Si lascia venezia annoiati, se non indignati. Ci ritroviamo a Kassel disorientati.
Nonostante tutto, un confronto tra la 52ª Biennale di Venezia e documenta 12, anche se inevitabile, non è forse possibile. Da anni le due istituzioni più fortemente consolidate della scena artistica internazionale viaggiano su binari diametralmente opposti, hanno ormai obiettivi differenti e diverse sono le aspettative a cui rispondono. L’ultima edizione che vedeva le due manifestazioni faccia a faccia — quella del 1997 — contrapponeva il confronto “stilistico” tra generazioni proposto da Germano Celant alla prima riflessione lucida sugli esiti culturali della fine della Guerra Fredda messa in scena da Catherine David. Come dire, niente di più distante e incompatibile. L’impressione è che la Biennale veneziana sia ormai un tipico prodotto della politica culturale conservatrice italiana, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta il direttore, e nonostante Robert Storr — quest’anno — sia riuscito a raggiungere livelli davvero bassi. Non servono, cioè, da attenuanti fattori logistici come tempi di progettazione, budget, sedi espositive. La moltiplicazione indiscriminata di eventi collaterali e la dispersione sempre maggiore dei padiglioni nazionali sono già indici tali da sottrarre ogni potere effettuale al progetto curatoriale.
Altri sono gli obiettivi di documenta. Da quindici anni l’aspirazione della manifestazione tedesca è quella di istituirsi come un laboratorio alternativo all’interno del processo di globalizzazione. Documenta non vuole essere solo una sfida culturale generale ma anche un momento radicale all’interno del sistema dell’arte, lontano tanto dalla consacrazione dei movimenti mainstream quanto dai modelli espositivi consolidati. Proprio la rimessa in discussione di che cosa sia “la contemporaneità” come tale mi pare al centro di questa ultima contestata edizione diretta da Roger M. Buergel.
Etichettata come troppo politica per i giornali liberal tedeschi modello Frankfurter Allgemeine Zeitung e come troppo formalista per quelli invece di sinistra, questa edizione ha la capacità di suscitare più di un problema.
L’aspetto più evidente della documenta 11 curata da Enwezor, quello per cui da tutti era stato attaccato, era la schiacciante predominanza del documentario. Il documento mi pare invece essere al centro di documenta 12.
Nel primo caso, il documentario si presentava come il genere più adatto per scrutare la realtà e dunque per un approccio geopolitico a tutte le latitudini e su scala globale. Nel caso attuale, il “documento” è o vuole essere la traccia o lo strumento di una storia globale. In questo senso documenta 12 ha l’aria di una macchina espositiva anacronistica, che registra eventi del passato secondo un criterio che non è sufficientemente chiaro. Un tappeto del nord est iraniano del 1800, una scatola in legno di Eleanor Antin del 1968 che raccoglie vetrini da microscopio con speciment di sangue di poeti, uno schedario di Nedko Solakov che conserva disegni e testi del breve periodo in cui l’artista era informatore per il servizio segreto bulgaro sotto il socialismo, gli oggetti personali familiari dell’artista cinese Hu Xiaoyuan. O ancora, il diario del 1970 dell’artista indiana Nasreen Mohamedi, una giraffa imbalsamata fatta trasportare da Peter Friedl dallo zoo di Qalqilya nella regione israeliana della West Bank, centinaia di sedie della dinastia cinese Quing come parte del progetto di Ai Weiwei, l’archivio fotografico di Luis Jacob o l’atlante storico su Persepolis di Simon Wachsmuth: è la messa in scena di una materialità documentaria che non ci aspettavamo assolutamente di incontrare in una mostra d’arte contemporanea. Ma lo stesso display ripropone vetrine, tendaggi e pareti colorate, una illuminotecnica continuamente variata, una proliferazione di modelli espositivi — dal museo antropologico ai padiglioni per esposizioni internazionali — e un allestimento contestuale per ogni opera che nemmeno Alexander Dorner avrebbe potuto immaginare.
Documenta 12 vuole mettere in discussione il format tradizionale della mostra — dal white cube alla perfetta fusione raggiunta dal Gesamtkunstwerk — in favore di una esposizione come medium, non lasciata all’improvvisazione ma fortemente disegnata.
Ai luoghi deputati di documenta si aggiungono ora i diecimila metri quadrati dell’Aue-Pavillon su disegno degli architetti Lacaton & Vassal a partire dall’idea del Crystal Palace del 1851. Al Gloria Kino si affida invece il Film Programme della documenta, con cui si cerca di giustificare l’assenza di video negli altri spazi espositivi. La sala più bella? Quella al Fridericianum con pannelli bianchi su cavalletti che raccoglie l’arte radicale anni Settanta: dall’archivio Tucuman Arde alla “Bowery” di Martha Rosler, dalle azioni di Jiri Kovanda alle performance in pubblico di Sanja Ivekovic a quelle in privato di Ion Grigorescu, dal video dell’artista cilena Lotty Rosenfeld alle foto del gruppo polacco KwieKulik. Si tratta ancora di documenti, senza dubbio. Documenti estratti da una determinata epoca storica ma che nella mostra non hanno alcuna continuità lineare con il resto. Non si inseriscono in un’immagine unitaria della Storia, ma si limitano a riproporne un’esperienza. Una sorta di mix tra Foucault e Benjamin fa da nume tutelare a questa mostra a rischio. Il percorso presenta di fatto continui gap temporali, non solo tra opere di periodi storici differenti ma anche tra opere di uno stesso autore. Succede di ritrovare sculture astratte e mandala pittorici di McCracken in dieci postazioni differenti del percorso espositivo, oppure l’opera di Stollhans costituita da tre parti con altrettante locazioni, o le tele di Kerry James Marshall come un contrappunto ricorrente. Rispetto ad alcune opere non siamo in grado neppure di attribuire una datazione, come nel caso del lungo rotulo di Lu Hao, che nel 2006 adotta la tecnica tradizionale del realismo cinese per riprodurre una strada di Pechino. Alla fine credo che l’opera Love Songs di Mary Kelly sia emblematica di questo rapporto tra presente e passato. Ma soprattutto l’opera di Monastyrski, che si incontra proprio all’ingresso dell’Aue-Pavillon. Un pannello bianco invita lo spettatore a premere un pulsante ma senza esito apparente perché nulla accade attorno a lui al momento dell’azione. Solo alla fine di tutto il percorso un secondo pannello bianco lascia uscire il suono di un campanello, premuto però da qualcun altro che si suppone sia appena entrato e che non possa udirlo. D’accordo, tra la produzione dell’arte e la sua ricezione non c’è necessariamente continuità storica. D’accordo, l’essere contemporaneo di un lavoro non significa necessariamente che quel lavoro sia stato prodotto ieri. Ma perché rinunciare a cartografare il presente? Perché limitarsi a riesumare un passato, per quanto pregnante, e non mettere in campo anche artisti emergenti? Per far deflagrare la continuità della Storia non basta ipotizzare, solo nel pubblico, una coscienza del presente.