Scrittore, fotografo, performer, musicista, designer, scultore, Riccardo Benassi lavora attualmente a Morestalgia, uno dei progetti vincitori della quinta edizione dell’Italian Council. Nella conversazione che segue Riccardo Venturi discute del lavoro con l’artista. Le loro parole sono filtrate dagli schermi del computer, naturalmente.
RICCARDO VENTURI: Cominciamo dallo schermo in quanto medium e interfaccia, display sul quale passano immagini ma anche informazioni. O forse oggi le immagini non sono altro che informazioni…
RICCARDO BENASSI: Informazione è tutto ciò che non sapevo fino a prima di saperlo… però poi probabilmente me ne dimentico — e smette di esserlo.
RV: Con Morestalgia siamo davanti, o dentro, uno schermo a led penetrabile dal corpo umano. Come sei arrivato fin qui? come funziona uno schermo che, da interfaccia, si trasforma in soglia attraversabile?
RB: L’ispirazione originaria per Morestalgia è nata da una tenda a strisce che mia nonna utilizzava per separare la cucina dal resto della casa. Aveva la doppia funzione di tenere lontane le mosche e permetterle di passarci attraverso anche con le mani impegnate da piatti e stoviglie. Quello che mi ha incuriosito è la sua qualità di soglia finzionale di stampo popolare, con una vastissima diffusione tra l’altro, al punto da farmi credere che potesse definire una preci-sa e condivisibile idea di domesticità.
L’idea è che se nel teatro del quotidiano esiste un sipario, allora ha un altissimo grado di trasparenza. In quel periodo, mi riferisco al 2015, stavo sviluppando Daily Desiderio (2018–in corso) e studiando diverse implementazioni tecnologiche legate alla luce led, quando mi sono imbattuto proprio nella tecnologia che compone lo schermo penetrabile dal corpo umano, cuore pulsante di Morestalgia. Prodotta con un processo a metà strada tra artigianale e indu-striale in Cina – al tempo non si poteva importare in Europa – allora ho messo la tecnologia da parte e ho iniziato a leggere, ma soprattutto a scrivere e raccogliere appunti su come mi sembrava che il sentimento della nostalgia fosse cambiato da quando internet è entrato nelle nostre vite.
Alcuni di questi testi sono andati a comporre la performative lecture, altri si sono uniti a immagini e sono parte del contenuto digitale che oggi anima Morestalgia. Essendo Daily Desiderio un upgrade della scultura programmata, una scultura performativa oserei, cercavo con Morestalgia un modo per rendere i corpi umani parte integrante della narrazione – mantenendo come sempre una netta distanza dallo spettro dell’interattività. Volevo che fosse impossibile non accorgersi degli altri corpi che coabitano temporaneamente con noi lo spazio espositivo. Lo schermo infatti ha un altissimo grado di trasparenza, e quando qualcuno lo attraversa continua a oscillare prima di stabilizzarsi. Come dire, i corpi che attraversano lo schermo – così come i corpi che attraversano le nostre vite – lasciano la scia.
RV: Che rapporto ha Morestalgia con Daily Desiderio, installato a Milano all’interno del progetto di arte pubblica ArtLine presso City Life?
RB: Credo che in un periodo in cui la maggior parte delle speranze e delle preoccupazioni sono rivolte a macchine che si comportano come esseri umani, sia sempre più importante porgere la nostra attenzione sugli esseri umani che si comportano come macchine, e sui corpi e le menti piegati alla produttività sistemica di stampo digitale.
Daily Desiderio vive di questa ambizione: io mi sono offerto come vittima sacrificale, sono la cavia che si è consegnata autonomamente al proprio esperimento. Ma – e con particolare riferimento alle interfacce alle quali facevi riferimento – chi di noi non lo è? L’unica prigione che siamo in grado di accettare è quella che ognuno di noi disegna per se stesso.
Poi di recente leggendo Jean Starobinski ho scoperto che il significato che oggi attribuiamo alla parola nostalgia (ben prima che la parola venisse coniata all’interno del dizionario specialistico della medicina) era veicolato proprio dalla parola desiderio. In effetti, mi son detto, Daily Desiderio è un lavoro altamente anti-nostalgico, è impregnato di divenire: cambia tutti i giorni ma nessuno sa come cambia né per quanto cambierà.
RV: Difficile definire ciò che è in divenire. Esplori un mondo che non ha ancora un nome, uno stato di cose che sembra remoto ma che è nondimeno plausibile, deducibile tirando i fili dell’esistente. Al proposito ricorri spesso a neologismi: Morestalgia, augmented nostalgia, Phonemenology. Cosa provi a dire con queste parole? Ma forse la vera domanda è: che importanza ha per te il linguaggio o meglio quale fiducia riponi nelle parole e nel loro potere di dire e circoscrivere un sentire?
