola è una massa di vapore acqueo e che pure, a distanza, sembra dotata di un volume proprio – in un certo senso, da un punto di osservazione terreno, è come se l’atmosfera agisse sulla percezione visiva dell’osservatore da obiettivo per la messa a fuoco. La nuvola, quindi, “appare” solo nella lontananza: è un soggetto paradossale, per il quale una maggiore prossimità comporta solo una maggiore sfuggevolezza. Marcon sceglie di riprendere gli ammassi di nubi con una cinepresa Super8 e di sviluppare in prima persona la pellicola. “Volevo fare un film in cui potessi vedere le immagini fisicamente affiorare dal nero della pellicola”.[3] In Pour vos beaux yeux l’immagine filmica non è da considerarsi un dato di realtà, ma è una visione che maieuticamente va fatta emergere dal buio – è un dono che viene fatto allo spettatore (pour toi). In questo processo di “modellamento” della figura delle nuvole dall’informe gassoso dell’atmosfera, d’immersione nella materialità della produzione cinematografia – uno “scavo” nella negatività della pellicola alla ricerca dell’immagine; in questo processo che, oltretutto, abbraccia a pieno la manualità, Pour vos beaux yeux è – nell’ottica della produzione futura di Marcon – una proto-animazione.
Marcon installa Pour vos beaux yeux retro-proiettando l’opera su un pannello sospeso, di dimensioni pari a uno schermo di 22 pollici. Concentrata su una superficie così ridotta, la luminosità della proiezione acquisisce un’intensità tale da inficiarne la fruizione. Frequentemente lo spettatore, accecato dall’eccessivo biancore dell’immagine, distoglie lo sguardo; ma colui che indugia nell’accecamento è allora invitato a un discernimento mentale delle nuvole. In un certo senso, Marcon gli chiede di attuare un processo di “scavo” simile al suo, ovvero di far emergere l’immagine dell’informe della propria memoria visiva – che significa invitarlo a un ribaltamento dello sguardo verso l’intimità del proprio io.
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In tante delle opere video di Diego Marcon, però, ciò che appare molto presto scompare. Ludwig si manifesta per meno di un minuto. Poi torna l’oscurità. Di Dick non si ha più traccia; si è volatilizzato nel bianco del foglio da disegno. Litania (2011, 29’) è un video nel quale il fotogramma gradualmente si dissolve al nero – si direbbe un video che scompare esso stesso. L’opera dell’artista che, tuttavia, meglio incarna questa dialettica di apparizione/sparizione è Monelle. Monelle è un film girato in 35mm all’interno della Casa del Fascio di Como. È un film buio (“un film durante il quale ci si potrà addormentare e che, risvegliandosi, lo si possa trovare ancora lì, immutato”[4]), ad eccezione di rare scene visibili per un tempo infinitesimale dettato da un colpo di flash. In quegli attimi di luminosità si intravedono: porzioni d’interno dell’edificio – difficile dire che anche l’occhio più esperto, in un tempo così proibitivo, possa riconoscervi la nota architettura di Giuseppe Terragni; raggomitolate nelle porzioni di spazio, delle bambine che paiono assopite; infine, dei personaggi vagamente macabri (un uomo anziano, vestito “sportivo”, si aggira per l’edificio mentre si urina addosso; una donna anziana, elegante, a quattro zampe sul pavimento; una donna adolescente, ha indosso solo un vestito leggero ed è accovacciata su una scalinata; un bambino, calvo, seduto su un parapetto con le gambe a penzoloni; un uomo, di età indefinita, precipita da un ballatoio; una donna, anche lei anziana, anche lei piuttosto distinta, è trascinata per i piedi da un’entità invisibile). I personaggi non interagiscono con le bambine, eppure, per quanto goffi, li si percepirebbe come delle minacce – che siano i loro “piccoli” incubi materializzatisi?
