Cogliere e registrare, tradurre e dischiudere sono alcune delle voci che possono essere impiegate per introdurre il lavoro di Domenico Mangano. I film, le sequenze fotografiche, le pitture e le performance dell’artista sono trasposizioni di storie colte da un attento e curioso sguardo sul reale, interpretate da una narrazione capace di renderle straordinarie e, infine, svelate a un pubblico che ne continua il flusso, proiettandovi ulteriori letture.
Il percorso di Mangano prende avvio già alla fine degli anni Novanta con La storia di Mimmo (1999), il cui protagonista, istrionico ex pescivendolo della Vucciria di Palermo, è ormai entrato a far parte di uno script della nostra Italia raccontata per immagini. Fin dall’esordio, Mangano decide di cantare storie e dischiudere visioni, partendo da una costante esplorazione e messa in discussione della complessità di ciò che lo circonda, lavorando in quel territorio in cui Gilles Deleuze ha scorto le “pieghe” del reale, ossia quel risvolto (il più profondo e ruvido) della realtà stessa. Inizialmente l’artista documenta frammenti di vita, soggetti relegati ai margini del sistema. Spesso è la Sicilia, terra natale dell’artista, con le sue contraddizioni, a essere protagonista. Mangano non narra storie, le raccoglie, e i protagonisti dei suoi lavori, più che aprirsi, vengono svelati. Nascono così Merano 2000 (2001) o Encastrolo (2001), situazioni vissute, intrise di sincerità e naturalezza, composte da uno sguardo rivolto ai contrasti presenti nel reale. L’artista segue, monta, partecipa dei momenti, delle sensazioni, delle esperienze e delle identità che trasforma in immagini.
Gli incontri di Mangano, vissuti con occhio sbieco, attivano l’esigenza di narrare per proiettare il quotidiano verso nuovi orizzonti. I suoi sono continui viaggi nelle storie di cui raccoglie i dettagli, sono intime traduzioni dei particolari che si intrecciano per dar vita alla complessità dell’esistenza. Don’t Disturb the Growing Grass (2008) è un video realizzato durante un periodo di residenza in Cina. Il titolo riprende un avviso che si trova scritto sulle aiuole pubbliche del paese. L’occhio vigile dell’artista, coinvolto ma distante, ha intessuto un racconto fatto di particolari, di segreti, di momenti rubati e di passaggi. Il superfluo, il dettaglio e il residuo vengono resi attivi per declamare la straordinarietà visionaria della composizione per frammenti.
Mangano riprende la realtà affiancandola a una messa in scena dell’immaginario, in una continua scommessa con il mondo e con i particolari che esso ci riserva. I suoi lavori ci pongono così dinnanzi alla teatralità della vita e alle paradossali metafore del ricordo che si fa memoria, spalancando una finestra su un dialogo spontaneo tra elementi: tra il vissuto e il sentimento, la sequenza e lo scarto, il montaggio e la libertà. Non è difficile rintracciare nelle sue opere una combinazione di riferimenti sottili: dalle interpretazioni della vita moderna di Pasolini agli antieroi di Ciprì e Maresco, dalla semplicità di Abbas Kiarostami alla visionarietà di David Lynch. L’atto del registrare il mondo in presa diretta diventa così il momento per cogliere ciò che si sottrae in una riflessione sull’extra-ordinario. Un incidente avvenuto di notte e ripreso dall’artista si carica di oscurità e sospetto in Dark Messages (2007), dove il reale si trasforma in inconsueto. Con Twinkle Twiddle (2009) — lavoro creato appositamente per il progetto romano SPIRITO, a cura di Valentina Ciarallo e Pier Paolo Pancotto — lo spettatore vive un’altalena tra rito e sorpresa, tra memoria e paradosso, in una messa in scena studiata nei minimi dettagli. Inatteso è l’elegante invito ricevuto da un nutrito gruppo di collezionisti, galleristi, direttori museali e critici d’arte romani a cui è chiesto di presentarsi in abito scuro a un cocktail presso il Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia. Recatisi a bere champagne nell’elegante palazzo (in passato sede della prima struttura ospedaliera della capitale), gli invitati si trovano ad affrontare una situazione imprevista: aperti i portoni del maestoso salone, il gruppo si trova dinnanzi a una piccola orchestra e avvolto da un suono di marce classiche. Incuriositi, gli invitati osservano e si interrogano, girano tra i musicisti fino a quando rimangono sconcertati alla vista di una donna vestita in rosso — da tutti nota come Alba Clemente — che avanza verso il centro della sala con fare di sfida e un revolver in mano. Paralizzata, l’orchestra cessa di suonare, accenna alcuni passi indietro, mentre la donna comincia a sparare uno a uno tutti i suoi componenti, con calma, come se si trattasse di un rito. Il pubblico, elegantemente vestito, rimane impassibile; il disagio è percepibile dalla rigidità dei corpi. La musica continua in un picco di drammaticità, scandendo la narrazione della scena. Dal buio arriva un bambino, si ferma tra i corpi esanimi e poggia un’ambulanza giocattolo a terra per poi fuggire. La telecamera, che non ha mai lasciato la mano di Mangano, ha ripreso la scena in un unico piano sequenza, come uno spirito impazzito che cattura, danza, soffia, scappa, osserva irrequieto il mondo dei vivi in attesa di congiungersi alle loro anime e di trasformarle in memoria eterna. Le espressioni degli spettatori e il loro coinvolgimento in una finzione articolata, che richiama la fine e apre all’infinito, lasciano intendere turbamento e rispetto nei confronti di uno stadio della vita in cui difficilmente si ha la capacità e la volontà di pensare. Mangano ci introduce in maniera nuova all’invisibile nell’esistenza, sottolineando come tra reale e surreale lo scarto sia breve.
Affrontare il quotidiano con sfida per portarne alla luce i segreti, le ossessioni e le fantasie rappresenta la modalità con cui l’artista opera. Una semplice passeggiata nel parco può dunque riservare delle sorprese, come in Ablo Project (2009), recente lavoro video commissionato dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Abdullay Kadal Traore, musicista del Burkina Faso, cammina nei Giardini Pubblici Indro Montanelli a Milano, quando una giovane donna lo urta e lo sfida in silenzio: mettendosi la mano dentro la giacca, si strappa il cuore, glielo dona e scappa. Un atto violento e passionale. Inutili i tentativi del musicista di ritrovarla. Istintivamente lo si vede dare il cuore in pasto a un cane che arriva di corsa: una reincarnazione della donna, oppure un alleviamento della coscienza? Tramite questa breve storia cadenzata da sospensioni e aspettative, Mangano sembra voler riflettere sulla responsabilità della musica e sulla profonda irrazionalità che porta alla sorpresa.
Il mistero è il filo conduttore anche di Deaf Bikers (2009), primo mediometraggio dell’artista che vede protagonista un gruppo di motociclisti sordomuti in viaggio per paesaggi siciliani desolati, dove l’asprezza della natura si sposa con l’abbandono della civiltà. Presenze inquietanti popolano la scena: spiriti che preferirebbero rimanere nascosti, che osservano con timore e seguono a distanza il reale. L’invisibile è di nuovo in primo piano. Mangano fa parlare il silenzio, portandoci nei meandri della solitudine e dell’assenza. Tra il soggetto e il suo contesto sembra non esserci più scarto. Di nuovo la colonna sonora funziona da elemento narrativo, trasmettendo l’inquietudine di un’esistenza.
L’arte di Domenico Mangano coglie, registra, traduce, dischiude e infine avvia uno spazio alternativo: un luogo in cui realtà e artificio si combinano per comporre un nuovo mondo e stimolare uno sguardo autonomo. Anziché riprodurre le convenzioni, mette in moto la fantasia, animando lo spazio che si affranca così dal suo ruolo quotidiano.