RB: Felix Gonzalez-Torres ha affermato che nella migliore delle ipotesi, un artista dà un no-me nuovo a qualcosa che è sempre esistito. L’utilizzo del testo nel campo delle arti visive è da sempre legato a urgenze sociali irrinunciabili e alla necessità di aprire l’opera a un pubblico di non addetti ai lavori. Credo che il tentativo sia quello di espandere una minoranza in cui si crede fortemente. C’è poi anche una spinta più emozionale ed esistenzialista, fondata nell’idea che più una persona è sincera con se stessa e più qualcun altro sarà in grado di identificarsi con lei. Perché il paradosso è che i sentimenti che proviamo sono sempre veri e autentici, ma non sono mai nostri del tutto. E la prima volta che mi sono deciso a scrivere qual-cosa di mio, mi son dovuto legare alla sedia per non scappare troppo velocemente dalla realtà.
RV: L’augmented nostalgia è propria dei morestalgici, i quali hanno un rapporto turbato col proprio passato, un passato mediato – forse “guastato” – dai social network e dalla galassia online…
RB: Ho formulato l’ipotesi morestalgica circa quattro anni fa, individuando una specifica tipologia di nostalgia il cui dolore assomiglia più a quello causato dall’invidia che a quello della nostalgia vera e propria. La percezione di una dolorosa mancanza, che però ognuno di noi auto-traduce a se stesso come perdita, il cui diretto riferimento sono altri esseri umani che stimiamo e le loro esperienze condivise online. Gli esseri umani morestalgici sono coloro i quali hanno il desiderio di vivere un’esperienza che hanno precedentemente intuito essere plausibile, ma invece che richiamarla dal proprio passato la sostituiscono con una navigazione online immersiva. Questo passato non è stato vissuto nel mondo sensibile dalle persone che pensano di averlo perduto, ma è archiviato e a disposizione per essere richiamato alla memoria in un attimo – e abbracciato nuovamente – con un singolo clic. L’augmented reality, per funzionare, ci impone di occludere – attraverso guanti e visori tecnologicamente avanzati – competenze sensoriali tattili, visive e uditive alle quali la nostra specie deve la sopravvivenza sul pianeta Terra. Allo stesso modo l’augmented nostalgia, la morestalgia, si basa sul fatto che la nostra mente è indotta a processare come vita vissuta gli eventi offerti dagli schermi dei dispositivi, estromettendo così il corpo dalla possibilità di effettuare regolari cicli di ispezione sensoriale. Si tratta a tutti gli effetti di un viaggio di ritorno in totale assenza di un viaggio di andata.
RV: Con Morestalgia ti interroghi anche sul ruolo che internet gioca nel nostro spazio domestico, nella nostra intimità, nella nostra memoria, nella nostra esistenza insomma. Anzi nella nostra doppia esistenza, perché quella online prende sempre più tempo. Il nostro secondo io va costantemente nutrito al punto che, quando non lo facciamo, i nostri amici si allarmano.
RB: Il fatto che tu abbia utilizzato la parola nutrire – e non potevi sceglierne una migliore – dimostra già che la sovrapposizione tra mondo organico e tecnologico è in atto. Ho riflettuto sul fatto che ogni parola che inizia con la sillaba ri (in inglese re) implica una seconda volta, quindi un ritorno. Da questo punto di vista tutte le piattaforme che permettono azioni di re-post, replay, reblog, retweet incitano a un movimento rivolto al passato. Forse la naturale evoluzione del readymade non ha a che vedere con gli oggetti o con le immagini, ma con le idee preconfezionate; ecco potremmo chiamarlo readythought.
RV: Ora, da una parte i nostri dispositivi diventano sempre più intelligenti come gli smartphone, conoscono sempre meglio le nostre abitudini e forse, vista la tendenza a tenerlo sul comodino durante la notte, persino la qualità del nostro sonno. Dall’altra parte noi, rispetto ai nostri devices, non possiamo essere “upgraded” con la stessa velocità.
RB: Un pomeriggio dei primi anni 2000 ero a una fermata del bus, mi ero appena trasferito a Bologna per iniziare l’università. Ho inserito le mie monete nell’emettitrice automatica di biglietti che in compenso le ha mangiate senza darmi alcun biglietto in cambio. Allora ho iniziato a darle prima qualche spintarella e poi una valanga di pugni, finché mi si è avvicinato un pensionato sorridente che – con persuasivo accento emiliano – mi fa: “ladri noi, ladre le macchine”…
RV: …un luminare! Intelligenza algoritmica, internet delle cose… difficile orientarsi. Qual’è la posizione di un artista che lavora a stretto contatto con le nuove tecnologie? Se sei lontano dall’ottimismo tecnologico del transumanismo, dal mito di un corpo perfettibile, sei lontano anche dalla visione apocalittica che James Bridle tratteggia in New Dark Age. Technology and the End of the Future, secondo cui l’accesso all’informazione non ci aiuta né a comprendere né tantomeno a controllare la complessità crescente del nostro mondo. E meno lo com-prendiamo più le tecnologie si fanno pervasive.