I flash di Marcon sorprendono le bambine addormentate così come Marcel Schwob (ri)trova la sua protagonista ne Il libro di Monelle:
Arrivai in un luogo stretto e buio, ma pervaso da un malinconico odore di viole essiccate. … E, procedendo a tentoni, toccai un corpicino rannicchiato nel sonno – il suo sonno d’un tempo –; sfiorai una chioma, passai la mano lungo un volto che conoscevo – e mi parve che il visino si corrucciasse sotto le mie dita –, e capii di avere trovato Monelle mentre dormiva sola soletta in questo luogo buio.[5]
Ispirata alla giovane operaia malata di tisi che Schwob incontrò una notte tornando a casa, e che sposò pochi giorni dopo, Monelle è la “prostituta bambina” che emerge dall’oscurità per alleviare con il proprio affetto la solitudine di colui che incontra – e nell’oscurità risprofonda. “Io sono colei che appena trovata viene perduta”, proferirà.[6] Le “monelle” di Marcon sono le sue “sorelle”, direbbe ancora Schwob. Nel buio della sala di proiezione, l’apparizione/sparizione fulminea delle monelle lascia nello spettatore un baleno di umanità – un’umanità che qui è stretta nella morsa di due poteri: quello biopolitico, esercitato dall’edificio, e l’altro, l’inconscio, personificato dalle presenze misteriose. (Non a caso, nel film, le bambine addormentate sono interpretate da attrici; gli altri personaggi sono animazioni in CGI; e l’architettura è un edificio amministrativo, ma le cui qualità formali di geometria e purezza suggeriscono un esercizio “virtuale” del potere.[7])
Di fronte a tante, reiterate sparizioni, Marcon non potrà biasimare lo spettatore che si domanderà le ragioni di un “dono” che gli viene immediatamente sottratto; domanda che sarà ancora più legittima, se si osserva che tutti i personaggi dell’artista si manifestano per comunicare una fralezza, che è anche una vulnerabilità di fronte al proprio contesto. Cioè, perché l’artista stimola nello spettatore un sentimento di empatia verso le proprie figure quando non offre neppure la possibilità – il tempo materiale – di esorcizzarlo?
Posto che le sparizioni messe in scena da Marcon possano assumere tutto il valore della “perdita” di un oggetto affettivo, potremmo chiamare in causa la teoria freudiana di reazione alla perdita [Verlust] in cui si paragona il lutto alla malinconia. Secondo Freud, laddove nel lutto “nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio”, il paziente melanconico “sa quando [wen] ma non cosa [was] è andato perduto in lui”; “saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale [Objektverlust] sottratta alla coscienza”.[8] Di fronte alla sparizione/sottrazione del protagonista/oggetto affettivo, lo spettatore delle animazioni di Marcon si ritrova affetto da malinconia: non è in grado di dare un nome all’oggetto perduto e, non potendo sottoscrivere quel suo sentimento di perdita a una ragione effettiva, finisce per travasarlo sul proprio “io”. Se, a questo punto, si nota che quelle stesse animazioni comunque abitano tutte un intorno tematico che concerne le rappresentazioni della malinconia – i loro protagonisti indugiano in patologie riconducibili all’antico inquadramento clinico del paziente malinconico: narcolessia (Untitled (Head Falling); Monelle), ipocondria (Il malatino, 2017, loop), apatia (Dick the Stick’s Saga), catatonia (Untitled, 2017, loop) ecc.[9] – possiamo affermare che la malinconia è per Marcon tanto soggetto quando dispositivo linguistico.
La malinconia – nell’accezione di uno stato d’animo tetro, accidioso e insieme contemplativo – pervade tutte le opere dell’artista; ma Ludwig ne è la più sintetica perché “strutturalmente” malinconica. La video-animazione non solo partecipa della dialettica di apparizione/sparizione che induce – freudianamente – la malinconia (OK, l’oggetto perduto è l’indifeso Ludwig – ma chi è Ludwig?) e, sul piano tematico, insinua a una tendenza autolesionista del protagonista (Ludwig canta: “Vooorrei tiiiraaar le cuoooia. E nooon peeensaarci piùùù.”); più di ogni altra cosa, essa è interamente imperniata sulla canzone di Ludwig – si direbbe che quasi ne sia un video-clip incompleto; e tale canzone è ciò che nella tradizione musicale si definirebbe un lied.
