Patrizia Ferri: Il centro di gravità impermanente del tuo lavoro è la tua persona come corpo collettivo e assoluto, un paradigma dove apparenza e interiorità coincidono non come monade, ma come termine di relazione con l’ambiente che lo accoglie e con l’altro da sé in una sinergia vitale che rimanda ai sani principi buddisti dell’impermanenza, vacuità e trasformazione. Che rapporto hai con la realtà e con te stessa?
Donatella Spaziani: Seguo gli insegnamenti del Sutra del Loto da molti anni e sicuramente questo mi allena a vedere la realtà come elemento aperto alla possibilità di continua trasformazione e l’ambiente come riflesso del mondo interiore. Non conosco la dottrina della vacuità come scuola buddista, ma nella dimensione visiva mi interessa la caratteristica del vuoto: è un territorio in cui si scatenano le emozioni e le contraddizioni, dunque si è costretti a individuare il punto focale oppure, semplicemente, ad assecondare questa dimensione. Con me stessa rido e piango spesso, sono un concentrato di contraddizioni, ma non sono abitudinaria e non ho manie. A volte perdo tempo e mi distraggo facilmente, so essere pigra in modo esagerato e altrettanto esageratamente riesco a lavorare per giorni, senza interruzioni e senza sentirne il peso.
PF: A fronte della spettacolarità incombente, della provocazione e dell’ironia fine a se stessa, del glamour che nasconde spesso banalità e omologazione, il tuo lavoro è una palestra per l’esercizio del limite e del silenzio, dell’introspezione e della melanconia. Ritieni che questo approccio paghi ora come ora?
DS: Lo spessore e la qualità di quello che viene prodotto è soggetto al giudizio del tempo e forse non occorreranno molti anni. Tutto il resto non è che un modesto riflesso dell’epoca che stiamo vivendo e che suppongo sparirà con il suo concludersi.
PF: Il corpo, questo sconosciuto: dagli anni Settanta, quando era usato dalle artiste come messa in scena di patologie in accezione ideologizzata e come denuncia politica radicale, a oggi, dove tu e altre artiste della tua generazione ne proponete la versione rovesciata dell’assenza come tramite, usandolo come sismografo di una dimensione intima e fluida, densa di sfumature e sensibilità sul concetto di differenza e relatività come condizione esistenziale condivisibile…
DS: Il corpo ti mette in relazione con tutta la realtà, con lo spazio e con il tempo: con il corpo attraversi la vita. Sono nata nel 1970 e cresciuta nella provincia italiana, in quel periodo non c’era il cinema nella mia città, quindi ho una formazione più letteraria che visiva (forse per questo non ho mai usato il video) e ancora oggi leggo molto, soprattutto scrittori contemporanei. Mi sono diplomata all’Accademia di Belle Arti che, in Italia, è spesso il luogo più lontano dall’arte, non esisteva Internet e la biblioteca si fermava agli inizi del Novecento. I miei primi punti di riferimento sono stati essenzialmente artisti uomini e non mi ponevo la questione femminile/maschile. All’inizio mi interessava fondamentalmente lo spazio, mi ero costruita il modellino di una stanza dove progettavo in scala delle installazioni con le lenzuola e i fili per sospenderle. Il primo lavoro che ho esposto erano delle maquette di materassi in lana e stoffa e delle polaroid che mi ritraevano nel tentativo di simulare un letto ideale per la postura. In realtà, quello che più mi interessava in quel momento era la forma del letto, il mio corpo mi serviva solo come modello per mostrarne l’utilizzo. In seguito ho iniziato a lavorare con l’autoscatto e con l’immagine, il mezzo fotografico ha introdotto la questione del tempo. Quando ho scoperto il lavoro delle artiste degli anni Settanta, le ho ammirate, ho invidiato i loro anni e ho provato gratitudine. Il mio percorso parte da premesse forse opposte alle loro ma che sono il risultato del mio tempo. Mi auguro che il mio lavoro sappia essere condivisibile, che possa parlare di piacere e di forza ma non mi interessa il risvolto autobiografico. Il corpo contiene il punto di solidità nella dimensione più interna, riposta e in questo senso intima, fornendo una consapevolezza che dia la possibilità di aprire un dialogo verso l’esterno e di attribuire significato alle esperienze.
PF: Oggi il discorso sulla confutabilità dell’opera, piuttosto in voga nella generazione dei primi anni Novanta, si ripropone: intendi l’opera in qualche modo come una sorta di teorema da dimostrare?
DS: Per un periodo, soprattutto nel lavoro con gli autoscatti, lo è stato; l’ho concepito come vera dichiarazione di intenti, mi davo regole e condizioni, ma ora questo mi interessa di meno. Il limite apre una possibilità che ti obbliga a trovare delle soluzioni, l’importante è che questi limiti non diventino la norma, perché nel tentativo di superarli deve esserci la spinta del cambiamento.
Procedo in modo apparentemente disordinato e con una voluta leggerezza, ma tendo a farmi delle domande e a pormi davanti allo spazio come chi debba risolvere un teorema, in fondo lo è, ma la risposta potrebbe anche non essere logica.
PF: Il tuo iter creativo è consequenziale ed estremamente lineare: ovvero, ogni tuo lavoro nasce per partenogenesi dal precedente, ed è la diretta, trasparente emanazione di un’esperienza poetica del quotidiano che trascende il limite soggettivo in una condizione metafisica e sospesa. Le problematiche sociali in tutto ciò ti sono estranee?
DS: Vivo totalmente immersa nella sociale quotidianità per cui mi riesce difficile prendere le distanze e teorizzare. L’arte ha il potere di trasformare, fa alzare lo sguardo e vedere il Ponte Casilino come uno spazio perfetto. Non ho la tendenza a dare priorità a pensieri astratti, preferisco la realtà e le persone. Spero in un umanesimo inteso come movimento collettivo di idee e di educazione che restituisca dignità all’uomo.
PF: Tornando al corpo, lo usi analogamente allo spazio come un materiale plasmabile concretamente e concettualmente in una dinamica di pesi, contrappesi e misure, tra stati d’animo, emozioni, metereologie fisiche e geografie psichiche. Un intreccio imponderabile che sviluppa un tessuto complesso che si decanta in luce, forma e bellezza, come hai sottolineato più volte, ma io leggo l’ombra, il rimosso, la frattura come l’altra faccia della tua ricerca. Cosa ne pensi?
DS: Penso che sia vero, c’è una frattura che se sottolineata si trasforma in segno e c’è l’ombra che se è ben illuminata può trasformarsi in un’immagine fantastica. Di rimosso c’è tutto quello che non è da rilevare.
PF: Spaziani nomen omen, da buco nero la dimensione fisica diventa spazio bidimensionale, pagina di racconti quotidiani, di abbandoni alla vita che ci scorre addosso e che tu trascrivi…
DS: Il passaggio dal reale tridimensionale al piano del foglio mi attrae perché mi permette di lavorare sul disegno; di tutte le pratiche questa è quella che più mi appartiene, mi pone in una dimensione in cui il tempo viene misurato solo dal mutare della luce che mi consente di essere completamente presente nel progetto o nel segno.