RB: Credo che tutto questo sia soprattutto legato al dinamismo con cui il mercato del lavoro si è adattato alle richieste del mercato globale. Siamo individui sempre più responsabilizzati, e la quantità infinita degli aspetti della nostra vita=lavoro, da tenere sotto controllo, si rispecchia nella quantità infinita delle entità tecnologiche da cui veniamo controllati.
In Morestalgia affronto la recente diffusione di diverse traduzioni occidentali di pratiche meditative di stampo orientale – a cui si potrebbe aggiungere una pletora di app e device di self-monitoring di stampo medico oppure l’esorbitante, direi drammatico, successo della letteratura self-help. Ridurre la complessità dei sentimenti a dati leggibili al fine di renderli pura informazione è sia quello che nella maggior parte dei casi si fa con queste pratiche, app e letture, sia quello che fanno le piattaforme digitali interessate a trasformare i nostri sentimenti in guadagno immediato e investimento futuro. E tutto ciò dimostra che l’unica cosa da fare rimasta in un clima di totale sorveglianza è essere i primi a sorvegliare se stessi.
RV: A partire dalla metà degli anni Novanta si è cominciato a parlare di New Media e non più di Multi-Media. Una transizione che ha avuto un effetto anche sulle arti visive come sulla vecchia idea d’interattività – che Daily Desiderio spazza via –, secondo cui il rapporto coi dispositivi tecnologi somiglia a una relazione dialogica.
RB: Proprio così, credo che il prefisso multi sia un lascito dello spettro del post-modernismo, mentre il prefisso new è desunto direttamente dal dizionario del marketing. Inoltre, entrambe le definizioni pongono l’accento sul media, e quindi sul come si fa qualcosa ma a me è sempre interessato il perché si fa qualcosa. Quindi mi sono inventato la parola über-media, con cui mi piace pensare di poter parlare di un artista che usa ogni media di cui ha bisogno a seconda delle circostanze personali, politiche, sociali, culturali, economiche, architettoniche.
In altre parole, così come esiste la definizione gender fluid – nella quale si identificano sempre più persone, sempre più giovani – avrebbe senso che esistesse anche quella di media fluid, che parallelamente includerebbe sempre più artisti, sempre più giovani.
RV: Google: una nuvola, un elemento etereo, un’aura, ma anche un archivio materiale e una miniera di estrazione di dati. In entrambi i casi tendiamo a pensarlo come un medium universale e indifferente, che non interferisce. Un neutro facilitatore, persino magnanimo mi viene da aggiungere, perché esaudisce sempre i nostri desideri. Eppure sappiamo che in Paesi come la Cina un algoritmo metteva nel purgatorio siti considerati inopportuni dal regime, esercitando di fatto un controllo sulla realtà.
“Il motore di ricerca ideale sarebbe la mente di Dio”, secondo il co-fondatore di Google Sergey Brin. Se Dio onnisciente è il più potente motore di ricerca, creatore di una Totalità accessibile con un clic, la teologia oggi si ripensa a partire dal modello del database, di un database infallibile che, di noi, archivia pensieri, parole, opere e missioni. “Google and God”, come scrive John Durham Peters.
Un database, pertanto, in cui il libero arbitrio è ancora valido – “Mi sento fortunato”. Riccardo, ti senti fortunato? Noi morestalgici viviamo nell’era del sublime digitale?
RB: Sì, mi sento super fortunato, alcuni giorni più di altri. Un altro mondo non è possibile ma esistono infiniti modi di vivere questo, e sempre più persone hanno accesso a una vita decente. C’è ancora tantissimo da migliorare, ma una vita non è un’unità di tempo sufficiente, e un corpo umano inizia ad avere senso quantitativo solo con l’incontro di compagni di viaggio. Quindi ti direi di no, nessun sublime digitale: l’oscurità che stiamo attraversando è palese, ma forse il bello dell’oscurità è che allena la nostra capacità di innamorarsi con la coda dell’occhio. Non so se si tratti di una formula di resistenza, ma mi chiedo sempre più spesso: per chi lo stai facendo? E le risposte, benché allineate cambiano col tempo, si trasformano con me. Forse Morestalgia è il primo lavoro che realizzo da quando ho definitivamente smesso di credere nel libero arbitrio, o meglio, da quando mi sono chiesto se sia in fondo mai davvero esistito. In compenso però con Daily Desiderio m’invento quotidianamente diverse possibilità a riguardo. Credo che l’ottimismo e il pessimismo siano orientati al passato, perché hanno bisogno di appoggiarsi a delle prove, a evidenze – quindi la sfida più affascinante (dal punto di vista artistico, politico, tecnologico ed esistenziale) continua ad essere quella di un funzionalismo irrazionale, un realismo in assenza di realtà… Non perché la realtà sia sparita del tutto, ma perché ci interessa sempre di meno.