Il lied è l’espressione quintessenziale delle tendenze più Sturm-und-Drang del romanticismo europeo: laddove non esplora la tematica pastorale, il lied indugia nel tema dell’amore romantico, che per antonomasia è un amore negato, anzi, molto spesso “perduto”.[10] Per dirla ancora con Freud, il lied è una “lagnanza” (nell’antico significato di “lamentela funebre”) di fronte alla perdita della persona amata o di un’astrazione – la patria, ad esempio. In questo senso, è un vettore del sentimento malinconico. La canzone di Ludwig riferisce di una perdita dalla natura ambivalente: il bambino è sì spossato, sopraffatto dagli avvenimenti mondani; ma dal suo canto traspare una nobiltà d’animo che ne emancipa il lamento da una dimensione di vittimismo infondato (emo, diremmo oggi). Marcon, infatti, lo veste con una polo gialla e un maglioncino blu – i colori dell’Unione Europea, quell’invenzione che affonda le radici nel progetto romantico di comunione con l’altro, oggi in rovinoso declino. Lo spettatore che osserva Ludwig emergere dall’oscurità e nell’oscurità lo perde, perde non solo l’immagine filmica, ma un personaggio con il quale non può che empatizzare; e non da ultimo, un ideale di collettività.
Quando il fiammifero si estinguerà, lo spettatore si troverà, nel buio della sala di proiezione, a fare i conti con l’impressione retinica lasciatagli dalla perdita di Ludwig; quell’impressione che egli percepirà solo nella solitudine del proprio io, è l’immagine mentale della propria malinconia. Mi è impossibile anticiparne la forma; ma posso affermare con sicurezza che quell’immagine sarà tutt’altro dalle rappresentazioni canoniche che la nostra memoria iconografica assocerebbe alla malinconia – le allegorie di un Albrecht Dürer (Melencholia I, 1514) o di un Cesare Ripa (Melancholicus, 1603), ad esempio… Quell’immagine è, appunto, “reale”, ma è situata al di là dei modi della rappresentazione.
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Eppur… Non tutto ciò che è perduto è perduto per sempre. Monelle dirà anche: “Non aver timore, sono io e non sono io; / Ci ritroveremo di nuovo e ci perderemo; / E un’altra volta ancora verrò in mezzo a voi. Pochi infatti mi hanno vista e nessuno mi ha capita. E tu ti dimenticherai di me e poi mi riconoscerai e ancora mi dimenticherai”.[11] Monelle, Ludwig, e molte altre opere video di Diego Marcon sono proiettate in loop. Il loop, più che esasperare la dinamica di apparizione/sparizione che connota strutturalmente quei video, la trasla nell’ambito di una ripetizione che alla lunga assume quasi un sapore da slapstick comedy. Ludwig – che dà fuoco allo zolfanello per palesarsi, come se accendesse un riflettore, e ci si brucia; e che, dopo un breve intervallo, torna a riprovarci e a scottarcisi ancora; tutto ciò, sempre cantando il suo lied di autocommiserazione – si direbbe che performi una gag. E lo stesso varrebbe per le “monelle”, rapite in un sonno profondissimo, mentre nei loro paraggi i personaggi animati ne combinano di ogni… Il loop infonde la malinconia delle opere video di Marcon di un’accezione tragicomica. Nelle animazioni del ciclo Untitled (Head Falling) la testa a ciondoloni del protagonista che si dibatte tra il sonno e la veglia, è un’eco farsesca (fantozziana, diremmo) dello scolaro indolente. Ne Il malatino, il bambino allettato e dal respiro affannoso è intrappolato in una convalescenza perpetua: “Non può né guarire né crepare come si deve”.[12] È un ipocondriaco alla Molière o alla Woody Allen: l’allocco del medico ciarlatano o l’apprensivo che sviluppa reazioni psicosomatiche.[13]
È la comicità che emerge dal reiterato fallimento di evasione dalla condizione umana che, paradossalmente, libera i personaggi di Marcon dall’impaludarsi nella Geworfenheit: essi saranno pure “gettati” nel mondo, ma riconoscono la natura patetica della loro esistenza. Nelle loro azioni, nelle loro canzoni sembra che Marcon echeggi Thomas Bernhard quando al suo “Riformatore del mondo” farà proferire: “È la disperazione / che rende tutto sopportabile”.[14] E allora di sapere chi è realmente Ludwig forse interesserà poco – tanto la sua “lagnanza” fa eco all’alienazione più intima dello spettatore; e, allo stesso tempo, lascia pure intravedere un attaccamento alla vita: quel aggancio dal valore avversativo, quell’“eppur…”